Le politiche migratorie sono state indubbiamente il terreno su cui il governo giallo-verde ha inciso maggiormente nei suoi primi mesi di attività. Il sigillo impresso dal ministro Salvini all’azione della coalizione è ben visibile. Va altresì ricordato che i provvedimenti in materia di immigrazione, soprattutto quelli che vanno nella direzione della chiusura, hanno in genere un’elevata risonanza politica e un basso costo economico.
Il provvedimento più importante è stato il cosiddetto decreto sicurezza, che prevede fra l’altro l’abrogazione quasi completa della protezione umanitaria, e quindi della possibilità di fornire una tutela ai richiedenti asilo che presentino serie condizioni di vulnerabilità: per esempio, madri sole con minori, o persone che correrebbero seri rischi per l’incolumità se rimandate in patria. Nel decreto resta in piedi soltanto la possibilità di concedere permessi per gravi motivi di salute o per chi arriva da paesi colpiti da catastrofi naturali, o per chi ha compiuto atti di particolare valore civile nel nostro paese. La linea dell’indurimento passa inoltre attraverso il raddoppio del tempo di trattenimento nei centri di detenzione, da 90 a 180 giorni, nell’aumento dei fondi per i rimpatri (500.000 euro nel 2108, 1,5 milioni nel 2019 e altrettanti nel 2020), nella possibilità di prevedere la detenzione alla frontiera o comunque in strutture diverse da quelle previste normalmente, nell’allungamento della lista dei reati che precludono la possibilità di ottenere asilo in Italia.
Il decreto guarda soprattutto al consenso interno, e a quanto pare lo raccoglie, ma presenta almeno tre ordini di problemi: di legalità, di efficacia e di utilità. Sul primo aspetto, si prevede una pioggia di ricorsi alla Corte costituzionale e all’Alta Corte di Strasburgo. Lo scostamento dalle tendenze del diritto internazionale sull’asilo non sarà facile da giustificare. Ancora una volta, delle persone in condizioni di fragilità rischiano di diventare ostaggio di interessi politici di corto respiro.
Circa l’efficacia, la prevedibile conseguenza sarà un aumento delle persone sbandate nelle nostre città, prive di tutele e di risorse. Senza tetto né legge. Il governo nonostante diversi viaggi in Africa dei suoi principali esponenti non è riuscito a sottoscrivere nessun accordo sui rimpatri. L’aumento dei fondi per le espulsioni, calcolando un costo minimo di 1.000 euro per ogni espulso, potrebbe coprire al massimo 1.500 espulsioni. L’allungamento dei tempi di detenzione nei Centri di permanenza per il rimpatrio non garantisce grandi risultati: sotto i governi Berlusconi-Maroni il tempo di detenzione era stato portato a 18 mesi, ma meno della metà dei non molti immigrati irregolari internati veniva effettivamente espulso.
Sorge allora il problema dell’utilità per il nostro paese. Far lievitare il numero dei richiedenti asilo denegati e lasciati a se stessi non aumenterà né la sicurezza né l’ordine delle nostre città.
Un secondo provvedimento riguarda l’introduzione di un’imposta dell’1,5% sui trasferimenti di denaro verso paesi extracomunitari, ossia principalmente sui risparmi che gli immigrati inviano alle loro famiglie. Le contraddizioni con l’asserita volontà di prevenire le migrazioni promuovendo lo sviluppo e le politiche effettive saltano agli occhi. Le rimesse (613 miliardi di dollari nel 2017 a livello mondiale) sono più importanti in valore degli aiuti pubblici allo sviluppo. In altri termini: gli emigranti aiutano casa loro già da soli, e non poco.
Questi flussi di denaro hanno inoltre la caratteristica di arrivare direttamente nelle mani dei beneficiari. Si calcola che le famiglie ne spendano circa i tre quarti per necessità basilari, come cibo, istruzione dei figli, assistenza medica, manutenzione e miglioramento delle abitazioni. Chi manda consistenti rimesse è chi ha ancora i familiari in patria, specialmente i figli. Spedire rimesse è un modo per mantenere la famiglia nei luoghi di origine, prendendosene cura a distanza. L’invio di rimesse è una strategia alternativa al ricongiungimento familiare, ossia a nuove emigrazioni. Anche per questa ragione le istituzioni internazionali da anni raccomandano una riduzione del costo dei trasferimenti monetari, e consistenti progressi in questo senso sono avvenuti nel tempo.
In Italia le rimesse da alcuni anni si aggirano intorno ai 5 miliardi di euro, avendo sofferto un sensibile calo rispetto al 2011, quando avevano raggiunto i 7,4 miliardi. I paesi che più ne ricevono sono nell’ordine Romania, Bangladesh, Filippine, Senegal, India. Probabilmente sul calo dei valori complessivi e sulla scomparsa dalle prime posizioni di alcuni dei paesi che contano più emigrati in Italia (pensiamo ad Albania, Marocco, Cina) incidono proprio i fenomeni di stabilizzazione delle famiglie e l’allentamento dei legami con la madrepatria.
Ne derivano tre osservazioni. Primo, l’obiettivo di aiutare gli immigrati a casa loro rivela la sua natura retorica e polemica. Il governo non vuole aiutare gli immigrati ma ribadire la sua inimicizia nei loro confronti. Secondo, otterrà l’effetto di incentivare il ricorso a canali informali e incontrollati di trasferimento di denaro. Terzo, sommandosi con altri segnali questo provvedimento inciterà gli immigrati a ricongiungere i familiari e appena possibile a diventare cittadini, allo scopo di evitare guai peggiori.
Un terzo segnale della direzione che hanno assunto le politiche migratorie riguarda in realtà un’omissione: la mancata adesione del nostro governo al Global Compact sulle migrazioni. Il Global Compact è lo sbocco di un processo intrapreso due anni fa dall’ONU, con un voto unanime dei 193 paesi membri: intraprendere un percorso comune per la definizione di un approccio globale alle sfide poste dalla mobilità umana, definendo un quadro regolativo per “migrazioni ordinate, sicure e regolari”. Il documento è stato definito dopo due anni di lavoro e ampie consultazioni di governi, istituzioni internazionali, enti non governativi, esperti. Ne è scaturita una proposta articolata in 23 obiettivi e per ciascuno sono previste diverse azioni, ma nessun vincolo stringente per i paesi firmatari. Il testo riafferma infatti il principio della sovranità nazionale e il potere dei governi di determinare la propria politica migratoria, distinguendo immigrazioni regolari e irregolari. Nei contenuti, è un documento molto equilibrato e calibrato, che prevede tra l’altro l’impegno a contrastare i problemi strutturali che possono indurre le persone a lasciare il loro paese, la garanzia che le migrazioni avvengano con documenti regolari, la lotta ai trafficanti e ai favoreggiatori dell’immigrazione non autorizzata, il sostegno al ritorno.
I motivi per cui Salvini ha già annunciato la sua contrarietà, assumendo ancora una volta le prerogative del ministro degli esteri, mentre il premier Conte ha cercato di salvare la faccia rimandando la decisione a un futuro dibattito parlamentare, sembrano essenzialmente due. Il primo è simbolico, o se si vuole ideologico. A Marrakesh oltre 160 paesi hanno approvato l’accordo, tra i quali gran parte dei paesi dell’Europa occidentale. Compresi il Regno Unito della Brexit e la Grecia degli sbarchi. Altri governi (pochi) hanno già annunciato la loro contrarietà. I principali sono Stati Uniti e Australia. Spiccano poi Ungheria, Polonia, Slovacchia, Bulgaria, Croazia, Austria…. Il nocciolo duro dei contrari in Europa è insomma il gruppo di Visegrad, a cui si è accodata l’Austria dopo le ultime elezioni: i paesi che hanno innalzato la bandiera del sovranismo e della chiusura delle frontiere. Per le forze al potere in questi paesi, dire no a qualunque proposta relativa all’immigrazione è un marchio di fabbrica, il mantra attorno a cui hanno costruito il consenso politico di cui godono. Quasi un riflesso condizionato. Il primo motivo della frenata italiana e del probabile no è una scelta di schieramento.
Il secondo motivo si riferisce ad alcuni contenuti del Global Compact. L’accordo prevede infatti cautamente la disponibilità di percorsi di immigrazione regolare, l’impegno a salvare le vite dei migranti in pericolo, l’impiego della detenzione dei migranti solo come misura di ultima istanza, l’accesso ai servizi di base e altre linee d’indirizzo che rafforzano i diritti dei migranti. Fanno intravedere tra l’altro la possibilità di una prudente apertura delle frontiere anche per l’immigrazione per lavoro, in relazione alle esigenze dei paesi riceventi. Un obiettivo, il ventesimo, riguarda esplicitamente la riduzione dei costi dell’invio di rimesse da parte degli emigrati.
Non è quindi strano che Salvini si sia opposto, e la maggioranza di governo molto probabilmente lo seguirà. Si può dubitare degli effetti concreti del Global Compact, ma finire da subito nel gruppo minoritario dei contrari a prescindere servirà ancor meno. Non gioverà di certo all’immagine internazionale del nostro paese, al suo rango nel novero dei paesi che guidano il mondo, all’ascolto delle sue richieste nei negoziati con gli altri governi, su temi come la riforma delle convenzioni di Dublino, gli accordi con i paesi di origine, la gestione dei rimpatri. La corsa al consenso è l’obiettivo, non il miglioramento della gestione di una materia complessa.