Lavoro migrante e sfruttamento

Gli effetti dell’approccio Salvini sulle condizioni lavorative dei richiedenti asilo


In questo articolo affronteremo il tema delle possibili conseguenze dell’approccio Salvini –  espresso nelle disposizioni della legge 132/2018 su “immigrazione e sicurezza” e nel nuovo Capitolato uscito a fine dicembre 2018 a firma del Ministero dell’Interno – sulle condizioni lavorative dei richiedenti asilo accolti nelle strutture di accoglienza.

 

L’accoglienza nel contesto pre-Salvini

Nel sistema pre-Salvini, una volta transitati dagli hotspot e dai centri di prima accoglienza, i richiedenti asilo venivano assegnati alla seconda accoglienza, rappresentata dal programma SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e dai CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria).

Lo SPRAR è stato istituito con la legge 189 del 2002, la quale ha istituzionalizzato una pratica di accoglienza decentrata sperimentata già dal 1999 con l’incremento dei flussi dal Kosovo e che coinvolgeva enti locali e terzo settore. Il sistema SPRAR è coordinato dal Ministero dell’Interno insieme all’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI) ed è finanziato da un apposito fondo denominato ‘Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo’. Gli enti locali che aderiscono allo SPRAR ricevono un finanziamento triennale per l’attivazione di un progetto di accoglienza sul proprio territorio: tramite gara d’appalto, tale progetto viene assegnato dall’ente locale ad un ente gestore non profit (cooperative sociali, ong, onlus). L’implementazione di un progetto SPRAR deve seguire il principio dell’accoglienza integrata, basata su strutture di piccole dimensioni (prevalentemente appartamenti) e finalizzata all’integrazione dei richiedenti e titolari di protezione nei territori attraverso attività di inclusione sociale, culturale, scolastica e lavorativa.

Oltre all’erogazione del vitto, dell’alloggio e del pocket money, gli enti gestori devono fornire quindi una serie di servizi per l’inserimento sociale: l’iscrizione anagrafica; l’ottenimento del codice fiscale; l’iscrizione al servizio sanitario nazionale; l’inserimento a scuola; il supporto e orientamento legale; i corsi di lingua italiana o l’iscrizione ai corsi offerti dal territorio; l’orientamento al lavoro; l’orientamento all’inserimento abitativo; le attività socio-culturali e sportive. Secondo gli ultimi dati relativi a gennaio 2019, nel sistema SPRAR sono ospitate 35.650 persone. In tutta Italia, sono attivi 875 progetti che coinvolgono 746 enti locali, per lo più Comuni. Come si può evincere da questi dati, nonostante venga considerato un modello virtuoso di accoglienza, il sistema SPRAR non è riuscito ad affermarsi come modello primario di accoglienza su scala nazionale. Soprattutto a causa di ragioni politiche, moltissimi Comuni non hanno mai dato la loro disponibilità, anche se è da rilevare l’intricato rapporto tra gli enti locali e il Sistema centrale.

Nel biennio 2014-2016, per rispondere ai numeri più consistenti degli sbarchi, il Ministero dell’Interno ha dato inizio all’attuazione di un piano di distribuzione dei richiedenti asilo gestito direttamente dalle Prefetture attraverso apposite convenzioni con enti privati. Ciò ha favorito, tra il 2014 e il 2017, la nascita e l’incremento su tutto il territorio nazionale dei CAS. Concepiti inizialmente come strutture temporanee ed emergenziali, l’accoglienza in questi centri è divenuta col tempo tutt’altro che straordinaria: nei CAS sono ospitati la grande maggioranza dei richiedenti asilo presenti nel territorio italiano (nel 2017 ne erano accolti 158.821). A differenza delle strutture SPRAR, i CAS possono essere gestiti sia da enti profit che non profit su affidamento diretto delle prefetture tramite gare d’appalto basate su una retta pro-die e pro-capite (fino al 2018 un massimo di 35 euro).

I CAS, finanziati dallo stesso ‘Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo’, possono essere costituiti da grandi strutture recettive (accoglienza collettiva) oppure, nei casi più virtuosi, da appartamenti di piccole e medie dimensione distribuite sul territorio (accoglienza diffusa) simili agli SPRAR, ma con minori servizi garantiti. Infatti i CAS non rispondono a linee guida certe e concordate; la qualità dell’accoglienza e la tipologia dei servizi offerti ai beneficiari dipendono spesso dalla responsabilità e serietà dei singoli enti gestori.

 

Il lavoro dei richiedenti nel contesto pre-Salvini

L’inserimento lavorativo dei rifugiati e richiedenti è un problema condiviso da altri Stati in Europa, perché questa tipologia di migranti è composta da persone con meno reti di supporto e spesso con vulnerabilità maggiori. Essendo il lavoro uno degli elementi cardine su cui avviare percorsi di autonomia e di integrazione dei richiedenti asilo nei territori, gli enti gestori offrono spesso il servizio di orientamento lavorativo. Nello SPRAR sono previste da bando figure specifiche,  il tutor lavorativo, impiegate nel coadiuvare l’offerta del territorio – in termini di corsi di formazione, tirocini e posti di lavoro – con le capacità/competenze possedute e costruite dai beneficiari. Nel CAS l’attività di orientamento al lavoro viene svolta dall’operatore sociale. Questa figura, oltre a dedicarsi al soddisfacimento dei bisogni primari dei beneficiari (consegna denaro/buoni pasto per il vitto e il pocket money, iscrizione al Sistema Sanitario Nazionale, iscrizione anagrafica, accompagnamenti sanitari), si occupa anche della stesura del curriculum vitae dei richiedenti, dell’iscrizione ai centri per l’impiego, della loro iscrizione a corsi di formazione, della ricerca di tirocini, della promozione di attività di volontariato, dell’aiuto alla stesura delle domande di partecipazione al servizio civile nazionale. L’operatore sociale svolge, inoltre, un’importante attività di monitoraggio delle condizioni lavorative dei beneficiari, segnalando all’ente gestore fenomeni di sfruttamento o di tratta degli esseri umani. In collaborazione con gli altri servizi dell’accoglienza, questa figura si occupa infine di sostenere e promuovere altre attività finalizzate a potenziare il coinvolgimento sociale e culturale dei beneficiari nei territori, come la partecipazione ai corsi di lingua italiana offerti dai servizi territoriali e/o ad eventi socio-culturali e sportivi.

 

Il sistema SPRAR, oltre alla figura dell’operatore sociale, prevede anche altre professionalità e offre servizi e tutele maggiori rispetto al sistema CAS. Infatti, lo SPRAR garantisce un servizio specifico chiamato “area lavoro” che favorisce percorsi di formazione per i beneficiari in collaborazione con i centri di formazione (come i corsi di informatica, di mulettista, di ristorazione e simili); facilita il loro inserimento in tirocini formativi finanziati dal progetto stesso SPRAR o dalle singole aziende in cui essi si svolgono; infine sostiene percorsi individualizzati di ricerca del lavoro. In stretta collaborazione con i servizi di accoglienza e dei Comuni, gli operatori dell’area lavoro svolgono un’attività di attenta valutazione dei bisogni e delle competenze dei singoli beneficiari.  Attraverso colloqui strutturati e approfonditi, l’area lavoro cerca di valutare le risorse individuali, il livello di conoscenza dell’italiano, i desideri dei richiedenti, incrociandoli con le opportunità offerte dal territorio.

 

Nonostante i servizi offerti negli SPRAR e nei CAS, risulta molto raro che un richiedente asilo, con le caratteristiche di vulnerabilità e precarietà esistenziale, sociale e giuridica, riesca a trovare un lavoro stabile nella fase dell’accoglienza. Come accennato in un precedente articolo, il sistema di accoglienza nella provincia di Bologna viene considerato come un esempio virtuoso: da un lato, le amministrazioni locali hanno spesso favorito l’inserimento dei richiedenti negli SPRAR; dall’altro, anche gli enti gestori dei CAS, seppur con fatica, stavano cercando di uniformarsi allo SPRAR con l’accoglienza diffusa, privilegiando le piccole strutture piuttosto che i grandi centri e puntando sull’integrazione.

I dati in nostro possesso, riferiti a 10 strutture (CAS) dislocate tra Bologna e provincia, nelle quali risiedono 118 richiedenti, mostrano un quadro preoccupante. Sebbene molti di essi abbiano partecipato ad attività di volontariato (60%) e una (piccola) parte abbia partecipato a corsi di formazione e attività di tirocinio/servizio civile nazionale (11%), è emerso che numerosi richiedenti asilo sono coinvolti nel lavoro nero, nel lavoro grigio, in diverse forme e intensità di sfruttamento lavorativo. In particolare, appena il 12% dei richiedenti asilo ha un lavoro stabile; quasi il 22 % non ha un lavoro; il 24,5% è coinvolto in attività lavorative in nero e circa il 30% nel lavoro grigio.

I principali settori di impiego sono l’agricoltura, l’edilizia, la piccola distribuzione (gli alimentari) e la ristorazione. Nel settore dell’edilizia, in quello della ristorazione e negli alimentari prevale il lavoro grigio: ovvero casi in cui si riscontrano situazioni con contratti di 15 o 20 ore settimanali a fronte di 40, 50 o 60 ore lavorate. Se nel settore edilizio e nella ristorazione una parte della retribuzione viene corrisposta in nero (fuori busta), i lavoratori negli alimentari percepiscono spesso solo quanto risulta da contratto (400-500 euro mensili). In questo caso i datori di lavoro sono spesso connazionali dei richiedenti (bengalesi o pakistani).

Il settore dell’agricoltura è invece quello dove si riscontra la più alta prevalenza di lavoro totalmente in nero: i salari dei richiedenti vanno da 3 a 5 euro l’ora, con turni anche notturni. Essi vengono impiegati soprattutto nella raccolta dei prodotti ortofrutticoli e sono di frequente supervisionati da lavoratori dell’est, prevalentemente romeni. Questi ultimi si occupano anche di organizzare e reclutare la manodopera stagionale direttamente nei paesi di origine: dei pullman giungono dalla Romania per assicurare alle imprese agricole la forza lavoro stagionale (retribuita maggiormente rispetto ai richiedenti) di cui hanno bisogno.

 

Ci sono alcuni fattori che contribuiscono al coinvolgimento dei richiedenti asilo in diverse forme di sfruttamento lavorativo. Un primo è riconducibile alla condizione sociale ed economica pregressa: moltissimi richiedenti hanno la necessità di inviare denaro nel paese di origine, spesso per ripagare i debiti contratti per finanziare la partenza. Una seconda ragione è relativa alla questione dei permessi di soggiorno. I richiedenti, che rimangono nel sistema di accoglienza anche 2 o 3 anni in attesa di un giudizio definitivo, hanno diritto ad un permesso di soggiorno semestrale ‘per richiesta asilo’, rinnovabile di volta in volta. I datori di lavoro sono restii a contrattualizzare persone che sono in attesa della decisione sulla loro domanda di protezione internazionale e che potrebbero diventare irregolari dopo poco tempo. A questa problematica si aggiungono i ritardi dello Stato nel rinnovare i permessi di soggiorno: le questure sono spesso sotto organico e si trovano a gestire una mole ingente di pratiche di rinnovi, lasciando a lungo i richiedenti senza un regolare permesso di soggiorno. Questa situazione impedisce di stipulare un contratto o di rinnovarne uno esistente. Va ricordato che i contratti decadono per legge con la scadenza dei permessi.

Inoltre, la scarsa conoscenza della lingua italiana e del territorio porta spesso i richiedenti a ricercare un lavoro attraverso le reti di connazionali che risiedono da più tempo in Italia. Se da una parte le reti permettono di alleviare il senso di solitudine esistenziale e di trovare una qualche forma di lavoro, dall’altra è all’interno esse che si manifestano diverse forme di sfruttamento delle persone più vulnerabili. Questa condizione si verifica anche nell’accattonaggio, nel caporalato, nella prostituzione e nello spaccio di sostanze, come fatto emergere da alcuni studi. Infine, contribuiscono allo sfruttamento dei richiedenti asilo e di tanti altri migranti le caratteristiche strutturali del mercato del lavoro italiano, una diffusa cultura imprenditoriale basata sull’illegalità e sulla ricerca del massimo profitto al minor costo e la mancanza o debolezza dei controlli da parte degli organi ispettivi.  A tal proposito, secondo le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto (FLAI-CGIL) circa 30.000 aziende agricole in Italia (una su quattro) ricorrono all’intermediazione del caporale per recludere forza lavoro, per un giro d’affari di quasi 5 miliardi di euro; oltre 400.000 migranti sono esposti al rischio di ingaggio irregolare e caporalato in agricoltura, di cui 130.000 si trovano in una condizione di grave vulnerabilità e sfruttamento para-schiavistico.

Le conseguenze dell’approccio Salvini

Le nuove politiche sull’asilo hanno già dato i loro frutti: secondo le elaborazioni dell’ISPI dall’entrata in vigore del “decreto sicurezza” ci sono circa 40 mila irregolari in più a causa delle restrizioni sui rilasci dei permessi umanitari e sul riconoscimento dell’asilo in generale.

La già precaria condizione lavorativa dei richiedenti potrebbe essere ulteriormente esasperata dall’approccio Salvini. La legge 132/2018 ha infatti riservato la permanenza nel SIMPROIMI (ex SPRAR) ai soli titolari di protezione internazionale, privando quindi i richiedenti asilo e i titolari di protezione umanitaria dei servizi dello SPRAR, tra i quali l’orientamento lavorativo. La stessa legge ha inoltre negato ai richiedenti la possibilità di fare l’iscrizione anagrafica in Comune. Ciò significa che queste persone non potranno avere né la residenza (sebbene di recente la Cassazione si sia pronunciata diversamente) né una carta identità, e non potranno quindi iscriversi al centro per impiego, aprire un conto corrente o ottenere una carta di credito. Queste condizioni sono imprescindibili per stipulare un regolare contratto di lavoro.

Il nuovo Capitolato, emesso dal Ministero dell’Interno a dicembre del 2018, sul quale le Prefetture stanno basando i nuovi bandi per la gestione dei CAS, riduce il budget pro capite e pro die a un massimo di 26.50 per strutture a larga capienza (anche oltre 1000 persone) e 21,50 euro per piccoli centri sotto i 50 beneficiari, favorendo quindi l’accorpamento in grandi centri. Questa riduzione produrrà conseguenze importanti sui servizi erogati, ridotti ai bisogni essenziali di vitto e alloggio. Infatti, nel nuovo apitolato non sono più previsti i servizi per l’integrazione, come i corsi di lingua italiana, e sono state ridotte drasticamente le ore di assistenza legale, le ore di mediazione culturale/ linguistica e le ore di presenza dell’operatore sociale nelle strutture di accoglienza. Infatti, il Capitolato stabilisce un solo operatore sociale ogni 50 beneficiari, rendendo impossibile un adeguato orientamento lavorativo e un monitoraggio attento delle condizioni lavorative dei richiedenti.

Si ritorna così a soluzioni provvisorie e assistenzialiste, basate sull’urgenza e legittimate dall’emergenza, senza nessun servizio pensato per l’integrazione dei richiedenti sul territorio. La mancanza di tutele giuridico-amministrative per i richiedenti asilo provocata dalla legge 132/2018 e la riduzione del budget per la gestione dei centri di accoglienza prevista dal nuovo Capitolato porteranno ad una maggiore vulnerabilità dei richiedenti asilo. Di conseguenza, queste persone saranno ancora più esposte al rischio di essere coinvolte in forme di lavoro nero, in fenomeni di sfruttamento e nella micro-criminalità.