La direttiva europea sui salari minimi


Marcello NatiliStefano Ronchi | 4 Novembre 2022

In seguito all’approvazione da parte del Parlamento europeo (505 voti favorevoli, 92 contrari, 44 astensioni), il 4 ottobre 2022 il Consiglio dell’Ue ha dato il via libera definitivo alla direttiva che promuove maggiore adeguatezza ed inclusività dei salari minimi, oltre a supportare un maggiore sviluppo della contrattazione collettiva nei Paesi dell’Unione1. Gli Stati membri avranno due anni di tempo per recepirla.   La proposta di una direttiva europea sui salari minimi fu lanciata esattamente due anni fa, nell’ottobre 2020, dalla Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, la leader espressa dal Partito popolare europeo ed esponente di spicco dei Cristiano-democratici tedeschi, ovvero le stesse forze politiche che il decennio scorso si erano arroccate su posizioni pro-austerità, favorendo strategie di svalutazione piuttosto che di rafforzamento dei salari. Non a caso Torsten Müller e Thorsten Schulten, osservatori privilegiati dallo European Trade Union Institute e dal’Istituto di ricerca della Fondazione Hans Böckler, individuano nella direttiva sui salari minimi un cambiamento paradigmatico nella visione delle istituzioni Ue su lavoro e contrattazione collettiva. Ma cosa propone esattamente la direttiva? E come si è arrivati a questa svolta?  

Il contesto: fra aumento della povertà lavorativa ed erosione della contrattazione collettiva

La direttiva europea arriva a seguito di un lungo periodo di erosione dei diritti e peggioramento delle condizioni sociali dei lavoratori in Europa, in particolare di quelli più vulnerabili. La figura 1 mostra l’andamento della povertà lavorativa nell’Ue dal 2005 al 2020. In media, la percentuale di lavoratori con redditi al sotto della soglia di povertà è salita da poco più dell’8% nel primo decennio al picco di 9,6% nel 2016, a seguito della crisi finanziaria globale e della crisi dell’Euro. La pandemia da Covid-19 prima, e crisi energetica ed inflazione oggi aprono prospettive ancora più grigie sul potere d’acquisto dei salari dei lavoratori vulnerabili. I livelli più alti di povertà lavorativa si sono registrati nei paesi cosiddetti GIIPS (Sud Europa + Irlanda), che furono colpiti in misura maggiore dalla crisi del decennio scorso, e in quelli dell’Est. Quello che sorprende è però il notevole incremento della povertà fra i lavoratori dei Paesi continentali (tra cui Germania e Francia), meno esposti all’eurocrisi. Solo nel Nord dell’Ue (Danimarca, Finlandia, Svezia) la povertà lavorativa è rimasta sotto controllo.  

Figura 1 – La povertà lavorativa nell’Ue, dal 2005 al 2020 (dati Eurostat)

    

L’aumento del numero di lavoratori poveri è dovuto alla progressiva erosione dell’efficacia delle istituzioni a tutela dei salari minimi. Quest’ultime variano notevolmente tra i paesi Ue. 21 paesi sono dotati di salari minimi legali, che non esistono invece in Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia. In questi 6 paesi a giocare un ruolo fondamentale nella fissazione dei minimi salariali è la contrattazione collettiva – che d’altra parte integra (al rialzo) l’intervento diretto dello stato anche in molti paesi dotati di salario minimo legale. Al di là della varietà, in quasi tutti i paesi Ue le istituzioni di protezione dei salari minimi si sono indebolite nel corso degli ultimi due decenni, sia per l’accelerazione di cambiamenti socioeconomici che per scelte politiche (per es. la riduzione o il mancato aggiornamento all’inflazione dei salari minimi legali).   La figura 2 mostra come i livelli dei salari minimi legali (ove presenti) espressi in percentuale del salario medio (A) e mediano (B) nazionale sono cambiati dal 2000 al 2020, anno di lancio della direttiva. Nella maggioranza dei casi gli importi si sono notevolmente ridotti. Dato ancor più importante, nessun paese nel 2020 soddisfaceva entrambi i requisiti di adeguatezza suggeriti dalla direttiva sui salari minimi (linee tratteggiate in rosso): solo la Francia vi si avvicinava.   La figura 3 fotografa invece un secondo trend altrettanto noto: il calo generalizzato della copertura della contrattazione collettiva. La linea tratteggiata indica l’obiettivo dell’80% indicato dalla direttiva: solo 8 Paesi Ue, fra cui l’Italia, superano questa soglia. Si noti che il 100% di copertura per l’Italia si riferisce ai lavoratori aventi diritto alla contrattazione; inoltre, la copertura virtualmente universale nulla dice sui punti deboli della contrattazione in Italia, come la proliferazione di contratti collettivi settoriali, la poca chiarezza sui loro ambiti di applicazione, e l’esistenza di contratti ‘pirata’ con minimi salariali molto bassi.  

Figura 2 – Salari minimi legali in percentuale del salario nazionale lordo medio (A) e mediano (B), nell’anno 2000 e nel 2020 (Dati Ocse)

  

Figura 3 – Tassi di copertura della contrattazione collettiva, nell’anno 2000 e nel 2019 (dati OECD/AIAS ICTWSS)

 

I contenuti della direttiva Ue sui salari minimi

La direttiva mira a dare concretezza al sesto principio del Pilastro europeo dei diritti sociali, che riguarda la garanzia di una ‘retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso’ ai lavoratori. La base legale su cui si regge la direttiva è, in realtà, piuttosto fragile. Infatti, se da un lato l’articolo 153 del TFUE fa generico riferimento alle ‘condizioni di lavoro’ come materia a competenza concorrente Ue-Stati membri, dall’altro esclude le ‘retribuzioni’ dal proprio campo di applicazione. Il terreno su cui è stata costruita la direttiva è reso ancor più scivoloso dalle profonde differenze istituzionali fra i modelli nazionali di contrattazione e wage-setting. Alla luce di ciò, la direttiva non obbliga i Paesi membri né ad armonizzare i propri modelli di contrattazione, né a definire salari minimi legali su importi specifici, proponendo piuttosto delle linee guida su tre assi di intervento:

  • La promozione di procedure per rendere adeguati ed aggiornare i salari minimi legali, laddove questi siano già presenti. I paesi che registrano un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore all’80% (come l’Italia) non sono dunque obbligati a recepire questa norma. La direttiva invita tuttavia ad intervenire sull’adeguatezza dei salari minimi, sia che vengano stabiliti tramite intervento legislativo che tramite contrattazione collettiva. La scelta del metodo viene largamente lasciata ai governi nazionali, che possono decidere se aggiornare gli importi dei salari minimi secondo valori di riferimento usati nella prassi nazionale (per esempio panieri di beni e servizi a prezzi reali), o se utilizzare soglie comunemente usate a livello internazionale, come quella del 60% del salario mediano lordo e 50% del salario medio lordo.
  • Il rafforzamento della contrattazione collettiva, che viene riconosciuta come elemento essenziale nella determinazione di salari minimi inclusivi ed adeguati. Gli Stati membri in cui meno dell’80% dei lavoratori è interessato dalla contrattazione collettiva dovranno, di concerto con le parti sociali, stabilire un piano d’azione per aumentare tale percentuale, comunicando alla Commissione misure e tempi specifici.
  • L’avvio di meccanismi di monitoraggio della copertura e dell’adeguatezza dei salari minimi. È interessante notare, al riguardo, che la direttiva specifica che i paesi in cui la protezione dei salari minimi è garantita esclusivamente dalla contrattazione dovranno notificare alla Commissione i livelli di paga più bassi indicati dai contratti collettivi, oltre ai livelli minimi salariali per i lavoratori e i settori non coperti dalla contrattazione. L’auspicio è di favorire maggiore inclusività per quanto concerne le tutele sui salari minimi, anche per i lavoratori ai margini del mercato del lavoro (i cosiddetti outsider) e/o occupati in settori scarsamente sindacalizzati, oggi scarsamente tutelati anche in termini di remunerazione.

Come le dinamiche politiche hanno superato le differenze territoriali e istituzionali fra Paesi membri

Fino all’annuncio da parte di Von der Leyen nel 2020, la delicata questione della definizione dei salari minimi non aveva mai raggiunto l’agenda della Commissione. L’ampia eterogeneità fra sistemi di wage-setting nazionali aveva infatti fatto da freno a un tema che avrebbe facilmente messo in disaccordo non solo destra e sinistra, ma più in generale paesi con modelli sociali e tradizioni sindacali differenti. Inoltre, il salario minimo legale ha per lungo tempo incontrato diffuso scetticismo non solo fra partiti conservatori e associazioni datoriali, ma anche in molti sindacati che vedevano l’intervento dello stato nel settore come un’ingerenza nei confronti dell’autonomia sindacale – mentre, in questa interpretazione, la contrattazione collettiva avrebbe protetto i lavoratori meglio di scelte politiche che si temeva innescassero una corsa al ribasso nei minimi salariali (è questa la posizione ancora dominante nei paesi nel Nord Europa).   Il dilagare della povertà lavorativa, la difficoltà per i sindacati nel raggiungere settori e lavoratori marginali, e la generale erosione della contrattazione collettiva hanno però contribuito a spostare gli equilibri politici in molti paesi europei. Primo fra tutti la Germania, dove, a fronte di una progressiva perdita di capacità di offrire protezione ai lavoratori più vulnerabili tramite la contrattazione, sindacati e Social-democratici hanno spinto per l’introduzione di un salario minimo legale, entrato in vigore a gennaio 2015. Tali dinamiche politiche non hanno tardato a riflettersi sul livello europeo. La maggioranza delle forze progressiste, dall’ Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici primo promotore della direttiva fino ai Verdi e la Sinistra Unitaria Europea, passando anche per il Presidente francese Macron e i liberali di Renew Europe, si sono fatti portavoce di tale richiesta. I riallineamenti politici nazionali hanno dunque ‘contagiato’ la politics europea. Una volta politicizzata a Bruxelles, la questione dei salari minimi non ha tardato a raggiungere la Commissione. Infatti, nel 2019, l’inserimento della direttiva sui salari minimi nel programma dell’allora candidata di centro-destra alla Presidenza fu funzionale ad assicurare a Von der Leyen un appoggio sufficientemente ampio nel Parlamento europeo.   Il percorso della direttiva non è stato, però, senza intoppi. Nonostante il supporto convinto della confederazione sindacale europea (ETUC), nei Paesi del Nord Europa, soprattutto in Danimarca e Svezia, governi, sindacati e partiti di ogni colore si sono opposti alla misura con forza, ottenendo importanti concessioni. La direttiva, uscita in forma ‘annacquata’ delle mediazioni necessarie nel Consiglio Ue, non va effettivamente a toccare i modelli nazionali che ancora funzionano efficacemente, specie quello ‘nordico’ di non-interferenza dello stato in materia di contrattazione e definizione dei salari. La direttiva costituisce invece un’arma fondamentale per dare voce ai sindacati laddove questi sono deboli, come ad esempio in molti Paesi dell’Est Europa, dove questi sono stati rilegati a un ruolo estremamente marginale a seguito dalla transizione post-socialista. Inoltre, come notato da Muller e Schulten, la direttiva ha iniziato a far sentire i suoi effetti in molti paesi già prima dell’effettiva adozione. Per esempio, la Germania ha da poco alzato il salario minimo legale da 10,45 a 12€ all’ora, una cifra vicinissima al 60% del salario mediano. Il governo irlandese ha annunciato che l’attuale salario minimo verrà rimpiazzato entro il 2026 da un nuovo ‘living wage’ fissato al 60% del salario mediano. In maniera simile, Il Ministro dell’Economia e del lavoro belga e la federazione dei sindacati olandesi hanno evidenziato l’inadeguatezza delle misure nazionali rispetto ai nuovi standard Ue.   E in Italia? Anche se, secondo quanto indicato dalla direttiva, l’Italia non sarebbe tenuta a intervenire, quello del salario minimo legale è stato uno dei temi portanti della campagna elettorale dei partiti di centro-sinistra e del Movimento Cinque Stelle. La vittoria della destra, tuttavia, potrebbe spostare il focus delle politiche sociali e del lavoro ben lontano da questo tema.

  1. European Commission, Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on adequate minimum wages in the European Union, Brussels, 28October 2020, COM(2020) 682 final