Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale e responsabile Lavoro e Terzo settore delle Acli, e Chiara Volpato, responsabile del Coordinamento Donne nazionale e componente della presidenza nazionale delle Acli, presentano per Welforum.it i contenuti di Lavorare dis/pari, indagine svolta dalle Acli ed edita dal Corriere della Sera che l’ha distribuita come volumetto dell’inserto Buone Notizie, gratuito per i lettori. Insieme ai contenuti dell’indagine gli autori espongono via via osservazioni, posizioni e rivendicazioni in merito alla situazione e ai problemi della condizione e del lavoro femminile che la ricerca ha evidenziato, e che comportano anche più generali scelte politiche. Pubblichiamo questo articolo in concomitanza con la celebrazione del 1°maggio, perché sempre più possa essere festa per un lavoro che garantisca alle donne pari dignità e pieno riconoscimento, condizione per un’esistenza libera e dignitosa.
Le ACLI (Area Lavoro e Coordinamento Donne) hanno svolto un’indagine sulla disparità salariale di genere, che affianca ad un’elaborazione di dati 2021 provenienti dai servizi del CAF ACLI (oltre 1.300.000 modelli 730) e del Patronato ACLI (domande di sostegno al reddito) un questionario compilato da 1.060 persone, campione autoeletto prevalentemente costituito da donne e da adulti con livelli di istruzione medio-alti. Pur non consentendo generalizzazioni crediamo colga e metta in rilievo aspetti molto interessanti.
Evidenziamo di seguito solo alcune fotografie che emergono, anche per proporre alcune riflessioni dal tono interrogativo, ma non troppo. Ci preme però prima sottolineare che nella nostra riflessione ed analisi ci muoviamo a partire dai principi sanciti dall’articolo 36 della Costituzione che prevede che le retribuzioni assicurino un’esistenza libera e dignitosa.
Intanto i dati sui redditi. Si sono identificate, tenendo conto dei redditi complessivi (che pur essendo lievemente più alti consentono di considerare tutti i redditi da lavoro), alcune fasce problematiche: fino a 9.000 euro all’anno riconducibili alla povertà assoluta (rimodulando il reddito individuale in proporzione alla provenienza geografica dei dichiaranti), fino a 11.000 definibili in salari o compensi relativamente poveri e una soglia di 15.000 euro stimata come soglia di vulnerabilità, ovvero una situazione dove la propria condizione reddituale rischia la soglia di povertà in presenza di imprevisti abbastanza diffusi, come un divorzio, una malattia significativa di un familiare, la nascita di un figlio (il cui costo è stimato da Banca d’Italia nel periodo 2017-2020, quando non c’era inflazione, in 640 euro al mese), per cui, tenendo conto della provenienza dei dichiaranti soprattutto dal nord possiamo stimare una cifra annua intorno ai 9-10.000 euro).
Fasce di reddito | Sesso (%) | ||
---|---|---|---|
Donna | Uomo | Totale | |
Fino a 9.000 € | 19,2 | 6,0 | 13,0 |
Da 9.000 a 11.000 € | 6,5 | 2,7 | 4,7 |
Da 11.000 a 15.000 € | 14,3 | 7,0 | 10,9 |
Da 15.000 a 21.000 € | 21,7 | 18,5 | 20,2 |
Da 21.000 a 28.000 € | 19,5 | 27,4 | 23,2 |
Da 28.000 a 50000 € | 16,5 | 30,5 | 23,1 |
Oltre 50.000 € | 2,3 | 7,9 | 4,9 |
Già in questa prima tabella si nota un forte divario di genere, che persiste sia che si lavori o si sia cessato di lavorare oppure sia che si lavori per tutto l’anno o per meno di 365 giorni (definiti qui come “lavoratori continui”).
Sesso | Fasce di reddito | Quantità di lavoro (%) | |||
---|---|---|---|---|---|
Ritirati dal lavoro | Lavoratori discontinui | Lavoratori continui | Totale | ||
Donna | Fino a 15.000 € | 45,2 | 66,4 | 24,8 | 39,9 |
Da 15.000 a 25.000 € | 32,3 | 24,6 | 39,5 | 34,2 | |
Da 25.000 a 35.000 € | 15,8 | 6,5 | 24,0 | 17,8 | |
Da 35.000 a 50.000 € | 5,3 | 1,8 | 7,8 | 5,8 | |
Oltre 50.000 € | 1,4 | 0,7 | 3,9 | 2,3 | |
Uomo | Fino a 15.000 € | 15,7 | 46,6 | 6,8 | 15,7 |
Da 15.000 a 25.000 € | 38,7 | 31,8 | 32,7 | 35,0 | |
Da 25.000 a 35.000 € | 26,5 | 13,4 | 33,1 | 27,8 | |
Da 35.000 a 50.000 € | 13,1 | 5,1 | 16,5 | 13,6 | |
Oltre 50.000 € | 6,0 | 3,1 | 10,9 | 7,9 |
In questa seconda tabella a fronte di un quasi 40% totale resta comunque significativa la percentuale di lavoratrici che, pur avendo un’occupazione continuativa, non riesce a raggiungere un reddito superiore ai 15.000 euro complessivi, rimanendo bloccata in una condizione di vulnerabilità (24,8%).
Il divario è meno sensibile al sud, ma perché le fasce “povere” o vulnerabili sono più ampie (44,4% tra chi lavora). Tra le più giovani, invece, compare il dato allarmante che sotto i 35 anni, pur da lavoratrici, sono povere o a rischio (sotto i 15.000) praticamente la metà delle donne (49,2%), il 31,2% tra coloro che sono in condizione lavorativa continuativamente (365 giorni).
Se ci spostiamo sulle pratiche per il sostegno al reddito presentate al Patronato ACLI si evidenzia una condizione di maggior difficoltà con il mondo del lavoro a svantaggio delle donne, con i picchi delle indennità di disoccupazione 1,5-2 volte quelle presentate dagli uomini.
Pratiche per sostegni al reddito | Sesso (%) | |
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Donna | Uomo | |
Assegno sociale | 60,1 | 39,9 |
Reddito di cittadinanza | 57,5 | 42,5 |
Reddito di emergenza | 54,0 | 46,0 |
Indennità Naspi | 61,3 | 38,7 |
Indennità dis.-coll. | 67,8 | 32,2 |
Se guardiamo le pratiche per Naspi oltre il 60% riguarda donne, percentuale femminile che sale a poco meno del 70% (69,2%) tra gli stranieri. Interessante sottolineare anche la divaricazione tra dimissioni volontarie, in prevalenza maschili (62,1%), e vertenze, in prevalenza femminili (54,6%).
Venendo ai questionari, costruendo profili omogenei, incluse mansioni e comparti, il divario raggiunge il 30% con delle differenze, soprattutto tra pubblico e privato.
Nel caso del confronto nei redditi mensili netti da lavoro nel sotto-campione degli/lle impiegati/e nel comparto dei servizi si può vedere come nel pubblico le differenze siano intorno al 10%, mentre nel privato arriva ad oltre il 25% e nel lavoro non standard o instabile anche oltre il 35%.
Sesso | Fasce di reddito | Profili lavorativi (%) | |||
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Impiego stabile nel pubblico | Impiego stabile nel privato | Impiego instabile o non standard | Totale | ||
Donna | Fino a 1.500 € | 48,5 | 58,8 | 85,9 | 69,6 |
Oltre 1.500 € | 51,5 | 41,2 | 14,1 | 30,4 | |
Uomo | Fino a 1.500 € | 38,5 | 31,1 | 50,0 | 35,7 |
Oltre 1.500 € | 61,5 | 68,9 | 50,0 | 64,3 |
Il divario permane nei ruoli dirigenziali, riducendosi quasi completamente solo nell’ambito delle lauree STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), il che suggerisce una riflessione sul piano culturale e sull’orientamento scolastico.
Un dato che colpisce riguarda poi il lavoro grigio: il 18,4% delle donne (contro il 4,7% degli uomini) ha dichiarato di essere assunta a 30 ore e di lavorare in realtà full time.
Emerge anche una diffusa insoddisfazione. Il 53% delle donne giovani e il 50,1% di tutte le età ritengono il reddito da lavoro insufficiente. Il 34,3% delle donne (contro il 22,7% degli uomini) considera i propri obiettivi professionali totalmente non raggiunti, mentre il 58% di loro (38% tra gli uomini) dichiarano di avere un lavoro, ma non una carriera. E a una medio-bassa qualità del lavoro si associa, per quasi l’85% delle donne, una medio-bassa retribuzione, mentre per gli uomini si tratta del 51%.
Inoltre la quota di coloro che vivono una doppia fragilità, ovvero contratti a tempo determinato o lavoro non standard e orari ridotti, tocca il 62% tra le donne e il 26,5 tra gli uomini.
Malgrado questo quadro la percezione stessa di una disparità, in merito all’affermazione “poco o per nulla d’accordo” sull’esistenza di una parità di trattamento nel lavoro, nella rilevazione si rivela bassa soprattutto tra gli uomini (20%), mentre è solo al 25% tra le donne. Segni evidenti di quanto serva evidenziare questi dati e nel contempo che la disparità si associ e alimenti un prevalente progressivo impoverimento complessivo del lavoro, in particolare in alcuni settori, da tanti punti di vista (part time involontario, lavoro grigio o nero, riduzione negli ultimi 30 anni dei salari come mai altrove in Europa laddove Francia e Germania hanno visto aumenti oltre il 30%…) che colpisce soprattutto le donne. Evidentemente molto peggio se straniere.
Questo quadro desta diverse riflessioni e domande aperte.
Di fronte a dati di questa natura e proporzioni, specie a carico delle nuove generazioni possiamo pensare che l’avvitarsi delle diseguaglianze possa caricarsi tutto sul welfare?
Ancor più con un fisco sempre più iniquo e che favorisce rendite, speculazione e concentrazioni di ricchezza: non possiamo pensare che il nostro welfare regga, per quanto si possa e debba innovare. Del resto chi ha bisogno di ricorrere alla sanità per situazioni gravi già si rende conto di quanto gli tocchi ormai farsi un mutuo (ammesso che ci riesca) se ha un reddito medio basso. La nostra Costituzione definisce compito della Repubblica la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, non chiede di limitarsi a soccorrere dai danni che questi ostacoli provocano. E oggi l’ostacolo mondo del lavoro e rapporto sempre più diseguale nel mondo economico è spaventoso. Mentre in questi anni il lavoro oggettivamente si impoveriva abbiamo visto manager prendere buone uscita 10.000 volte quelle di un lavoratore medio, spesso senza risanare nulla. Abbiamo campioni di serie A che sui redditi all’estero sono arrivati a versare il 2 o 3 % di tassazione. Abbiamo un Paese che solo nel primo anno della pandemia ha visto la spesa pubblica crescere di circa 80 miliardi, per poi scoprire che la ricchezza netta privata in quell’anno era cresciuta di 100 miliardi. Dopo l’esplosione delle bolle finanziarie di 15 anni fa abbiamo visto gradualmente lievitarne di nuove e ben superiori, senza che si facesse nulla per distinguere banche d’affari da banche commerciali, senza regolamentazione dei derivati, senza che ci fosse una reale lotta ai paradisi fiscali o si provvedesse ad attenzionare la crescente finanza ombra. Se si vuole parlare di giustizia e di vera lotta all’esplosione delle diseguaglianze bisogna andare a monte dei problemi e quindi tornare alla distribuzione della ricchezza che si gioca attorno al lavoro.
La seconda riflessione riguarda il fatto che l’arretramento non delle donne, ma soprattutto della condizione delle donne rispetto a un lavoro che garantisca un’esistenza libera e dignitosa, perché è di questo che si parla, fa arretrare il Paese. La metà delle donne sotto i 35 anni se fa un figlio deve mettere in conto sia una buona possibilità di perdere il lavoro sia il rischiare la soglia di povertà (o di dipendere relativamente dal partner), grazie anche all’aumento del sovraccarico e dei costi del sistema di welfare e dell’istruzione: tutto ciò appesantisce il sistema Paese. Lo blocca sia in termini di intelligenza e passione umana sprecata che di risorse economiche, visto che redditi bassi significano poco e nulla contribuzione previdenziale e scarsissimo gettito fiscale. E non ultimo alimenta e asseconda una competizione economica sleale, trasandata e spesso sommersa che a dispetto di tante aziende virtuose, più nell’industria, compete giocando su furbizia e clientelismo e non sull’intelligenza e la qualità, su un’aggressiva e spesso cinica ricerca del lavoro sottopagato o di fornitori costretti a lavorare sotto costo. Anche i numeri sui morti nel lavoro esigerebbero meno retorica e più svelamento della realtà: in molte situazioni i controlli sono attenuati anche perché l’economia e spesso un diffuso consenso sociale incrociano margini di sospensione della legalità in significative fette di filiere produttive. Pare perfino errato raccontare di un Paese “sommerso” perché il grigio e il nero al quale la parola sommerso si riferisce è tutt’altro che sommerso e nascosto, è invece tollerato e neanche troppo mimetizzato nella realtà quotidiana del lavoro e del vivere sociale. Senza per questo accusare tanti operatori, ma una vicenda come quella degli stabilimenti balneari ancora da mettere a bando dimostra quanto la politica e il Paese siano spesso ostaggio del consenso radicato attorno a una diffusa erosione del senso del bene pubblico.
Non è tutta così l’economia del nostro Paese, e certo tra i protagonisti delle nostre eccellenze c’è spesso chi si ispira a logiche olivettiane, chi pratica un’economia effettivamente civile, ma nel complesso non si può negare che l’economia del sistema Paese vive spesso dei mali che lo stanno uccidendo scommettendo su una logica che in ultimo oggi ci fa scoprire in crisi demografica. Irrimediabilmente, se non ci apriamo all’accoglienza e a regolari politiche di regolarizzazione dei migranti, visto che i trentenni di oggi sono circa i 2/3 di quelli di 20 anni fa. Come facciamo a chieder loro di fare più figli dei loro coetanei di allora, 1,5 volte più numerosi e che avevano redditi molto più forti e stabili?
Nonostante alcune eccellenze, nel complesso, per far fronte a bassa occupazione, si è scelta come sistema Paese negli ultimi 30 anni di affrontare la globalizzazione (e poi la fine della possibilità di svalutare la lira) imboccando la fuorviante scorciatoia del “lavorare meno e peggio pur di lavorare tutti quelli di prima”, dove per “prima” si guarda alle varie crisi che segnano gli ultimi decenni.
Le donne e il lavoro dispari sono al centro di questi fenomeni e da lì si deve urgentemente ripartire. Il circolo vizioso tra sovraccarico di cura (e mancata condivisione della cura) e lavoro diseguale sono alla radice di questa diseguaglianze che cresce ancor più al sud. Purtroppo, in questo caso, il lavoro fa cultura, anzi sottocultura rischiando di alimentare una tendenza a vedere nell’impiego di molte donne il lavoro di serie b, il lavoro meno importante della famiglia, promuovendo così una ulteriore scarsa condivisione dei compiti di cura familiare.
C’è innanzitutto una questione culturale che va affrontata sulla disparità di genere, tornando a parlarne, ma anche rimettendolo al centro delle organizzazioni nelle quali ci troviamo, viviamo, lavoriamo e ci impegniamo.
C’è poi l’agenda politica.
Torniamo anche nel libro sull’urgenza di un salario minimo rendendo vincolanti i livelli dei contratti collettivi siglati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative (come del resto le nuove norme pretendono dal Terzo settore). Serve però unire a ciò altre importanti misure: individuare un indicatore Istat che misuri quell’esistenza libera e dignitosa che la Costituzione (art. 36) pretende da tutte le retribuzioni, penalizzare col ritorno della scala mobile i ritardi nei rinnovi contrattuali, premiare le imprese che oltre a contratti solidi e veri scommettono su conciliazione, formazione permanente, partecipazione dei lavoratori, e vincolare al rispetto di contratti dignitosi e nuove norme di due diligence europea sui diritti e l’ambiente tutte le filiere produttive, compresa la Pubblica Amministrazione e il suo ampio indotto spesso incline a massimi e cinici ribassi.
Torniamo a chiedere più e migliori controlli, un piano straordinario per l’occupazione femminile e un investimento per un Scuola veramente accessibile a tutti, che rimetta al centro l’educazione e non veda la formazione professionale considerata come un mero ripiego, per altro possibile solo al nord.
E, non ultimo, proponiamo si individui anche una soglia di Guadagno Massimo Consentito, visto che ci sono manager che prendono buone uscita 10.000 volte superiori a quel di un lavoratore e che, complice un fisco che sempre più premia gli esageratamente ricchi, spesso sono speculazione e troppe rendite ad imporre prezzi alti alle spese delle famiglie, riduzione delle politiche pubbliche e lavoro sottocosto a piccole aziende e lavoratori.
L’umanità non è mai stata così vicina alla propria autoestinzione, ma non è mai stata neanche così in grado di produrre invenzioni, risorse economiche e opportunità, così capace di generare soluzioni, ricchezza e valore. La sfida è far emergere e dare spazio alla dignità a scapito dell’avidità, di troppa avidità e concentrazione di ricchezza e potere in poche mani ed interessi. La sfida è dare spazio a un Paese civile. Del resto la nostra Costituzione detta complessivamente questo insegnamento: lo sviluppo civile viene prima e determina quello economico e la sua giusta destinazione.