L’art.55: come liberare il Terzo settore e i servizi sociali dalla schiavitù della concorrenza
Carlo Borzaga | 23 Settembre 2019
L’interesse con cui l’art. 55 del codice del Terzo settore è stato accolto sia dalle organizzazioni di Terzo settore che da diverse pubbliche amministrazioni ha più di una spiegazione. Oltre a ribadire e ampliare la possibilità di co-programmare e co-progettare i servizi sociali e di interesse generale, esso ha di fatto sostituto, nella gestione di questi stessi servizi, il principio di concorrenza con quello di cooperazione e ha introdotto la possibilità di chiamare a gestirli solo soggetti di Terzo settore. Una vera e propria rivoluzione, dopo che per anni molti si sono messi d’impegno per imporre, anche nell’affidamento di questi sevizi, il ricorso a modalità concorrenziali e, in particolare, alle gare d’appalto ritenute la vera garanzia della piena applicazione di questo principio oltre che il miglior baluardo contro pratiche clientelari e corruttive. Non meraviglia quindi che proprio i difensori d’ufficio di queste modalità, prima il Consiglio di Stato con il suo discutibile parere e poi l’Anac nella proposta di revisione delle linee guida, abbiano reagito negando e cercando di limitare al massimo l’applicabilità dello stesso articolo – e quindi di una norma di legge dello Stato che lo stesso Consiglio di Stato aveva già valutato e ratificato prima della sua definitiva approvazione – riconfermando la loro fede nell’applicazione spinta del principio di concorrenza. Mostrando così, e non per la prima volta, una totale indifferenza per le ricadute sulla qualità dei servizi, sul benessere degli utenti e sulle condizioni di lavoro.
Leggendo i documenti rilasciati da queste due istituzioni quello che colpisce per la sua assenza è infatti un’analisi sostanziale, non meramente formalistica, dei limiti insiti nell’applicazione acritica del sistema degli appalti in un settore particolare come quello dei servizi sociali e di interesse generale. Basta una semplice osservazione della realtà per rendersi conto quanto esso incida negativamente non solo sulla qualità dei servizi e sulle condizioni di lavoro, ma anche sulla natura e il funzionamento delle organizzazioni di Terzo settore, senza necessariamente garantire l’auspicato contenimento della spesa pubblica, ma rischiando addirittura di aumentarla e spesso di ridurre le risorse complessive destinate al sostegno dell’offerta del servizio interessato alla procedura. Inoltre, la cronaca dimostra che esso non garantisce neppure – come vorrebbe l’Anac – contro pratiche corruttive che sempre l’Anac ritiene si annidino quasi fisiologicamente in ogni trattativa diretta o in ogni relazione di medio-lungo corso tra organizzazioni di offerta e pubbliche amministrazioni.
Sia la teoria che l’esperienza hanno dimostrato che adottare nell’affidamento di servizi caratterizzati al contempo da asimmetria informativa e alta intensità di lavoro procedure competitive basate del tutto o anche solo in parte su valutazioni di carattere economico, comporta in genere l’abbassamento della qualità di servizi, l’aumento dei carichi di lavoro e spesso la riduzione dei livelli salariali. Esse inoltre sono discriminatorie perché tendono ad avvantaggiare le organizzazioni di nuova costituzione con costi inferiori per la minore anzianità di servizio dei lavoratori e per la possibilità di sfruttare contributi pubblici per nuove assunzioni o per lo startup delle attività, ma generalmente con minori esperienze e competenze. Infatti, nonostante la retorica che circonda il concetto di ”offerta economicamente più vantaggiosa”, le gare sono molto spesso vinte dalle organizzazioni che riescono a fare il prezzo più basso, non perché più “efficienti” ma essenzialmente perché riescono a pagare meno i lavoratori.
A ciò si devono aggiungere gli effetti sulla natura e sulle modalità di gestione di quelle organizzazioni che, benché private, operano secondo finalità essenzialmente pubbliche e che la recente normativa sul Terzo settore regolamenta distinguendole in modo chiaro sia da quelle pubbliche che da quelle private finalizzate al lucro dei proprietari. La ricerca e l’osservazione della realtà hanno infatti dimostrato che il loro coinvolgimento attraverso procedure competitive e affidamenti di durata limitata finisce per scoraggiare gli investimenti, in generale e soprattutto nelle relazioni con gli utenti e sul capitale umano da cui dipende maggiormente la qualità dei servizi, e per deprimere l’innovazione, penalizzando in genere le imprese più piccole che spesso sono quelle in grado di cogliere meglio i bisogni e dare risposte mirate.
Tutto questo – ed è il terzo ordine di conseguenze – senza che la rigida applicazione di queste procedure garantisca risparmi certi di spesa pubblica: basti pensare ai costi di transazione resi necessari per organizzare ed espletare le gare, con i relativi ricorsi e controricorsi, che una corretta contabilità dovrebbe includere tra le spese sostenute per la gestione dei sevizi affidati e non in altri capitoli di bilancio. Inoltre in questo modo si perde tutto l’apporto di risorse – a partire dai volontari – che le migliori tra queste organizzazioni – che non necessariamente sono anche quelle che vincono gli appalti – sono in grado di apportare in modo autonomo.
La cosa interessante è che, a differenza delle procedure competitive, quelle dell’art. 55 sono in grado di superare gran parte di questi problemi, cosa di cui né l’Anac né il Consiglio di Stato sembrano voler tenere conto. La co-programmazione infatti consente non solo di individuare meglio problemi e di mettere a confronto soluzioni e sperimentazioni, ma anche di individuare e utilizzare le risorse complessive a disposizione, incluse quelle private e quelle da destinare agli investimenti a all’innovazione. La co-progettazione a sua volta permette di utilizzare l’apporto originale delle varie organizzazioni senza imporre loro modifiche radicali solo per rientrare negli standard richiesti dai bandi. La possibilità di limitare la partecipazione a sole organizzazioni che hanno non solo espliciti obiettivi sociali, ma anche precisi vincoli di governance e di destinazione degli utili aiuta a inoltre contenere – anche se non a evitare del tutto – i comportamenti opportunistici a discapito della qualità dei servizi e delle condizioni di lavoro. Infine essa è necessariamente molto più trasparente delle modalità alternative e ciò riduce i margini per pratiche clientelari e lascia meno spazia alla corruzione.
Perché allora tante resistenze all’applicazione di questo articolo? E’ sufficiente sostenere – come fa il Consiglio di Stato – che consentendo di limitare la partecipazione alle sole organizzazioni di Terzo settore, si andrebbe contro il principio di non discriminazione tra imprese quali sono anche le organizzazioni di Terzo settore quando impegnate nella produzione di beni o servizi? Basta appellarsi, come fa il Consiglio di Stato, al fatto che “la Corte di Giustizia è costante nell’adottare una nozione funzionale di impresa, incentrata sullo svolgimento di attività economica, anziché sulle caratteristiche dell’operatore professionale: per “impresa” deve intendersi l’organismo che esercita un’attività economica, offrendo beni e servizi su un determinato mercato, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento”? È sufficiente fare riferimento a questa pronuncia della Corte per sostenere che le caratteristiche peculiari e le specificità degli enti di Terzo settore non avrebbero nessuna rilevanza e quindi l’art. 55 sarebbe in contrasto con il diritto euro-unitario? No, non è sufficiente e non basta appellarsi ad essa per dichiarare l’inapplicabilità dell’art. 55.
A questa interpretazione della sentenza della Corte si può infatti obiettare che essa, pur del tutto condivisibile, non esclude che vi possano essere imprese di diversa natura e quindi non esclude neppure che si possano trattare in modo diverso le varie forme di impresa, se ve ne è ragione. Anzi. Consiglio di Sato e Anac sembrano non avere tenuto conto del fatto che gli stessi giudici europei in altra sentenza – quella dell’8 settembre 2011 che ha di fatto chiuso la procedura di infrazione aperta nei confronti dei benefici fiscali garantiti alle cooperative dalla normativa italiana – pur riconoscendo che le agevolazioni fiscali hanno sempre natura di aiuti di Stato, hanno escluso che nel caso delle cooperative essi siano incompatibili con il diritto comunitario perché giustificati da una diversità strutturale tra l’impresa cooperativa e le altre forme di impresa, diversità dovuta al fatto che la cooperativa essa persegue finalità mutualistiche e non speculative. Essa da sola giustifica e rende legittimo, secondo la Corte europea, un trattamento differenziato e più favorevole delle cooperative rispetto alle imprese che perseguono finalità lucrative. Mi sembra piuttosto evidente che sia possibile sostenere che la stessa impostazione dovrebbe valere anche per organizzazioni come quelle di terzo settore in generale e per le imprese sociali in particolare che si differenziano dalle altre imprese in modo ancora più netto delle cooperative. Così come mi sembra sostenibile che la stessa logica possa applicarsi oltre che alla concessione di incentivi anche ad altri ambiti di applicazione del principio di concorrenza, come appunto quello delle modalità con cui vengono scelti i contraenti e stipulati i contratti pubblici per l’affidamento di servizi sociali e di interesse generale. In particolare essa mi sembra consentire di limitare la partecipazione a imprese e organizzazioni chiaramente distinguibili per obiettivi perseguiti, forme di governance e vincoli se si può dimostrare che le loro caratteristiche garantiscono meglio di quanto non possa fare la generalità delle altre imprese i risultati attesi dalle amministrazioni interessate. Che è proprio quello che ha fatto il legislatore italiano con il Codice del Terzo settore.
Secondo questa prospettiva della Corte appare del tutto chiaro che l’articolo 55 e successivi non costituiscono, come vorrebbe il Consiglio di Stato, una violazione del diritto euro-unitario, ma una sua applicazione. E quindi che è necessario renderlo pienamente e universalmente operativo attraverso la predisposizione di documenti applicativi costruiti a partire dalle esperienze di co-progettazione maturate negli ultimi anni. Peraltro i problemi dovuti alle resistenze che discendono da una applicazione acritica e spesso disinformata del principio di concorrenza nelle procedure di affidamento di servizi sociali e di interesse generale sopra richiamati, sono presenti in tutti i paesi dell’Unione. Si apre quindi una stagione che deve vedere un’azione a tutto campo da parte dei soggetti del terzo settore e dell’economia sociale, anche per ottenere, laddove necessario, un chiarimento a livello europeo. L’insediamento della nuova Commissione da una parte e l’applicazione in Italia degli articoli 55 e seguenti del codice del Terzo settore, insieme con i risultati che stanno emergendo dal lavoro di mappatura dell’impresa sociale in Europa, potrebbero costituire l’occasione giusta per riaprire riflessione e discussione.
la fede del prof. Borzaga nelle possibilità di comprensione del Consiglio di Stato e dell’Anac ha qualcosa di tanto ammirevole quanto insensato.
Grazie comunque
sarebbe interessante far esaminare la posizione del Consiglio di Stato ad un filoso o a uno studioso di scienze politiche
stabilire che la concorrenza non è una istituzione ma qualcosa che esiste “in rerum natura” e dinanzi alla quale ogni altro principio è recessivo (a partire dai principi costituzionali di eguaglianza e solidarietà) significa trasformare il consiglio di stato da organo consultivo a depositario dell’etica pubblica.
anche la nozione di corrispettività che diventa piena gratuità è veramente una forzatura.