L’Assegno di Inclusione: una misura che discrimina gli stranieri?


Anna Valcavi | 27 Maggio 2024

L’Istat, nell’ultimo bollettino annuale con le stime preliminari sulla popolazione in condizione di povertà assoluta e relativa, nel riportare i dati sulla drammatica crescita nel corso degli anni del numero di persone che vive in condizione di bisogno e di grave marginalità, e le loro caratteristiche socio-demografiche, opera anche una elaborazione della platea di riferimento suddivisa per cittadinanza, distinguendo italiani, comunitari ed extra-comunitari. Questa elaborazione mostra come tra la popolazione straniera l’incidenza della povertà sia decisamente maggiore rispetto alla popolazione con cittadinanza italiana.

Senza voler e poter, in questa sede, approfondire le cause di questa maggiore incidenza, fortemente connesse a una legislazione che non sostiene adeguatamente i percorsi di inclusione dei migranti, ci limiteremo a evidenziare come anche le norme sulle misure di contrasto alla povertà – che per loro stessa natura dovrebbero essere universali – contribuiscano ad alimentare questo dato, avendo profili palesemente discriminatori.

Già il Reddito di Cittadinanza, istituito con decreto-legge n.4/2019, conteneva un’evidente violazione della normativa comunitaria data la previsione per accedere alla misura del requisito di residenza di 10 anni. Il requisito si configurava come lesivo della libertà di movimento all’interno della Ue, riguardando ovviamente anche i cittadini comunitari. Su questo profilo di illegittimità, oltre ad essere stata sollevata la questione davanti alla Corte di Giustizia Europea, era stata avviata una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea a febbraio del 2023. Procedura che è stata formalmente superata dai cambiamenti intercorsi nella normativa italiana che ha visto l’effettiva abrogazione del Reddito di Cittadinanza ad opera del Governo con, poche settimane dopo l’annuncio della procedura, l’approvazione, con il decreto legge n. 48/2023 (il cosiddetto “decreto lavoro”), di una nuova prestazione sociale denominata Assegno di Inclusione (ADI), in vigore dal 1 gennaio 2024.

Nel passaggio dal Reddito di Cittadinanza all’Assegno di Inclusione, tra i vari cambiamenti apportati alla misura che doveva essere di contrasto alla povertà, sono stati modificati parzialmente i requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno richiesti per accedere alla misura di sostegno. Il legislatore, su questo fronte, ha apportato un primo miglioramento con la riduzione del vincolo di residenza anagrafica da 10 a 5 anni e con la previsione del riconoscimento la misura anche ai titolari dello status di protezione internazionale. Due avanzamenti minimi, dettati dalla palese violazione delle norme comunitarie della precedente normativa, in relazione alla possibilità di accesso per i cittadini stranieri, e per la quale era stata aperta la procedura di infrazione da parte della Commissione UE, e su cui era già intervenuta INPS, nei primi mesi di vigenza del Rdc, con la predisposizione della modulistica che comprendeva anche i permessi di soggiorno per protezione internazionale, erroneamente esclusi dal decreto-legge n.4/2019 istitutivo della misura.

L’elemento discriminatorio, per quanto indiretto, della previsione di 10 anni di residenza, di cui gli ultimi 2 continuativi, era comprovata dai dati sui beneficiari il RdC tra i quali la percentuale di cittadini non italiani non era in alcun modo corrispondente ai dati demografici sulla presenza di popolazione straniera in povertà in Italia. I dati diffusi mensilmente da INPS sui percettori di Rdc, elaborati per cittadinanza del richiedente indicano – da ultimo nel bollettino di gennaio 2024 – che a dicembre 2023, nell’ultimo mese di vigenza del Reddito di Cittadinanza, tra chi ha ricevuto la misura di contrasto alla povertà  il 6% ha cittadinanza extra-UE e il 3% è cittadino UE. Percentuali molto distanti da quelle indicate da Istat per la popolazione in povertà assoluta. Le stime preliminari su dati 2023 diffuse il marzo scorso dall’istituto, infatti, confermano la forte distanza registrata negli anni precedenti tra la popolazione straniera in condizione di bisogno e la popolazione straniera raggiunta dalla misura di contrasto alla povertà, registrando un’incidenza del 35% tra le famiglie interamente costituite da stranieri e del 30% tra quelle con presenza di cittadini stranieri in condizione di povertà assoluta.

Incidenza della povertà assoluta (%)

 

2021

2022

2023

Famiglie

7,7

8,3

8,5

Persone

9,0

9,7

9,8

 

 

 

 

Famiglie di soli italiani

5,8

6,4

6,4

Famiglie di soli stranieri

32,8

33,2

35,6

Famiglie con stranieri

28,1

28,9

30,8

Fonte: Istat

 

L’Assegno di Inclusione, stando ai requisiti di accesso previsti dalle nuove disposizioni, dovrebbe raggiungere una platea di beneficiari con cittadinanza straniera più ampia, avendo ridotto da 10 a 5 il vincolo di residenza. Secondo la Relazione Tecnica che ha accompagnato la presentazione del decreto-legge 48/2023 il moltiplicatore da applicare per quantificare l’aumento stimabile della popolazione straniera era 1,60, e secondo il Servizio di Bilancio del Senato, quindi, la stima dell’incremento di nuclei beneficiari, a fronte della riduzione da 10 a 5 anni del requisito di residenza, era di 45.000 calcolato a partire dal dato sulla popolazione straniera che nel passaggio da Rdc (125.000 nuclei) al nuovo strumento avrebbe potuto continuare a fruirne (75.000), per un totale di percettori ipotetici, quindi, pari a 130.000. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio, nel corso della discussione sul provvedimento, ha proposto una stima leggermente superiore, ipotizzando 50.000 nuclei, pari a 148.000 persone in più, per una spesa annua di 360 milioni.

Al momento, tuttavia, non è possibile stimare quanto effettivamente questa riduzione del vincolo anagrafico abbia ampliato la platea di beneficiari con cittadinanza straniera in quanto non sono ancora stati pubblicati i dati dettagliati sui percettori dell’Assegno di Inclusione. L’unico numero fornito da INPS è riferito a 550.000 domande accolte, a fronte delle oltre 700 mila che erano stimate. Numeri che non fanno ben sperare per quanto concerne il raggiungimento della popolazione più a rischio marginalità come, purtroppo, spesso è quella straniera.

Questa riduzione del vincolo di residenza non è, però, sufficiente a rispondere né alla necessità che uno strumento di contrasto alla povertà sostenga tutte le persone in povertà innanzitutto in ragione della loro condizione economica, né alla violazione delle disposizioni comunitarie che hanno portato alla procedura di infrazione nei confronti dell’Italia sul Reddito di Cittadinanza e che potrebbero, quindi, portare a un nuovo procedimento.

Nella comunicazione diffusa dalla Commissione Europea il 15 febbraio 2023, in cui si annunciava l’avvio della procedura, si chiarivano, infatti, i diversi profili di violazione del diritto comunitario che sussisterebbero anche con il requisito richiesto dalla nuova misura di 5 anni di residenza:

  • a norma del Regolamento UE n.492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, e della Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, le prestazioni di sicurezza sociale devono essere pienamente accessibili ai cittadini UE indipendentemente da dove abbiano soggiornato prima, e, in particolare, i cittadini UE non impegnati in attività lavorativa devono poter accedere alla prestazione alla sola condizione di essere residenti da 3 mesi;
  • la Direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003 relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, prevede che i soggiornanti di lungo periodo provenienti da paesi terzi abbiano accesso alla prestazione al pari dei cittadini UE.

La Commissione, dunque, ha già evidenziato come il requisito di residenza protratta per accedere a una prestazione sociale sia una violazione del diritto comunitario in materia di libera circolazione dei lavoratori, dei diritti dei cittadini e dei soggiornanti di lungo periodo, andando a penalizzare sia i cittadini dell’Unione Europea, sia i cittadini di paesi terzi, sia gli stessi cittadini Italiani che perderebbero la possibilità di accedere alla prestazione in caso di trasferimento all’estero per un periodo di lavoro.

Una misura di sostegno al reddito, finanziata peraltro dalla fiscalità generale, e dunque dalle imposte versate da tutti i residenti, dovrebbe ridurre ulteriormente il vincolo di residenza di 5 anni, eliminando ogni carattere discriminatorio, e riportandolo al più ragionevole livello di 2 anni. Questa riduzione, da una prima simulazione, potrebbe portare ad un incremento di 14.000 famiglie beneficiarie, a fronte di un costo piuttosto contenuto, pari cioè a meno di 100 milioni annui.


Commenti

La questione esposta è cruciale, e troppo poco discussa (anche nella politica). Segnalo che imporre residenza pregressa (e, aggiungo, permessi di soggiorno solo di lungo periodo) genera anche altri problemi:
1) nei servizi del welfare diritti di “serie A” (senza questi limiti, come l’accesso al SSN e alla scuola dell’obbligo), e di “serie B” (come questi sul contrasto alla povertà, misura che pure vuole essere un LEP)
2) una selezione (se punta a ridurre utenti e spesa) che:
2.1) non elimina la povertà in chi non ha la durata di residenza, ma la scarica solo sui Comuni
2) è di fatto inutile, perchè maturati gli anni di residenza le richieste “dilazionate” tornano ad essere presentate
3) assume che “vivere in un territorio” significhi un “positivo radicamento territoriale” (concetto peraltro equivoco). Ma se ha lunga residenza chi fa il truffatore e pensa solo a sè? Oppure chi vive e lavora sempre in Svizzera pur avendo formale residenza in Val d’Ossola?