Legge 328/2000 e Terzo settore: fu vera svolta?


Gianfranco Marocchi | 30 Novembre 2020

La legge 328/2000, di indiscutibile rilievo per l’evoluzione del welfare del nostro Paese, è una legge importante anche rispetto al ruolo e alla concezione del Terzo settore, che ne rappresenta uno dei principali attori?

La domanda è più complessa di quanto sembra; richiede un esame sia del dato giuridico, sia delle effettive prassi che sono seguite all’approvazione della legge e richiede di interrogarsi sulla misura in cui la legge 328/2000 abbia marcato, relativamente al Terzo settore, la differenza tra un “prima” e un “dopo”, se quindi sia cambiata, grazie alla legge, la considerazione del Terzo settore e in che modo. Richiede inoltre di guardare ad un complesso di atti che insieme definiscono l’effettiva declinazione della 328/2000 su questi temi: la legge 328/2000 stessa, il dpcm del 30 marzo 2001 che, in attuazione a quanto previsto dall’articolo 5 della legge (“Ruolo del Terzo settore”), adotta delle linee di indirizzo sui “sistemi di affidamento dei servizi alla persona”, le leggi regionali attuative della 328/2000 e gli atti regionali (di rango diverso, a seconda delle Regioni) che, in attuazione con il dpcm di cui sopra, disciplinano in specifico il ruolo dei soggetti di Terzo settore. È evidente che mentre sui primi due atti è possibile sviluppare un discorso compiuto, sugli altri due ci scontriamo con la molteplicità delle soluzioni regionali adottate, con la conseguente difficoltà di formulare un giudizio sintetico.

Ciò premesso, la risposta alla domanda iniziale è articolata e richiede di esprimere tanto le ragioni per cui la Legge 328/2000 ha rappresentato una svolta, oltre che per il welfare, anche per il ruolo del terzo settore, tanto quelle che possono indurci a formulare un giudizio più moderato.

Iniziamo dalle seconde.

 

La legge 328/2000 fotografa le relazioni tra enti pubblici e Terzo settore con riferimento ad un periodo specifico, in cui da una parte il ricorso al Terzo settore per la gestione dei servizi di welfare era quanto mai aumentato, grazie ad una crescita vigorosa che ha accompagnato tutto il quindicennio precedente; dall’altra – anche per effetto appunto del un valore economico dei servizi notevolmente cresciuto – le modalità di rapporto erano state ricondotte a quelle in diffuse nella generalità dei settori di mercato. Il d.lgs. 157/1995, applicativo della Direttiva comunitaria 92/50, aveva impattato nei successivi anni in modo significativo sulle amministrazioni, portando a ricondurre una pluralità di forme di relazione preesistenti, talvolta connotate da un certo grado di informalità – accordi frutto di una limitata comparazione tra proposte alternative, convenzioni che venivano spesso ripetutamente reiterate – ad affidamenti attraverso appalti pubblici.

Si coglie come la 328/2000 e gli atti conseguenti intuiscano alcune possibili derive indesiderate di tale evoluzione: la legge dispone infatti che gli enti pubblici “promuovono azioni per favorire la trasparenza e la semplificazione amministrativa nonché il ricorso a forme di aggiudicazione o negoziali che consentano ai soggetti operanti nel terzo settore la piena espressione della propria progettualità” (art. 5), espressione in cui si coglie l’eco di quanto stava accadendo nei territori e si voleva evitare: la creazione di un mercato del welfare al ribasso, dove il Terzo settore stava in molti casi diventando un fornitore di ore di lavoro a basso costo. A questo proposito il dpcm 30/3/2001 specifica che “I comuni… non devono procedere all’affidamento dei servizi con il metodo del massimo ribasso” (art. 4) e quindi devono adottare il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa e che “oggetto dell’acquisto o dell’affidamento … deve essere l’organizzazione complessiva del servizio o della prestazione, con assoluta esclusione delle mere prestazioni di manodopera…” (art. 5). L’intento è encomiabile, il risultato nei fatti limitato: nei contesti territoriali avanzati, dove già prima si affidavano servizi in modo accurato, si è continuato a farlo, ma in una parte rilevante del paese le pratiche deteriori – appalti sottocosto, casi mortificanti di intermediazione di manodopera – continuano e anzi si espandono.

In sostanza, non dedicando attenzione ad una concettualizzazione accurata del Terzo settore – che pure era disponibile in nuce nelle grandi leggi del 1991, la 381 sulla cooperazione sociale e la 266 sul volontariato, e nella disciplina delle onlus del 1997 – non crea un effetto dirompente tale da consentire lo sviluppo di un filone di relazioni diverso rispetto a quello ordinario – relazione tra cliente pubblico e fornitore di terzo settore, nell’ambito di uno scambio tra prestazioni e corrispettivo – a partire dalla specificità del Terzo settore, da quella sua natura ibrida di soggetto privato con finalità di interesse generale che era ben delineato dalle normative sopra citate. Per questo bisognerà attendere altri vent’anni: la riforma del Terzo settore e il faticoso cammino di affermazione dei suoi contenuti più rivoluzionari. Manca la capacità di collocare il Terzo settore nell’ottica di sussidiarietà poi affermatasi nella più alta delle sedi pochi mesi dopo, con la riforma costituzionale del 2001 e l’articolo 118 comma 4 della Costituzione. In sostanza: il terzo settore rimane concettualizzato in ultima analisi come fornitore di servizi – certo, un soggetto importante, con cui si lavora bene, da rispettare e valorizzazione – con cui rapportarsi tramite gli strumenti ordinari esistenti per gli altri fornitori, salvo auspicare che siano applicati nel modo migliore possibile; cosa che, come si è argomentato prima, sarebbe accaduto solo in modo molto parziale.

 

Anche l’art. 7 del dpcm 30/3/2001, che disciplina uno strumento di relazione potenzialmente diverso, le “istruttorie di coprogettazione”, non avendo un fondamento solido nella specificità del Terzo settore ma nella eccezionalità della materia trattata (“interventi innovativi e sperimentali”), finisce per avere nei fatti un recepimento residuale per lungo tempo; è vero che almeno una decina di Regioni adottano atti che contemplano questo istituto, ma l’applicazione effettiva rimane scarsa sino a che viene poi paradossalmente riscoperto nel momento in cui, grazie alla diversa consapevolezza portata dalla Riforma del Terzo settore, le istruttorie di coprogettazione sono investite di nuovo intesse come strumento talvolta percepito come più “sicuro” nella fase in cui il dibattito sull’art. 55 del Codice del Terzo settore sembrava ingarbugliarsi.

Dal punto di vista della programmazione, il Terzo settore è tra i soggetti coinvolti, pur con la limitazione (art. 1 e art. 19 della legge 328/2000) della partecipazione alla rete dei servizi “con proprie risorse”, dizione che rischierebbe di portare ad esiti limitativi. Ma, di fatto, nella breve stagione in cui i piani di zona si sviluppano, vi è una tendenza a cercare il coinvolgimento degli enti di Terzo settore. Vi sono in questa fase esperienze di pianificazione territoriale positive e negative; talvolta il Terzo settore è inadeguato a confrontarsi su questi tavoli, perché ormai troppo immedesimato nel ruolo di soggetto di mercato e gestore di servizi sopra richiamato, talvolta vi sono ambiguità circa le relazioni tra il momento della pianificazione e quello della gestione, ma nel complesso si tratta di una fase interessante e innovativa; ma troppo breve. Tra l’inerzia nell’avvio dei piani di zona e la loro decadenza nella seconda metà degli anni Duemila con lo svuotamento del fondo nazionale per le politiche sociali, l’epoca dei piani di zona si chiude prima che i diversi soggetti riescano a far emergere prassi positive consolidate; ciò non impedisce a tali strumenti di esercitare un certo fascino, tale da farne un modello concettuale anche in successivi e più avanzati provvedimenti come la coprogrammazione prevista dall’art. 55 del Codice del Terzo settore.

In sintesi: quando la 328/2000 parla di Terzo settore dice cose importanti e condivisibili, per alcuni aspetti ha anticipato pratiche e strumenti che anni dopo hanno ispirato importanti riforme, ma, per una serie di circostanze, non ha potuto più di tanto “fare la differenza” rispetto allo scenario preesistente.

 

Ma vi è un altro punto di vista dal quale vale la pena di esaminare la questione.

La legge 328/2000, accanto a quanto sopra richiamato direttamente rivolto al Terzo settore, rappresenta, come è noto, in primo luogo il tentativo di riorganizzare il welfare; e lo fa ripensandolo e ri-concettualizzandolo come “sistema integrato di interventi e servizi”. La legge adotta quindi una precisa opzione strategica, non scontata: quella di individuare come protagonista del welfare locale un’entità collettiva, “il sistema integrato”, appunto. La locuzione “sistema integrato di interventi e servizi” appare 26 volte nel testo di legge, è soggetto di azioni, destinatario di risorse, agente di diritti, frutto dell’azione della Repubblica a disposizione delle persone e delle famiglie; è, sin dal titolo della legge, il fulcro intorno a cui ruota il welfare locale.

Vero è, se volessimo tentare un’esegesi del testo della 328/2000, che nella mente del legislatore, sottilmente statalista e come si è visto, ancora estraneo alla cultura della sussidiarietà orizzontale che sarà introdotta in Costituzione l’anno successivo, tale sistema integrato è quello dei diversi livelli istituzionali – Comuni, Province, Regioni, Stato enunciati nella legge in quest’ordine nell’ambito di una impostazione, questa sì presente, di sussidiarietà verticale  – che poi si rapportano agli “altri”, al Terzo settore, coinvolgendolo nella programmazione e nella gestione nelle forme prima trattate; è quindi un sistema integrato di istituzioni pubbliche che “ha tra gli scopi anche la promozione della solidarietà sociale, con la valorizzazione delle iniziative delle persone, dei nuclei familiari, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità e della solidarietà organizzata” che sono quindi destinatari terzi dell’azione promozionale del sistema integrato e non parte di esso.

Ma nei fatti – nella cultura dei servizi, così come via via si afferma, nelle prassi locali – la presenza di questi due livelli tende a sfumare ed è il l’insieme di tutti i soggetti, comprensivo “degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, delle organizzazioni di volontariato, degli enti riconosciuti, delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti” (art. 1) ad assicurare il benessere dei cittadini. Si afferma la meta-strategia che da anni è patrimonio consolidato del nostro welfare, e cioè che presupposto fondamentale per realizzare il benessere dei cittadini sia la capacità di fare sistema tra soggetti diversi, di coordinare, di integrare, di agire in modo complementare. Che poi è un modo – pragmatico – per dire qualcosa di molto simile a quanto un’impostazione sussidiaria afferma facendo riferimento a categorie di pensiero filosofiche e politologiche.

 

Certo questa decisiva impostazione della 328/2000 non genera esiti univoci nell’immediato, per diversi motivi: resistenze culturali centraliste, apparati amministrativi pervasi da orientamenti conservativi. Ma il seme è gettato e le prassi tendono a superare nei fatti le distinzioni concettuali che la legge operava.

E non è un caso che quando, vent’anni più tardi, la Riforma del Terzo settore pone le basi per un’impostazione autenticamente sussidiaria, molti operatori del welfare la trovano così naturale che quasi non gli appare che sia cambiato qualcosa, semplicemente smettono di vedere difficoltà insormontabili ad aprirsi ad una visione in cui istituzioni e terzo settore sono partner cointeressati e corresponsabilizzati all’interesse generale.

Nell’avere posto queste basi, più ancora che nelle affermazioni direttamente riguardanti il terzo settore, la 328/2000 ha avuto anche in questo ambito un ruolo decisivo.