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Si avvia alla conclusione la revisione della legge regionale 23, introdotta sperimentalmente sei anni fa e (abbondantemente) giunta al termine della sua quinquennale durata prevista. Agenas ha prodotto, lo scorso inverno, un corposo e dettagliato report di analisi degli effetti prodotti da questa norma, con luci e ombre.
Ora abbiamo la proposta di una nuova legge da parte della Giunta regionale (d.g.r. 5068 del 22 luglio scorso). Un nuovo atto che introduce diverse modifiche non già direttamente alla legge 23/2015 ma all’atto che la precede, l. r. 33 del 2009 (testo unico delle leggi regionali in materia di sanità). Si tratta in alcuni casi di micro aggiustamenti, in altri di modifiche di sostanza.
Non è qui mia intenzione di farne una disamina completa, ma di cogliere alcuni aspetti che la caratterizzano e che hanno colpito uno sguardo complessivo sulle direzioni verso cui si muove il sistema sanitario lombardo.
Evoluzioni
La proposta di legge introduce chiarificazioni sul diverso ruolo di ATS e ASST, identifica nei distretti un ruolo cruciale per la sanità territoriale da rafforzare, che diventano una sorta di hub del complesso della rete dei servizi, anche nuovi, prefigurando una coincidenza tra distretto sanitario e ambito sociale (Piani di zona). Dedica un peso diverso ai Comuni e (art. 25) alle Conferenze dei sindaci, che all’interno delle ASST esprimono pareri sulla programmazione dei servizi e partecipano alla definizione dei piani sociosanitari territoriali.
Ciò sembra porre le basi per una integrazione tra sociale e sanità, un’integrazione che manca in questa regione da molti anni.
Il tema che si apre è come si passa da un livello di decisionalità integrata a un livello di operatività integrata: evidentemente non basta coinvolgere i Sindaci se poi mancano canali, strumenti, risorse per realizzare una gestione coordinata dei servizi, dalla presa in carico, alla cura, e così via. Che ciò venga gestito e risolto caso per caso non può rappresentare una risposta.
E passi indietro
Il primo riguarda il ruolo del privato. Con la pandemia è montato l’auspicio di un riequilibrio tra pubblico e privato nella sanità lombarda. Questi appelli non solo vengono disattesi in questa nuova legge, ma sembra che si vada in direzione opposta. L’articolo 11 (testualmente dalla Relazione illustrativa) “consente ai soggetti erogatori privati di concorrere all’istituzione dei presidi territoriali previsti dalla legge: i presidi ospedalieri territoriali (POT) nell’ambito dei quali sono collocati gli ospedali di comunità e i presidi sociosanitari territoriali (PreSST) all’interno dei quali trovano collocazione le Case della comunità”.
Si arriva a parlare di “equivalenza” (art. 1) tra pubblico e privato, là dove il primo ricopre evidentemente responsabilità diverse per la salute delle persone. In una regione che da sempre enfatizza la libertà di scelta dei cittadini ma dove la valutazione dei loro bisogni è in gran parte demandata agli enti gestori (privati) dei servizi, con evidenti conflitti di interesse, occorre riaffermare il ruolo “pubblico” nell’accesso alla rete di assistenza, su principi di imparzialità, competenza, appropriatezza. Pena la creazione di una giungla di interventi diversi, che si muovono secondo criteri e regole arbitrariamente definiti in termini di costi, localizzazione, tipo di organizzazione, orari, procedure per accedervi.
Un secondo punto critico riguarda le Case della comunità. La partita è rilevante: si dovranno creare in Lombardia 216 strutture di questo tipo, con una dotazione finanziaria di 170 milioni di euro. Il PNRR prevede che esse debbano fare diverse cose: “coordinare” i servizi offerti, in particolare ai malati cronici, i punti unici di accesso alla rete dei servizi, le unità di valutazione multidisciplinare, con presenza sanitaria importante ma dove si prevede la presenza anche di assistenti sociali per garantirne una dimensione sociosanitaria integrata.
La proposta di legge lombarda prevede il personale che dovrebbe operarvi: ed è tutto personale sanitario. Il rischio concreto è dunque che la Case della comunità si trasformino in una sorta di poliambulatori, con una presenza sanitaria quasi esclusiva e con un assistente sociale tutt’al più “di complemento”, ancillare rispetto ai servizi sanitari.
Le Case della Comunità devono essere “della comunità”, guardare l’insieme dei bisogni sanitari, sociali e di salute di un territorio. Per questo devono essere strutture pubbliche, garantendo imparzialità e diventando Punti unici di accesso reali, dove le persone trovano tutte le risposte che cercano. Punti in grado di ridurre le liste di attesa (punto cruciale mai trattato), luoghi della Comunità in quanto tale, dove personale sanitario, sociale, del terzo settore collaborano in una sintonia di intenti e funzioni, nel rispetto delle diverse competenze. Un punto cruciale sarà quello di quali relazioni stabilire tra queste strutture e la medicina e pediatria di base. Punto che lo stesso PNRR non scioglie col rischio di creare binari di cura diversi e separati nell’ambito delle cure primarie.
Infine, perplessità sorgono riguardo l’assistenza domiciliare, su cui arriveranno dal PNRR per la Lombardia 451 milioni di euro, che vanno ad aggiungersi, sempre per la Lombardia, a 166 milioni per il potenziamento della telemedicina. Ebbene, si prevede di spendere queste risorse per il solo potenziamento dell’ADI, senza prevedere una integrazione con la domiciliarità sociale dei Comuni, e senza l’ombra di quei cambiamenti che una coalizione di oltre 16 soggetti della società civile lombarda ha chiesto.1
I servizi domiciliari di oggi, sia quelli sanitari sia quelli dei Comuni, soffrono di gravi limiti di estensione, intensità, confini ristretti entro cui operano, carattere fortemente prestazionale delle attività. Mentre sulla non autosufficienza è cambiato un mondo negli ultimi vent’anni, questi servizi sono andati avanti per inerzia su un solco autocentrato e solipsistico. La sensazione è che se qui oggi non facciamo integrazione (tra sociale e rete sociosanitaria) non la si farà più. E per farla dobbiamo guardare alla governance di questi servizi. Una nuova governance condivisa tra Comuni e Asst che ne riconfiguri relazioni, funzioni, personale e piani di lavoro.
Per concludere
Con questa proposta di legge Regione Lombardia rimane fedele al proprio stile di policy: molto regolamentativo e poco attento ai processi di cambiamento che le modifiche introdotte richiedono. Se la legge 23/2015 non ha centrato gli obiettivi che si poneva ciò è stato dovuto alla presunzione che il cambiamento sul campo seguisse automaticamente gli atti formali e normativi di Regione Lombardia, senza azioni capillari ed estese di accompagnamento dei processi.
Occorrono piani di accompagnamento, formazione, sostegno ongoing ai territori, un monitoraggio non semplicemente contabile e numerico, ma propositivo in merito ai nodi e alle possibilità di crescita nei territori. Da questo punto di vista occorre un investimento in formazione del personale dirigenziale, del cosiddetto middle management (vanno trovati più di duecento direttori di Case della comunità, per esempio, e un centinaio di direttori delle Centrali operative territoriali – Cot, previste dal PNRR), Vanno create occasioni di confronto e supporto, Comunità di pratiche che seguano i cambiamenti introdotti, valorizzino il confronto come occasione di crescita reciproca, orientino e allineino le esperienze territoriali, riducendo frammentazione e disequità.
Si apre ora la partita in Consiglio regionale, dove la proposta della Giunta dovrà essere votata per diventare legge.