La crisi del lavoro sociale, tra fine della narrazione sussidiaria e working poor
Antonio Finazzi Agrò | 5 Dicembre 2024
L’articolo è tratto dall’intervento dell’autore al webinar di Welforum che si è tenuto il 25 giugno scorso: “Le professioni di aiuto in crisi. Vie d’uscita?”. Le riflessioni riportate nel testo sono frutto anche di un percorso portato avanti dall’Associazione Italiana Progettisti sociali in collaborazione con Welforum, che scaturisce da un “cantiere” associativo di confronto e maturazione di posizioni condivise, pur permanendo l’ovvia responsabilità diretta e personale dell’autore.
La crisi delle professioni di cura, che è insieme crisi sempre più acuta di reperimento di mano d’opera per i soggetti datoriali, prevalentemente del Terzo Settore, e crisi “vocazionale” per le nuove potenziali leve dei servizi di cura, educazione e aiuto alle frange più vulnerabili della popolazione, è ormai un fenomeno massivo, a carattere tanto locale quanto internazionale, largamente indagato nella ricerca di settore e variamente denunciato dai principali attori sociali. Qui proviamo anzitutto a richiamarne, più che le dimensioni quantitative per cui si rimanda all’ampia letteratura specialistica disponibile, le matrici causali e le principali caratteristiche, in una sorta di cronistoria del fenomeno che è a nostro avviso di lungo periodo, e quindi ad indicare alcune urgenti linee di azione.
Il “lavoro sociale” è vissuto per decenni in un rapporto di profonda osmosi con le pratiche di volontariato. Tali esperienze, alimentate a monte e a valle dalle agenzie di coesione sociale del Paese, in specie di matrice cattolica, per un lungo periodo hanno costituito un comportamento partecipativo se non proprio di massa almeno numericamente assai consistente, che ha riguardato in particolare le fasce più giovani della popolazione italiana. In un certo senso per alcune ampie minoranze la partecipazione ai sistemi del volontariato ha costituito un vero e proprio rito iniziatico, una tappa del processo formativo tra adolescenza e vita adulta, specie in una fase storica in cui, arretrando le esperienze di impegno politico, dagli anni ’80 in avanti, il volontariato nelle sue diverse forme ha finito per prendere il luogo di quelle, in quanto struttura di partecipazione collettiva e modello di scambio sociale.
Le professioni di cura e di aiuto, e tra queste in particolare le professioni educative poi via via qualificatesi in termini curriculari, geminavano da queste esperienze come opportunità economiche di inserimento lavorativo e carriera, mantenendosi tuttavia in tensione osmotica col serbatoio di ragioni, valori, propensioni e ideali del volontariato, che continuava ad alimentare in profondità, come una falda freatica, le motivazioni intrinseche al lavoro e anche numericamente le fila di chi al lavoro sociale sceglieva di dedicarsi. Lavorare nel sociale ha significato, e tuttora significa per molti delle generazioni tra gli anni ’60 e ’80 del secolo passato, non contraddire affatto le motivazioni della propria prima stagione di impegno nel volontariato, quanto semmai stabilizzarle in una forma non più desultoria o episodica, ma eleggerle e iscriverle in una cornice di impegno più totalizzante e caratterizzante rispetto al proprio progetto di vita.
Si pensi, emblematicamente, all’istituto dell’obiezione di coscienza prima, e al servizio civile dal 2001 in poi: quanti e poi quante professioniste, ingaggiate in queste esperienze storiche, si sono in seguito formate e radicate nelle organizzazioni del Terzo Settore, formando oggi quello strato per altro piuttosto esile di quadri e dirigenti del privato sociale?
Indagare oggi le ragioni della crisi del lavoro sociale significa a nostro modo di vedere tenere simultaneamente sott’occhio tanto i fattori economici quanto quelli culturali che l’hanno generata, tra loro in vario modo correlati. Sul piano economico e di mercato ciò cui oggi si assiste è una crisi generalizzata di offerta di mano d’opera, non dissimile da quelle che si manifestano in altri distretti produttivi, e astrattamente iscrivibile al fenomeno mondiale della cosiddetta “Great Resignation”, aggravata tuttavia dal fatto che la sottrazione di capitale umano al lavoro sociale non pare in alcun modo colmabile, né attualmente né in prospettiva, dallo sviluppo tecnologico. In quanto settore “labour intensive”, o comparativamente più labour intensive rispetto ad altri, il Terzo Settore non sembra avere chance di ripresa dalla crisi generalizzata delle professioni di cura e aiuto.
La crisi marcatamente flessiva delle retribuzioni nel Terzo Settore si iscrive nel più generale quadro della crisi dei salari e del loro potere d’acquisto in Italia. Si tratta di un fenomeno di lungo periodo, legato alla bassa produttività del lavoro da un lato e ai meccanismi di distribuzione del valore aggiunto dall’altro: se, in base ai dati OCSE, la produttività del lavoro in Italia è cresciuta assai poco nel trentennio, è d’altro canto noto che la quota di reddito nazionale distribuita ai salari, indicizzati al costo della vita, è progressivamente decresciuta a scapito dei rendimenti finanziari patrimoniali. Fenomeno questo che caratterizza la gran parte delle economie dei paesi sviluppati, ma che in Italia ha assunto caratteri più severi e vistosi. In tale contesto storico l’andamento delle retribuzioni nel Terzo Settore, che già non partivano avvantaggiate all’inizio del trend, ha assunto dimensioni talmente negative da relegare a pieno titolo le professioni sociali nella sacca del working poor e chi le esercita nei fenomeni di in-work poverty, anche per la prevalenza tra gli addetti, ma soprattutto tra le addette, di forme di lavoro atipiche e del part-time. Cosa che genera peraltro importanti effetti di gender gap salariale femminile, correlati all’evidente prevalenza della quota femminile nello stock degli addetti e del fenomeno, peraltro contraddittorio, del rapporto di genere a tutto vantaggio maschile tra le posizioni apicali delle organizzazioni.
Il recente rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori delle cooperative sociali, ad oggi adottato dal Ministero del Lavoro e delle politiche Sociali come accordo maggiormente rappresentativo e come tale imposto come parametro di calcolo delle base di gara in appalti pubblici riguardanti i servizi socio educativi e assistenziali, ha in parte mitigato il fenomeno, non risolvendolo tuttavia per almeno due ragioni: anzitutto, benché più rappresentativo, si tratta di un accordo che non trova applicazione universale tra le organizzazioni del Terzo Settore le quali, in base alla propria tipologia giuridica, hanno facoltà di adottare una congerie di altri accordi spesso meno remunerativi, quando non decisamente in dumping, rispetto alle medesime funzioni e profili. In secondo luogo, al di fuori delle gare d’appalto rispetto alle quali il rinnovato accordo si pone immediatamente, per decretazione, come vincolante, esiste un vasto campo d’offerta socio educativa e assistenziale a committenza prevalentemente se non esclusivamente pubblica giuridicamente non vincolata ad un’automatica rivalutazione delle tariffe e dei costi delle prestazioni, nonostante i nuovi accordi in essere. È questo il caso di tutti i servizi in accreditamento con gli enti locali, per prestazioni socio assistenziali residenziali e semiresidenziali, le cui tariffe sono stabilite, quando sono stabilite, dal regolatore regionale al di fuori di qualunque vincolo di legge rispetto alla puntuale e tempestiva indicizzazione ai costi effettivi del lavoro. Si tratta di un frangente drammatico, che non a caso sta generando moltissima tensione tra rappresentanze del Terzo Settore ed Enti locali, e per le ragioni che esporremo tra poco, assai preoccupante anche per i riflessi di autentica deflagrazione del patto sussidiario che esiste, o dovrebbe sussistere, tra Stato e Terzo Settore.
Proprio la frattura del patto sussidiario, tra Pubblica Amministrazione e Terzo Settore, è il secondo dei fattori causali, quello più marcatamente culturale ma inevitabilmente embricato con i fatti di natura economica, da chiamare in causa nell’indagine della crisi delle professioni di cura e di aiuto. Ciò di cui siamo in presenza oggi è niente meno che la crisi di una grande narrazione, la “narrazione sussidiaria”, che come tutte le grandi narrazioni ha funzionato da cornice retorica e struttura di legittimazione dei molteplici scambi, sia impliciti che espliciti, intessutisi tra Stato e società, tra politica e società civile e, in luogo loro, tra Pubblica Amministrazione e Terzo Settore. Per decenni il loro rapporto dinamico si è iscritto in una potente e persuasiva affabulazione secondo la quale la società del welfare, cioè la società dell’interesse generale e del bene comune, scaturiva e non poteva che scaturire all’intersezione di due grandi aree di responsabilità sociale: una delegata e positiva, di tipo istituzionale, tipica della Pubblica Amministrazione, e una spontanea e naturale, tipica della società civile. Così ad esempio la Sent. C. Cost. 131/2020, intervenuta su questioni di legittimità degli istituti di co-programmazione e co-progettazione di cui all’art. 55 del D.lgs. 117/2017: un testo tutto concepito a margine e commento dell’art. 118 della Costituzione sul principio di sussidiarietà, a nostro modo di vedere paradigmatico e autorevole per il registro non soltanto giuridico, ma etico e civile assai sostenuto che adotta; e tuttavia un testo che sembra descrivere un quadro almeno in parte superato dai fatti che si sono venuti cumulando e dalla concretezza, talvolta della ruvidezza degli scambi manifestatisi tra PA e Terzo Settore. Al postutto, un testo alto e bellissimo, che è però impossibile leggere senza un’acuta sensazione di nostalgia.
La questione è che l’azione sussidiaria in Italia si è storicamente basata non soltanto su giacimenti solidaristici di provata tenuta e durata, frutti di una tradizione molto risalente nel tempo, ma anche su costanti meccanismi di alimentazione delle aree di responsabilità, istituzionale e civile, così disposti da far sì che il loro incrocio risultasse generativo per entrambe più che reciprocamente estrattivo, ed estrattivo al punto tale da provocarne, come a noi pare stia accendendo, l’esaurimento.
Ciò perché i motori che le alimentavano a monte, il motore della politica da un lato, coi suoi sistemi di formazione del consenso, e il motore della vita sociale dall’altro, con le sue agenzie educative/coesive e i suoi corpi intermedi, erano assai robusti e vivaci. E per di più operavano in coppia. C’era cioè imbrigliatura reciproca tra i due meccanismi genetici della responsabilità sociale, quella istituzionale e quella civile. Ora a noi pare evidente che entrambi i motori si siano piantati. Non di colpo: è da molto che i motori rallentavano e perdevano giri, e cosa anche peggiore operavano con un regime di giri non più sincrono. Per diverso tempo si è andati avanti sfruttando i giacimenti, senz’altro ingenti, della solidarietà e sussidiarietà, salvo accorgersi, con l’affacciarsi al lavoro delle nuove generazioni, quelle che non hanno partecipato alle agenzie formative degli attuali cinquantenni e oltre – obiezione di coscienza, movimentismo cattolico, attivismo politico – che quelle risorse non erano affatto rinnovabili. Ad un approccio marcatamente generativo espresso da consistenti minoranze ha fatto purtroppo riscontro nei decenni un approccio estrattivo, da parte soprattutto delle agenzie committenti pubbliche. Agenzie che, finanziariamente strette da una generale crisi delle risorse fiscali e da una conseguente contrazione dei bilanci destinati alla solidarietà sociale, e – occorre dirlo – ideologicamente succubi di una versione minimalista dello Stato sociale, hanno colto nelle forme delle generatività sociale non un processo virtuoso da sostenere, sia direttamente attraverso la congruità delle commesse e degli affidamenti sia indirettamente attraverso lungimiranti investimenti e incentivi, ma semplicemente e al netto di molta fastidiosa retorica un’opportunità di massimizzazione del risparmio. A questo approccio estrattivo di parte pubblica ha fatto riscontro un simmetrico approccio estrattivo di parte privata, ad opera di organizzazioni del Terzo Settore sempre più imprenditorializzate, cioè orientate a perseguire interessi privatistici a discapito di interessi pubblicistici, con effetti a cascata sia verso i portatori di interesse interni – socie e soci, lavoratrici e lavoratori – sia esterni – utenti e destinatari dei servizi. Non si spiega altrimenti a nostro modo di vedere la progressiva mercatizzazione del Terzo Settore, e la spinta a cui è stato sottoposto in direzione di una progressiva scomposizione competitiva, manifestamente contraddittoria quanto agli impatti di coesione sociale che complessivamente dovrebbe perseguire.
Le possibili linee di azione per un’inversione di tendenza, in attesa di una ripresa e rilancio autentici dell’azione sussidiaria (che a noi pare affidata sia in termini di principi che di prassi all’effettiva e integrale attuazione degli istituti di co-programmazione e co-progettazione di cui all’art. 55 del D.lgs. 117/2017), passano per una revisione integrale delle modalità di contrattazione collettiva tra le parti sociali e, ad avvenuta concertazione, di integrale applicazione dei costi effettivi come determinati nei contratti “più rappresentativi” nei sistemi tariffari dei servizi e delle prestazioni sociali.
Anzitutto la concertazione contrattuale: è impensabile e contraddittorio che nel Terzo Settore, che nonostante la sua frammentazione si caratterizza per un sistema di offerta di servizi e prestazioni sostanzialmente omogeneo, trovino applicazione una pluralità di contratti di lavoro, alcuni dei quali manifestamente in dumping. Occorrerebbe, anche sul lato della committenza, rendere obbligatoria e vincolante nelle procedure a contrarre l’applicazione di un unico contratto delle lavoratrici e dei lavoratori del Terzo Settore, o l’applicazione nell’integralità dei suoi istituti del contratto più rappresentativo, che è ad oggi il CCNL delle Cooperative Sociali.
Poi il ruolo della parte pubblica nell’esercizio di responsabilità sociale verso le lavoratrici e i lavoratori del comparto, che deve superare il mero arbitrato: il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dovrebbe rendere con successiva decretazione immediatamente vincolante tale contratto e i costi del lavoro che ne derivano, tanto per gli enti datoriali quanto per le stazioni appaltanti, e non solo in sede di determinazione della base economica in nuove gare d’appalto, ma anche come già richiamato per tutti i sistemi regolativi dell’offerta basati sull’accreditamento.
Naturalmente, poiché gli effetti di tali determinazioni economiche, realizzate in un contesto di negoziazione tra privati ma in un mercato delle prestazioni esternalizzato a sostanziale mono committenza pubblica, hanno immediati effetti sui bilanci delle diverse amministrazioni, bisognerebbe anche presupporre che il decisore istituzionale sia parte attiva tra le altre parti sociali nei tavoli di concertazione dei rinnovi, perché possa da un lato sostanzialmente esercitare la propria responsabilità sociale verso le lavoratrici e i lavoratori, e possa dall’altro prevenire possibili derive patologiche di una dialettica di mercato esercitata senza il vincolo delle risorse.
L’assunzione di responsabilità diretta del decisore istituzionale nei processi di concertazione contrattuale ricollocherebbe, inevitabilmente, l’Amministrazione Pubblica al centro della dialettica tra le parti concertanti. Ma questo mutamento, questa “reinternalizzazione” della responsabilità sociale verso le lavoratrici e i lavoratori andrebbe salutata positivamente, dato che proprio la privatizzazione del conflitto sociale e dei suoi costi tra parti datoriali e lavoratori all’interno delle organizzazioni del privato sociale e, al loro esterno, tra servizi sociali e utenti, è stata una delle forme più inique e dannose di scambio, solo in apparenza sussidiario, tra Pubblica Amministrazione e Terzo Settore, e a nostro modo di vedere va individuata come la principale responsabile di quella frattura del patto sociale, che abbiamo richiamato tra le cause della crisi delle professioni educative e sociali nel Terzo Settore.