L’accesso alla cittadinanza. Un panorama delle norme vigenti nei principali paesi dell’UE
Maurizio Ambrosini | 27 Luglio 2021
Accordare la cittadinanza, e definire le regole con cui accordarla, rimangono privilegi degli Stati sovrani, gelosamente custoditi fino al giorno d’oggi. Nemmeno nell’ambito dell’Unione Europea è avvenuto un processo di armonizzazione delle regole, sicché permangono notevoli squilibri. Dieci milioni di apolidi nel mondo testimoniano la distanza tra la condizione di persona umana e quella di cittadino riconosciuto. In alcuni paesi, come il Myanmar per i profughi Royingia e in prospettiva l’India per i mussulmani che non possono dimostrare la loro origine nel paese, si stanno verificando processi di de-cittadinizzazione e deprivazione di diritti fondamentali.
Gli Stati non da oggi si sono dunque dotati di regole per l’accesso alla cittadinanza. Il clima politico contemporaneo produce al riguardo una paradossale conseguenza, la crescita delle acquisizioni di cittadinanza: molti residenti stranieri, per evitare discriminazioni o nuovi irrigidimenti delle norme, o anche per stornare i pregiudizi, accedono più che in passato e in tempi più rapidi alla cittadinanza del paese in cui si sono trasferiti. Nel 2017 825.000 persone si sono naturalizzate in un paese dell’UE. In Italia, avendo gli immigrati, giunti numerosi fino al 2008, raggiunto l’anzianità di residenza prevista, hanno ottenuto la cittadinanza circa 450.000 persone tra il 2016 e il 2018. Negli Stati Uniti i valori sono in proporzione ancora più elevati che nell’UE, giacché si tratta di circa 900.000 nuovi cittadini all’anno.
Si può passare dalla condizione di stranieri a quella di cittadini in vari modi, alcuni dei quali hanno radici molto antiche. Le legislazioni (nazionali) contemporanee li hanno in vario modo mescolati, in combinazioni più liberali oppure maggiormente restrittive. Le norme tendono inoltre negli ultimi decenni ad essere più spesso modificate, in relazione all’accresciuta politicizzazione delle questioni legate all’immigrazione.
Vediamo come si combinano i criteri in alcune legislazioni. In Italia le norme per l’accesso alla cittadinanza sono state modificate agli inizi degli anni ’90, proprio nella fase in cui il ceto politico e l’opinione pubblica si stavano rendendo conto che l’Italia era diventata un paese d’immigrazione. La legge vigente (n. 91 del 5 febbraio 1992), votata dal parlamento in modo quasi unanime, sembra reagire a questa trasformazione. Prevede che per poter chiedere di diventare italiani siano sufficienti quattro anni di residenza per gli stranieri provenienti da alcuni paesi, quelli dell’Unione Europea, mentre ne occorrano dieci per gli altri, contro i cinque per tutti della normativa precedente, risalente al 1912 e non modificata neppure dal regime fascista.
La stessa legge istituisce una corsia molto facilitata di recupero della cittadinanza per i discendenti degli emigranti italiani all’estero, definendo i confini della nostra «nazione» in termini sostanzialmente etnici. Basta un avo italiano per rimanere italiani o per poterlo diventare. Pochi sanno che tra il 1998 e il 2004 l’opportunità di recupero della cittadinanza da parte di discendenti di antichi emigrati ha prodotto silenziosamente oltre mezzo milione di nuovi cittadini, tra cui spiccano gli italiani di ritorno provenienti dall’Argentina con circa 236.000 acquisizioni e dal Brasile con circa 120.000. Più di recente le norme sono state riformate, prevedendo una residenza di almeno tre anni in Italia anche per i figli e nipoti di cittadini italiani che non abbiano mantenuto la cittadinanza. Capitava infatti che diventassero italiane persone che non conoscevano la nostra lingua e che non avevano mai vissuto in Italia.
Le norme italiane sono inoltre più favorevoli della media europea in caso di matrimonio, nonostante alcune restrizioni successive. Può accedere alla cittadinanza il coniuge straniero residente in Italia da almeno un anno, se ha avuto figli, e da almeno due anni se non ha figli. Se invece risiede all’estero i requisiti si elevano a 18 mesi in presenza di figli e a tre anni nel caso contrario.
Per quanto riguarda invece le seconde generazioni, i giovani nati e sempre vissuti in Italia al compimento dei 18 anni ed entro i 19 possono ottenere la cittadinanza con una procedura agevolata. Oggi sono richiesti anche tre anni di residenza legale, ma il requisito appare pleonastico. In sostanza, a dispetto delle polemiche sull’argomento, lo ius soli in Italia esiste già, anche se si attiva soltanto al diciottesimo anno di età. Anche su questo punto la legislazione italiana non spicca per liberalismo, ma riconosce che nascita, crescita ed istruzione sul territorio configurano una condizione di più avanzata integrazione sociale che merita di essere tenuta in considerazione.
Consideriamo ora le normative vigenti in altri paesi dell’UE.
In Francia l’accesso alla cittadinanza è regolato principalmente in quattro modi. Il primo è il diritto di sangue: è francese il figlio di almeno un genitore francese.
Il secondo criterio è un diritto di suolo riveduto e attenuato. Vale il doppio ius soli (è riconosciuto come cittadino chi nasce sul territorio nazionale da genitori nati anch’essi nel paese) e vale la norma dell’acquisizione della cittadinanza con la maggiore età per chi è nato in Francia e vi ha risieduto abitualmente per un periodo, continuo o discontinuo, di almeno 5 anni, dall’età di 11 anni in poi. Una norma quindi abbastanza simile, ma più favorevole di quella italiana.
In terzo luogo, si può ottenere la cittadinanza francese per matrimonio: a quattro anni dalle nozze, a condizione di una residenza effettiva e continuativa in Francia per tre anni consecutivi.
Infine vige la naturalizzazione per residenza, per le persone maggiorenni che abbiano avuto residenza abituale in Francia nei cinque anni precedenti, ridotti a due in caso di studi universitari in Francia o di importanti servizi resi allo Stato francese. Oltre all’anzianità di residenza, è richiesto il superamento di un test di conoscenza della lingua, della storia e delle istituzioni francesi.
Anche la Germania concede la cittadinanza al figlio di almeno un genitore tedesco. Con la riforma del 2000 applica un diritto di suolo temperato, avendo aperto le porte ai figli di cittadini stranieri nati sul territorio, a condizione che almeno uno dei genitori risieda legalmente sul territorio da almeno otto anni e sia in possesso di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato.
In caso di matrimonio con un cittadino, la cittadinanza può essere richiesta dopo tre anni di residenza in Germania e due di matrimonio, purché ancora valido. Alle stesse condizioni possono esser naturalizzati i figli della coppia.
Berlino è invece più restrittiva in materia di naturalizzazione per residenza: sono infatti necessari otto anni di residenza stabile e legale, l’autosufficienza economica, un’adeguata conoscenza della lingua tedesca, l’accettazione dell’ordinamento sociale e giuridico dello Stato, nonché delle “condizioni di vita in Germania” a cui il candidato alla naturalizzazione deve conformarsi. Anche in questo caso gli automatismi sono attenuati e sono stati enfatizzati requisiti di conformità culturale. Le norme prevedono la riduzione a sette anni dell’anzianità di residenza, in caso di frequenza di un corso d’integrazione e di superamento dell’esame finale. Si può scendere a sei anni dimostrando di aver compiuto azioni significative per l’integrazione, come il conseguimento del livello B1 di conoscenza della lingua tedesca.
L’architettura del sistema britannico della cittadinanza è piuttosto complessa, ma concentrando l’attenzione sugli aspetti essenziali si può notare che il Regno Unito applica anzitutto il diritto di sangue: è britannico il figlio di almeno un genitore in possesso della cittadinanza. In secondo luogo, vige un diritto di suolo quasi puro: accede alla cittadinanza il figlio di un cittadino non britannico residente nel Regno Unito a tempo indeterminato; oppure, se il genitore acquisisce la cittadinanza o un permesso di residenza, il figlio la ottiene presentando una richiesta entro il diciottesimo anno di età; oppure ancora se, minorenne, avendo avuto residenza nel Regno Unito per i dieci anni successivi alla nascita.
Il matrimonio dà diritto alla cittadinanza in caso di residenza ininterrotta nel Regno Unito per almeno tre anni.
La naturalizzazione per residenza richiede invece un’anzianità di soggiorno continuativa di almeno cinque anni, salvo condizioni di favore per i cittadini del Commonwealth o irlandesi. Anche in questo paese sono stati introdotti dei test volti a misurare l’integrazione culturale degli aspiranti cittadini: uno di lingua, un altro di conoscenza di più generali aspetti della vita nel Regno Unito. Le norme anti-terrorismo hanno infine previsto la revoca della cittadinanza per i responsabili di attacchi.
La normativa spagnola intreccia disposizioni liberali con altre più restrittive. Vale anche qui anzitutto il diritto di sangue: è spagnolo chi nasce da un genitore spagnolo. Per chi nasce sul territorio le norme si avvicinano al diritto di suolo automatico, prevedendo la naturalizzazione con un solo anno di residenza. Anche per gli sposi con un cittadino spagnolo un anno di residenza è sufficiente.
Una disposizione più severa investe la naturalizzazione per residenza: come in Italia sono richiesti dieci anni, ridotti a cinque per i rifugiati e a due per i cittadini di paesi che hanno legami storici con la Spagna. Sono previste inoltre alcune condizioni aggiuntive, come l’autosufficienza economica e quella che viene un po’ genericamente definita “buona condotta civica e sufficiente grado di integrazione nella società spagnola”.
È interessante considerare anche il caso greco, perché questo paese seguiva fino a pochi anni fa norme restrittive abbastanza simili a quelle italiane, ma ha avuto il coraggio di varare una normativa più liberale nel 2010, nel mezzo di una drammatica crisi economica: un argomento, quello della crisi, addotto in Italia con un certo successo per contrastare la riforma della legge del 1992.
Per i figli di cittadini stranieri nati sul territorio la Grecia ha introdotto un percorso che richiama lo ius culturae di cui si discute da tempo in Italia: possono accedere alla cittadinanza dopo aver frequentato sei anni di scuola. Se minorenni, deve essere il genitore a presentare la domanda, a patto che sia regolarmente residente da almeno cinque anni. Se invece sono nati all’estero valgono le norme generali.
Queste prevedono che per accedere alla cittadinanza occorre possedere il permesso di soggiorno CE di lungo periodo (si ottiene dopo cinque anni di residenza regolare, dimostrando autosufficienza economica), superare un test di conoscenza della lingua greca, non avere carichi penali e pagare un contributo abbastanza ingente, 700 euro. Inoltre i dinieghi della domanda, a differenza del passato, vanno motivati dal Ministero dell’Interno, consentendo così la presentazione di eventuali ricorsi.
Si può quindi concludere rilevando che le differenze normative rimangono rilevanti, anche all’interno di uno spazio politico relativamente omogeneo e per altri aspetti convergente come quello dell’UE. La concessione della cittadinanza rimane una prerogativa degli Stati nazionali, che la difendono convintamente. In questo quadro affiorano alcuni elementi di convergenza. Tutti i paesi considerati riconoscono il diritto di sangue, senza differenze tra i genitori. Hanno norme specifiche per i coniugi, in alcuni casi inasprite: per contrastare frodi molto temute, ma poco riscontrate, e per frenare il ricorso al matrimonio come uno dei pochi percorsi d’immigrazione legale residui. Nessuno applica più il diritto di suolo automatico (l’ultimo governo dell’UE ad abolirlo è stato qualche annoi fa quello irlandese), in alcuni casi avendo rivisto in senso restrittivo le norme precedenti. Tutti prevedono però condizioni di favore per i figli di cittadini stranieri nati sul territorio o arrivati da bambini, in alcuni casi avendo riformato le norme in senso più liberale pochi anni fa. Le norme insistono inoltre pressoché ovunque sull’autosufficienza economica, codificando la cittadinanza in senso neo-liberale, come capacità di provvedere a sé stessi e alla propria famiglia senza dipendere da aiuti pubblici.
Molto significativa è infine l’insistenza su test ed esami volti ad accertare la conoscenza della lingua, come pure delle norme fondamentali, delle vicende storiche e anche di elementi della “cultura” o dello “stile di vita” più difficili da definire con precisione. Si parla al riguardo di una crescente richiesta di “integrazione civica”, in base alla quale sono gli immigrati a dover dimostrare la loro volontà e capacità di integrarsi, anziché essere i destinatari di misure d’integrazione da parte delle politiche pubbliche, come era avvenuto in fasi più liberali delle politiche dell’immigrazione in Europa.