Le politiche migratorie del secondo governo Conte. Una sostanziale continuità?
Maurizio Ambrosini | 12 Dicembre 2019
Molti si domandano come si stia muovendo il governo Conte 2, con una maggioranza diversa dalla precedente, in materia di politiche migratorie.
Il giudizio complessivo, finora, è quello di una sostanziale continuità con l’esecutivo precedente, malgrado alcuni cambiamenti di stile e di linguaggio. Lo ha dimostrato ai primi di novembre 2019 il rinnovo dell’accordo con la Libia, nonostante le ripetute denunce di maltrattamenti nei centri di detenzione, la guerra civile in corso e la scoperta del coinvolgimento di trafficanti al vertice della Guardia Costiera libica.
Le autorità italiane, con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in evidenza, hanno richiamato il drastico calo degli arrivi, delle richieste di asilo e delle morti in mare come il principale risultato dell’accordo. In effetti, secondo i dati del Ministero degli Interni, gli sbarchi sulle coste italiane sono diminuiti dai 114.415 del 2017, relativi per di più in gran parte alla prima metà dell’anno, ai 22.318 del 2018, fino ai 9.944 a fine ottobre 2019. Già suona alquanto discutibile che un governo si vanti di impedire alle persone che ne avrebbero diritto di cercare asilo in un paese a ordinamento democratico, firmatario di varie convenzioni internazionali al riguardo. Ma sono ormai anche emersi in modo conclamato i costi umani di quella chiusura. Non basta che le persone non muoiano in mare, se vengono torturate e uccise a terra, soltanto lontano dalle telecamere e dai residui afflati umanitari dell’opinione pubblica interna.
Il governo Conte 2 ha anche promesso di avviare negoziati con la Libia, mediante una commissione congiunta, per migliorare le condizioni di detenzione nei centri ormai sotto accusa. Se non altro ha ammesso che il problema esiste. La promessa giunge però tardiva, poco convincente e contraddetta dagli intrecci tra autorità ufficiali libiche, trafficanti, milizie armate e pezzi dello Stato italiano. I libici non agivano in proprio, ma armati, coordinati e sussidiati dalle autorità italiane. La sorprendente efficienza e determinazione messa in campo da uno Stato pressoché fallito si spiega con le risorse e l’appoggio logistico forniti dall’Italia, insieme alla disinvoltura pressoché inedita con cui sono state imbarcate negli accordi anche forze locali sospettate di aver favorito fino al giorno prima le partenze e altri traffici.
Occorre però allargare lo sguardo ad altri capitoli delle politiche migratorie. Alcune novità si sono intraviste: il mini-accordo di Malta ha favorito una redistribuzione dei pochi sbarcati dalle navi umanitarie nelle ultime settimane verso Francia e Germania. Le stesse navi hanno potuto attraccare nei porti italiani, anche se dopo giorni di attesa, senza subire attacchi infamanti e persecuzioni giudiziarie. Soprattutto, è cambiato il linguaggio e l’atteggiamento: il ministro degli interni non tuona più ogni giorno contro poche decine di rifugiati come se fossero una minaccia esiziale per il paese, fomentando l’ostilità di ampie porzioni dell’opinione pubblica e veri e propri discorsi d’odio in rete e nella vita reale.
Nei fatti però il tratto prevalente è quello di una sostanziale continuità con il governo precedente a trazione leghista. La promessa revisione dei pacchetti sicurezza nel senso richiesto dal Presidente della Repubblica ancora tarda, mentre ogni giorno richiedenti asilo inseriti nei luoghi di lavoro perdono il posto e i diritti, perché si vedono respinta l’istanza di protezione internazionale. Da un giorno all’altro persone che avevano intrapreso incoraggianti percorsi d’integrazione si trasformano in senza dimora. Il ministro Lamorgese ha reiterato una promessa di revisione dei decreti-sicurezza, ma rimandandola a gennaio.
Nessuna novità nemmeno su un nuovo codice della cittadinanza ispirato allo ius culturae. Di Maio ha ribadito una posizione di chiusura, e Conte si è allineato. Nei Cinque Stelle convivono varie posizioni sulle questioni dell’immigrazione (altri esponenti, in Parlamento e nel governo, si erano pronunciati a favore), ma la linea del leader e del movimento (nonché alcune indimenticate uscite dello stesso Beppe Grillo) è più vicina a quella della Lega che a quella delle forze di sinistra. Il M5S non solo non vuole smentirsi per le politiche approvate e condivise nella formazione governativa precedente, ma almeno nel suo vertice appare un convinto sostenitore della linea della chiusura all’asilo, della criminalizzazione delle ONG, dell’ostilità a una nuova legge sulla cittadinanza. Questa posizione viene ribadita anche in funzione della dialettica interna all’attuale governo: serve a ribadire un’identità politica distinta e alternativa a quella del PD, forse anche nella speranza di intercettare i sentimenti prevalenti nell’opinione pubblica o almeno di non lasciarne a Salvini il monopolio.
Va registrato, fra l’altro, che Di Maio e Bonafede hanno criticato l’accordo di Malta, addebitandogli il rischio di favorire nuovi arrivi, e hanno enfatizzato con un’apposita conferenza stampa l’approvazione di una lista di “paesi sicuri” (compresa l’Ucraina in guerra), verso cui procedere più rapidamente con le espulsioni,: un vero fallimento della gestione Salvini (numeri intorno ai 5-6.000 all’anno), ma il cui miglioramento è tutt’altro che certo, soprattutto quando manca la collaborazione dei paesi di origine.
Neppure i due Global Compact dell’ONU, sugli immigrati e sui rifugiati, che pure Conte aveva dichiarato di voler sottoscrivere prima di essere smentito da Salvini, ha visto l’Italia ritornare sui suoi passi per allinearsi con i suoi partners tradizionali. Tutti i principali paesi europei li avevano firmati, compreso il Regno Unito. A rimanere fuori sono stati vari paesi dell’Europa Orientale, l’Austria neo-sovranista, l’Australia e gli Stati Uniti di Trump. Chiaramente i Global Compact sono lo specchio delle visioni politiche delle migrazioni e dell’asilo, della volontà di affrontare questi complessi temi mediante forme di dialogo e di concertazione intergovernativa, di cercare equilibri ragionevoli tra difesa dei confini, valori umanitari, interessi interni che promuovono l’apertura.
A questo riguardo, un tema rimosso ma ineludibile consiste nella riapertura calibrata all’immigrazione per lavoro. Attualmente le quote annuali, mai abolite, in mancanza di un disegno di programmazione pluriennale limitano i nuovi ingressi a meno di 31.000 unità all’anno, di cui però 18.000 per lavoro stagionale, mentre altri permessi si riferiscono a investitori, liberi professionisti, artisti di chiara fama, proponenti di “start-up innovative” (2.400); oppure alla conversione in permessi di soggiorno per lavoro dipendente di ex-lavoratori stagionali (4.750), di ex-studenti o tirocinanti (3.500), di cittadini extracomunitari provenienti da altri paesi dell’UE (800). Sostanzialmente nulla dunque per nuovi lavoratori a tempo indeterminato, neppure nel settore nevralgico dei servizi alle famiglie.
Il CNEL ha avanzato una proposta di ampliamento del sistema delle quote, filtrando i candidati in base a parametri come la conoscenza dell’italiano, il possesso di competenze professionali richieste dal nostro paese, la presenza di familiari sul territorio. Importanti paesi sviluppati come Giappone e Germania stanno sviluppando nuove politiche in questo senso, superando (con prudenza e pragmatismo) la stagione della chiusura delle frontiere verso la cosiddetta “immigrazione economica”.
Che sia la paura di perdere altri consensi, la concorrenza tra gli alleati di governo, una convinta posizione xenofoba da parte di Di Maio e dei suoi, autori di indimenticate campagne contro le ONG e l’accoglienza, il risultato è quello di un governo che almeno finora (novembre 2019) esita nei fatti a cambiare rotta rispetto alla fase in cui Salvini dettava le politiche in materia d’immigrazione.