Il tema
Alzi la mano chi non ha mai vissuto una situazione di questo tipo! C’è da scommetterci, nessuno lo farà, sarebbe veramente singolare nel nostro mondo. Ci si riferisce ad incontri in cui viene proposta la discussione su un tema attraverso tecniche espressive – esplorative – emersive, che per brevità indicheremo con la sigla 3E. Gli oggetti possono essere molteplici: tanto per fare alcuni esempi, le prospettive di sviluppo per l’impresa sociale, il welfare, la partecipazione, i giovani, ecc. In altre parole, generalmente, temi con un certo grado di complessità, non privi di aspetti controversi. Si immagini un gruppo di operatori sociali, pubblici e di terzo settore, lì convenuti per ragionare insieme sul tema in questione; e un conduttore o facilitatore che coraggiosamente prende le redini dell’incontro, proponendo un metodo di lavoro.
Bene, molto spesso questi proporrà appunto al gruppo una metodologia di tipo 3E: potrà essere un classico brain storming, potrà chiedere di apporre post-it colorati su delle lavagne, di scrivere su un cartellone, potrà utilizzare metodologie più complesse facendo disfare e ricombinare gruppi, ecc. Poi, presumibilmente, il conduttore – facilitatore proverà in qualche modo a riordinare, organizzare, sistemare gli stimoli ricevuti: metterà uno vicino all’altro post-it con contenuti simili, o con lo stesso criterio aggregherà parole proposte dai partecipanti, creerà cluster di significati, sempre chiedendo al gruppo di validare l’operazione. Talvolta, sarà richiesto al conduttore – facilitatore di rivedere le sue rielaborazioni (e lui lo farà), sino ad ottenere un quadro che raccoglie il consenso dei partecipanti. Toccherà quindi ancora a lui, al conduttore – facilitatore, sintetizzare l’esito della discussione, non mancando di sottolineare come esso rappresenti il prodotto di una intelligenza collettiva e quindi un sapere validato e condiviso dal gruppo.
Dunque, qual è il problema?
Il problema non sta nelle tecniche in sé, che come tante altre possono rivestire una indubbia utilità in contesti appropriati, ma nel loro utilizzo. Un utilizzo che, a parere di chi scrive, appare spesso eccessivo, debordante rispetto ai contesti di applicazione delle 3E e poco meditato; e su questa scelta di moltiplicare all’eccesso l’utilizzo di metodologie 3E varrà la pena di fare qualche ulteriore riflessione.
Le metodologie 3E
“Quali sono le sfide più significative per l’impresa sociale nei prossimi 10 anni?” chiede il facilitatore. Le mani, prima timidamente, poi una dopo l’altra, si alzano: “differenziare i clienti” dice uno, “rafforzare i legami con la comunità” osserva il secondo, “intercettare le energie dei giovani” aggiunge un terzo, e poi tanti altri: “aumentare il fatturato privato”, “favorire il ricambio del gruppo dirigente”, dice uno, “aumentare le competenze del gruppo dirigente” chiosa, precisando, un altro, e ancora “rendere più paritaria la relazione con le pubbliche amministrazioni”, ma anche “contrastare il deflusso dei lavoratori” e “fidelizzare maggiormente i nuovi soci”. Tutte cose ragionevoli. Talune forse non perfettamente sintoniche con altre, ma nelle metodologie 3E generalmente si tendono a legittimare le differenze e a smussare i contrasti.
È un’aula vivace e attiva, si sono prodotti abbondanti materiali da riaggregare in macrocategorie: “i mercati”, “i lavoratori”, “il gruppo dirigente”, “gli stakeholder”, ecc. Sembra venuto fuori un buon lavoro, pulito. Alla fine, tutti se ne vanno soddisfatti; il facilitatore, da parte sua, è stato spigliato e simpatico (indubbiamente più di chi scrive quando si avventura in queste metodologie di conduzione, e non ci vuole molto). Ma, al di là della piacevolezza, questo momento – che è costato, tra ore di lavoro di una ventina di partecipanti e compenso del facilitatore circa 2500 euro – è servito?
La domanda merita di essere ulteriormente articolata. Perché, lo ricordiamo, si tratta di tecniche espressive – emersive. Se i partecipanti sono arguti e vivaci, sicuramente la sessione di lavoro trascorre piacevolmente, ma ciò non esime dal porsi qualche domanda.
In primo luogo, la scelta di tecniche 3E era coerente con la finalità dell’incontro? Si trattava cioè effettivamente di conseguire:
- obiettivi espressivi: i partecipanti avvertono che, se il facilitatore non agisce in modo manipolativo (o se comunque non si fa cogliere in fallo), quel prodotto finale è “loro”. Ciascuno può riconoscere quella parola, che ora si legge sul post–it o scritta sul cartellone, come il proprio contributo, può dire con soddisfazione “questo è anche mio” rispetto all’esito finale riassunto dal facilitatore e si può ritenere che per effetto di ciò si sentirà più ingaggiato a contribuire a realizzarlo, percepirà come legittime le diverse sensibilità altrui, proprio perché, simmetricamente, anche le sue sono state considerate. In altre parole, un bel risultato rispetto al potenziale rischio di sentirsi perennemente trascurati, privati del diritto di tribuna, con tutte le conseguenze che questo porta in termini di demotivazione;
- obiettivi esplorativi ed emersivi: anche se non è scontato che accada, potrebbe pur essere che una parola, una intuizione, uno spunto della discussione sia, almeno alle orecchie di alcuni, non così scontato. Magari in quel gruppo, connotato da una certa cultura, il fatto che qualcuno sommessamente abbia detto “intercettare le energie dei giovani” non era tra i discorsi che tipicamente venivano sviluppati tra quelle persone. Certo, si tratta poco più di uno spunto, che necessita di essere declinato (“come intercettare queste energie? Chi lo può fare?” Ecc.), ma il fatto che tale stimolo sia emerso in quel gruppo rappresenta un valore aggiunto.
La domanda diventa quindi: ma era di questo, dell’espressività e dell’emersione, che quelle persone avevano bisogno? Erano questi aspetti ad essere prioritari? Perché, da altri punti di vista, i risultati potrebbero apparire meno soddisfacenti.
Se consideriamo il merito dei contenuti prodotti, constatiamo come tutti i concetti scritti su quei post-it erano infatti alla portata della grande maggioranza dei partecipanti: ciascuno, con 10 minuti di tempo, carta e penna, non avrebbe avuto problemi a scrivere la grandissima parte delle cose che vi si leggono (salvo tralasciare quelle che non condivideva). Per non parlare di un esperto, uno che il tema l’ha studiato, che in 15 minuti di discorso avrebbe senz’altro potuto dire di più e meglio rispetto a quanto un gruppo di 20 persone ha prodotto in due ore. Avrebbe potuto scrivere un articolo su Welforum.it e i partecipanti leggerlo e in pochi minuti avrebbero avuto uguali o superiori elementi conoscitivi. Ovvia obiezione, che riprende quanto detto sopra: sì, ma così i partecipanti non avrebbero sentito il prodotto come “loro”! Era una cosa detta da altri…
Ma la questione è più complessa. Davvero questa famiglia di gratificazioni è prioritaria? E, se lo è, si tratta di una apprezzabile dinamica partecipativa, o piuttosto di un surrogato a prezzi scontati di qualcos’altro che non c’è? E, in ogni caso, questo tipo di pratiche, oltre al vantaggio della gratificazione, ha dei costi che non ci sono immediatamente evidenti?
Riannodare i fili
Andiamo con ordine. Le metodologie 3E servono a ciò per cui sono state pensate: per consentire alle persone di esprimersi e quindi di riconoscersi in un prodotto di pensiero e per offrire un contesto non strutturato e quindi anche libero da vincoli, in cui stimoli diversi anche non convenzionali possano emergere. Non servono ad altro.
Non servono ad esempio a costruire un pensiero articolato su temi complessi, per diversi motivi.
Da una parte, ciò non è possibile per l’intrinseca vocazione delle metodologie 3E alla semplicità, che caratterizza tali strumenti donando immediatezza. Non a caso il facilitatore pone generalmente limiti drastici alla complessità dei contributi: lo spazio fisico di un post-it o una esplicita consegna a rappresentare il proprio pensiero con una singola parola a o un insieme limitato di parole, generalmente con un’espressione ellittica anche rispetto alla frase minima. Anche rispetto al tempo, generalmente si tratta di articolare il proprio pensiero in pochi minuti, talvolta con l’esplicito intento di far sgorgare un pensiero più immeditato e spontaneo, prima che i filtri mentali lo neutralizzino. È evidente che su temi dove un discorso compiuto richiederebbe di discutere tesi e controtesi, di sviluppare ragionamenti, le metodologie in questione risultano inadatte. Le espressioni ultrasintetiche descrivono stati d’animo, orientamenti generali e non certo analisi articolate.
Ma, d’altra parte, si potrebbe sostenere che, se questo è vero a livello di singola parola, l’affastellarsi di più contributi da parte dei vari membri vada a comporre, secondo la magia dell’intelligenza collettiva, un punto di vista più complesso e articolato. Anche su questo, però, vi è da dubitare. Ammettiamo pure che un destino benevolo e un gruppo di partecipanti favorevolmente complementare faccia sì che tutti gli ingredienti del ragionamento compiuto siano lì, sul cartellone, pronti ad essere interpretati: i mattoni ci sono tutti. Purtroppo, anche in questo caso, siamo solo alla metà dell’opera. I concetti, per esser effettivamente parte del ragionamento, dovrebbero poi essere gerarchizzati, discussi, interconnessi (si intende, in modo più solido che tracciando una freccina tra due parole o post-it); cosa che sicuramente non può fare il facilitatore, che generalmente ha un profilo di metodologo e che del merito della questione capisce abbastanza poco, ma, a ben vedere, non può fare nessuno, perché si tratta di uno sforzo che generalmente richiede pazienti ore a scrivania (preferibilmente a telefono spento) da parte di persona culturalmente accessoriata per farlo e in vena bastevolmente creativa.
In sintesi: generalmente la “qualità sostanziale” delle restituzioni di un lavoro di decine di persone impegnate nella costruzione collettiva di un sapere ha una pregnanza inferiore ad un paper di poche migliaia di caratteri scritto da una persona sola con minima cognizione di causa (e in meno tempo). Sulla “qualità processuale”, intesa come soddisfazione per il processo partecipato realizzato e quindi sulle modifiche profonde degli atteggiamenti e propensioni dei partecipanti in senso collaborativo, incoraggiati dal lavoro comune svolto, vanno fatte ulteriori riflessioni.
Perché siamo (o meglio: perché alcuni di noi sono) gratificati da questo genere di prodotti
Ciononostante, in non pochi casi chi esce da una situazione di costruzione collettiva di prodotti intellettuali manifesta soddisfazione. Invece di sentirsi annoiato per il tempo perso o infastidito per la banalità dei risultati, tutto sommato è contento. È stato bene, con gente simpatica, con un conduttore brillante. I risultati, per quanto evocativi, hanno una forma seducente: parole, freccette, colori, che insieme quantomeno alludono a universi di pensiero che risultano familiari a chi ha partecipato.
Il commento a tutto ciò richiede però, ancora una volta, di problematizzare. L’apprezzamento per questi risultati potrebbe significare, infatti, che ci siamo adattati: ad un mondo dove leggere un ragionamento compiuto e articolato (e magari complesso) è uno sforzo improponibile, ma anche dove ascoltarlo narrato per più di 20 minuti rischia di essere noioso. Siamo abituati ai tempi televisivi. Visto con occhio un po’ più malevolo, un mondo in cui tutte le profondità sono stemperate, il dato sparisce, l’opinione si fa per sentito dire o per partito preso, il commento si restringe in pochi caratteri.
E dove, d’altra parte si è affermato un concetto di protagonismo discutibile. Sì, perché sentirsi gratificati perché sul cartellone c’è scritta una parola che abbiamo detto significa prendere atto che la partecipazione si è dissolta in un qualcosa di sterile e scialbo. E quindi la vera domanda riguarda i motivi per cui metodologie senz’altro utili in contesti autenticamente 3E siano proposti, riproposti e talvolta accettati abbiano successo quando si tratta di realizzare elaborazioni e analisi.
Per concludere
Non esistono strumenti che in assoluto siano giusti o sbagliati: possono essere appropriati o meno agli obiettivi che ci si pone e al contesto. La diffusione di strumenti 3E in contesti che mirano al ragionamento e all’elaborazione è problematica perché tali strumenti servono ad altro. Tale eccentricità è d’altra parte coerente con una preoccupante virata verso contenuti tenui, a colori sbiaditi anche se un po’ infantilmente glitterati.
Spiace dirlo, ma non ci sono molte vie di uscita. Anche gli operatori sociali, pubblici e di Terzo settore hanno bisogno di misurarsi con lo scoglio del leggere e dell’ascoltare ragionamenti compiuti e talvolta complessi, di documentarsi su dati e circostanze, di scoprire lo spazio della “non immediatezza”: il fatto cioè che un prodotto di intelletto, generalmente, non possa essere composto sul momento, a fine di una sessione di lavoro, ma che, laddove i contenuti grezzi siano di interesse, richieda giorni o settimane di riflessione per essere sistematizzato in forma compiuta. Scorciatoie non ce ne sono, e volerle pervicacemente cercare ci porta a cadere nel burrone.