La gestione sociale dell’abitare
I dati nazionali sul disagio abitativo segnalano l’aggravarsi dei problemi di accesso all’alloggio per un numero crescente di persone. Negli anni recenti il numero degli sfratti è aumentato in modo esponenziale: da circa 27.000 sfratti per morosità nel 2001 siamo passati a più di 100.000 nel 2017, di cui 32.000 eseguiti (Nomisma-Federcasa 2020). Sul totale delle famiglie in affitto la quota di quelle che devono pagare un canone superiore al 30% del reddito è più che raddoppiata dal 1993 al 2016, arrivando a circa il 35% del totale delle famiglie in affitto (ibidem). Secondo le ultime rilevazioni Eurostat disponibili, nel 2018 le famiglie in condizioni di sovraffollamento erano il 27,8% del totale. Come sottolineano molti osservatori, la questione abitativa italiana non è più collegata solo al tema degli standard abitativi (per quanto situazioni di grave sovraffollamento e insalubrità siano frequenti per i nuclei familiari a reddito più basso) ma all’affordability, cioè all’accessibilità al mercato dell’affitto o dell’acquisto, soprattutto da parte della fascia di popolazione che accede per la prima volta al mercato immobiliare (Mugnano, 2022; Bricocoli e Peverini su Welforum.it, 2022). Questi dati appaiono tanto più rilevanti se si pensa al numero di abitazioni non occupate (oltre 7 milioni sul territorio nazionale secondo il censimento Istat del 2011). Le giovani generazioni e le popolazioni immigrate sembrano quelle che soffrono di più da questo punto di vista. È noto che per molti giovani l’accesso al mercato abitativo risulta un percorso in salita, costellato da notevoli difficoltà. A fronte di questo cumulo di problemi, l’edilizia pubblica in Italia da sempre è stata un dispositivo di politica abitativa marginale sia in termini assoluti che in relazione ad altri contesti europei. Solo il 4% dello stock abitativo in Italia è rappresentato da alloggi di edilizia residenziale pubblica, contro paesi in cui la percentuale si presenta a due cifre (per es. il 36% dei Paesi Bassi, il 22% del Regno Unito e il 20% della media UE; OCIS 2021). Da un lato è registrabile un numero sempre maggiore di sfratti, e quindi di famiglie in stato di grave emergenza abitativa, dall’altro lato l’offerta di edilizia residenziale pubblica si è ridotta negli anni anche per effetto della politica di alienazione degli alloggi che ha portato tra il 1993 e il 2013 alla perdita di oltre il 22% del patrimonio. Tale politica, che ricade nell’alveo degli interventi di matrice neoliberista già attuati anche in altri paesi europei (si veda la policy del “right to buy” britannica), viene giustificata con l’esigenza delle Aziende Casa regionali (che avevano sostituito gli Istituti Autonomi delle Case Popolari) di autosostenersi e risanare i bilanci, sviluppando anche nuovi investimenti in manutenzione del patrimonio esistente e allargando l’offerta abitativa. Nonostante le aspettative, la vendita non ha generato un flusso di finanziamento tale da permettere la costruzione di un nuovo stock, che ha visto una sua consistente riduzione (Federcasa 2013). Questo ha avuto importanti conseguenze sulle condizioni dell’abitare, portando a una presenza sempre più importante nei quartieri dell’edilizia pubblica di famiglie con una grande complessità di disagio sociale, tale da rafforzare meccanismi di isolamento, relazioni difficili o assenti con i servizi territoriali e conflittualità con enti gestori. Per complicare ancora di più la situazione, possono coesistere sia condomini totalmente pubblici che condomini misti. Tale convivenza porta spesso alla costruzione di nuove forme di segregazione e stigmatizzazione interne al quartiere stesso, che si giustappongono pericolosamente a quelle preesistenti (Nuvolati, Terenzi, 2022). È in questo quadro che emerge la crescente attenzione da parte di decisori, tecnici e operatori verso l’approccio della gestione sociale dell’edilizia pubblica. In Europa questo approccio ha già una storia (Costarelli, 2022). Nel nostro paese siamo ancora alla fase di cantiere ma vi sono esperienze più avanzate in alcuni contesti territoriali. Un caso apripista è il programma Microaree, nato nel 2005 a Trieste per iniziativa dell’Azienda Sanitaria in collaborazione con il Comune e l’Azienda pubblica per la casa, con l’obiettivo di sviluppare un sistema di interventi e servizi integrati per la salute radicato nei quartieri della città con prevalenza di edilizia pubblica e famiglie a basso reddito (Bono, 2022). A Milano un’iniziativa recente che va in una direzione simile è il progetto C.A.S.A. (Centri Aler per i Servizi Abitativi) promosso dall’Azienda Lombarda per l’edilizia residenziale (Aler) e realizzato insieme all’Università di Milano Bicocca, al Politecnico di Milano e all’Università Bocconi. Il progetto è incentrato sulla creazione di presidi territoriali in quattro quartieri di edilizia pubblica della città e mira non solo ad avvicinare l’ente gestore agli abitanti ma anche a creare un sistema di servizi territoriali integrati per il miglioramento della qualità sociale dell’abitare, con ruoli e competenze professionali dedicate. Oltre a coinvolgere l’Azienda sociosanitaria territoriale e due associazioni che si occupano di contrasto alla violenza domestica, l’Aler ha dato vita alla figura del Community Manager, una professionalità nuova nel panorama italiano le cui competenze sono state oggetto di una lunga fase di formazione (chi scrive ha lavorato con altri alla progettazione e attuazione dell’attività formativa). Per quanto riguarda le strategie di respiro nazionale, va evidenziato l’impegno che la Federazione italiana delle aziende per l’edilizia residenziale pubblica – Federcasa – ha negli anni recenti dedicato alla definizione e diffusione delle metodologie della gestione sociale dell’edilizia pubblica e, anche in questo caso, alla formazione di competenze specifiche inedite in Italia (la cui esperienza è stata recentemente sistematizzata da Bifulco e Mozzana, 2022). Qualificare come sociale la gestione degli alloggi pubblici significa, in estrema sintesi, guardare all’abitare come esperienza intessuta di relazioni, anche conflittuali: fra le persone che condividono contesti e spazi – il caseggiato, il quartiere -; fra le persone e i servizi che in vario modo sono corresponsabili del loro ben-essere. Significa occuparsi, per esempio, di come migliorare la qualità della vita nei quartieri; come conoscere i bisogni e le situazioni costruendo un sistema informativo efficace; come integrare e coordinare i servizi – sociali, sanitari, scolastici e formativi – fondamentali per la vita quotidiana; come mediare i conflitti; come accompagnare le persone per ridurre o superare le loro situazioni di fragilità economica, sanitaria e sociale; come garantire un accesso effettivo ai servizi essenziali; come promuovere la cura degli spazi fisici in cui si vive e convive con altri, contrastando attivamente il degrado; come facilitare la partecipazione sociale di persone in condizioni di disagio; come assicurare legalità e condivisione delle responsabilità migliorando sia la coesione sociale sia la cura del patrimonio immobiliare; come monitorare e prevenire situazioni di marginalità. L’associazione fra sociale e abitare non è però appannaggio dell’edilizia pubblica. Con accezioni diverse, questa associazione ha infatti guadagnato negli anni recenti un’attenzione crescente, in Italia così come in altri paesi europei, in alcuni domini collegati ma distinti fra loro. Si pensi al social housing o all’abitare condiviso/co-housing (Costa, Bianchi, 2020). Il dominio più ampio è quello dell’abitare sociale, che oltre alla sostenibilità economica dell’alloggio, porta al centro temi e obiettivi quali la rigenerazione dei quartieri e delle periferie urbane, la valorizzazione degli spazi pubblici, la promozione della partecipazione sociale e di una cittadinanza inclusiva, lo sviluppo della convivenza interculturale e intergenerazionale, la riqualificazione energetica, il miglioramento delle condizioni di salute e ben-essere. Iniziative recenti intraprese a macchia di leopardo da diverse amministrazioni locali segnalano la presa crescente di questa prospettiva che riarticola e rilancia la filosofia della rigenerazione urbana ispiratrice delle politiche per la città messe in atto in Italia dagli anni ’80 in poi. Per schematizzare il complesso dei motivi che hanno dato forza all’associazione fra abitare e sociale, possiamo isolare in particolare:
- l’esigenza percepita anche da parte degli enti gestori di ripensare all’abitare come esperienza complessa, non riducibile alla sua dimensione prettamente fisico-spaziale;
- la spinta a sopperire a risorse pubbliche in diminuzione con l’iniziativa – e le risorse – di soggetti privati;
- la pressione esercitata da una domanda sociale di inclusione e democratizzazione, sulla scia di istanze più generali di giustizia spaziale e diritto alla città;
- l’evidenza assunta da una nuova domanda abitativa, orientata congiuntamente alla sostenibilità economica e alla sperimentazione di modelli inediti di convivenza;
- la formulazione di strategie di welfare abitativo coerenti con la razionalizzazione e la riorganizzazione dei bilanci pubblici;
- la centralità assegnata nelle agende politiche alle questioni della sicurezza e della legalità in ambito urbano, specie – ma non solo – nelle periferie;
- l’adesione a un policy framing molto influente in Europa che punta sull’empowerment e sull’attivazione traducendoli prevalentemente in termini di responsabilità personale e/o comunitaria.
Questa pluralità di motivi fa intravedere la molteplicità di direzioni in cui la gestione sociale dell’edilizia pubblica può svilupparsi. Effettivamente, in alcuni contesti europei sono rilevabili approcci “moralizzanti” e selettivi che finiscono con il legittimare l’esclusione dagli alloggi popolari delle fasce più povere della popolazione a favore di quelle in condizioni socio-economiche migliori (studenti universitari, giovani, famiglie di ceto medio, ecc.), in grado di corrispondere di più a modelli di gestione sociale che presuppongono ed enfatizzano la capacità di contribuire responsabilmente alla buona gestione del patrimonio immobiliare (Costarelli, Dodaro 2021). D’altra parte, l’attenzione alla dimensione sociale dell’abitare può anche inserirsi in un processo di rilancio dell’edilizia pubblica orientato a imparare dagli errori del passato e capace di riconoscere e valorizzare le risorse degli abitanti, di tutti non solo quelli che stanno meglio. In questo caso, ad essere chiamata in causa non è soltanto la capacità degli abitanti di organizzarsi per una gestione partecipata, ma anche la volontà e la capacità politica e amministrativa di affrontare la crisi abitativa nella sua complessità quantitativa e qualitativa. Serve dunque ribadire che parlare di gestione sociale non vuol dire eludere né tanto meno risolvere un problema che è di tipo strutturale e richiede risposte strutturali. La gestione sociale può però aiutare a salvaguardare e valorizzare il patrimonio abitativo pubblico dando attuazione a criteri congiunti di efficienza amministrativa, giustizia sociale, qualità. Non è roba da poco.