Da settimane l’America è scossa da proteste a seguito dell’omicidio di George Floyd. L’afroamericano 46enne soffocato il 25 maggio a Minneapolis da un poliziotto – Derek Chauvin – che lo teneva schiacciato a terra con il ginocchio. Il video, costruito unendo sequenze delle telecamere di sorveglianza e dei telefonini dei passanti, ricostruisce gli ultimi attimi di un’agonia durata oltre 8 minuti ed ha fatto il giro del mondo, unendo le proteste di attivisti legati alla lotta alle discriminazioni razziali. In molte città d’America il livello delle proteste ha costretto le autorità ad imporre il coprifuoco. Misura questa che ha fatto innalzare il livello di tensione delle prime manifestazioni, in particolare a Los Angeles, a Santa Monica e a Long Beach. La memoria corre veloce alle proteste della primavera del 1992 (c.d. Los Angeles Riots) quando la vittima si chiamava Rodney King e i quattro poliziotti che avevano pestato il giovane nero disarmato furono assolti. Quello fu il primo caso in cui un videotape mostrò la violenza repressiva della polizia verso un afroamericano.
Le differenze tuttavia ci sono: nel 1992 si protestava nei ghetti neri, la zona a sud di LA che molti benestanti dei quartieri ricchi neanche conoscevano, oggi si protesta a Santa Monica, Long Beach, West Hollywood e Beverly Hills, centri frivoli e modaioli della metropoli dove i ragazzi di colore non possono affacciarsi senza esser fermati come “sospetti”. Oggi, inoltre, il movimento Black Lives Matters, sorto nel 2013, è strutturato e ramificato e sta portando avanti una campagna per de-finanziare la polizia federale, dopo che l’amministrazione della città – guidata dal democratico Jacob Frey – ha tagliato tutti i costi sociali aumentando solo quelli diretti alla polizia.
La storia di Floyd si lega prima di tutto allo stra-potere della polizia, difesa da un muro di cameratismo e impunità che ha origini antiche. Lo scorso anno più di mille persone sono state uccise in America da poliziotti e nessun agente è stato incriminato. Dal 2018 a Minneapolis si sono registrati 5 omicidi in cui è stata coinvolta la polizia, tuttavia solo in un caso l’agente responsabile è stato incriminato e poi condannato: un poliziotto nero che aveva sparato ad una donna bianca australiana. La stessa impunità dei poliziotti bianchi fa accumulare frustrazione e rabbia nella comunità nera. Tra il 2013 e il 2019 nel 99 per cento dei casi gli agenti coinvolti in operazioni concluse con la morte di almeno una persona non hanno subito conseguenze penali: tre agenti sono stati incriminati e uno solo condannato. Un altro afroamericano nel 2014, Eric Garner, è morto dopo una crisi respiratoria immobilizzato dalla polizia per strada. Al poliziotto che lo stringeva alla gola, prosciolto dal Gran Jury, Garner aveva ripetuto “Non respiro”, così come aveva fatto Floyd con Chauvin. Nessuna conseguenza anche per il poliziotto che nel 2014, a Ferguson, uccise Michael Brown, afroamericano di 18 anni, sospettato di furto in un negozio. La sua morte provocò manifestazioni in tutti gli Usa e copiosi atti di vandalismo nella città di Ferguson (c.d. Ferguson Unrest). Questi fatti, in Italia, ricordano da lontano il caso Stefano Cucchi, risolto dopo 10 anni di depistaggi e dalle paure che gli stessi funzionari dell’arma dei carabinieri avevano nel raccontare la verità. Paure dettate da un controllo gerarchico di quel “silenzio corporativo” costruito per difendere i due carabinieri coinvolti, alla fine condannati in primo grado, a novembre 2019, per omicidio preterintenzionale e falso. Il codice non scritto dell’Arma in quel caso fu violato da un vicebrigadiere più coraggioso di altri.
Ma l’equazione che ha portato alle proteste di piazza in oltre 200 città americane si avvale di un altro importante fattore, quello legato alla discriminazione razziale e al suprematismo bianco. Ci sono molti dati ed altrettante analisi scientifiche (cfr. CRS, 2020) che dimostrano come gli afroamericani non riescano ad accedere a posizioni lavorative, abitazioni e status dei loro concittadini bianchi. Dalle indagini sui fermi della polizia che rivelano come il 70% dei conducenti fermati e perquisiti dalla polizia siano neri ad altri esempi possibili di racial profiling come quelli usati dal sociologo marxista Erik Olin Wright e da Joel Rogers nel libro American Society. How It Really Works. A Minneapolis gli afroamericani costituiscono il 20 per cento della popolazione della città (430mila persone) ma sono il 60 per cento delle persone attaccate o intimidite dalla polizia (fig. 1).
Fig. 1 – Percentuale di persone di colore a Minneapolis (su popolazione, poliziotti e soggetti ad abusi della polizia)
Fonte: New York Times
I dati del U.S. Census Bureau mostrano come in tutte le principali città americane il reddito medio delle famiglie nere sia in molti casi la metà di quello dei bianchi e la situazione peggiore se si analizza il livello di ricchezza: nel 2017 una famiglia nera possedeva beni per poco più di 17mila dollari, mentre una bianca ne possiede 10 volte di più di 171mila (fig.2). La percentuale di chi possiede una casa di proprietà a Minneapolis è tra le più alte del paese (circa il 75%) ma tra i neri scende al 23%.
Fig.2 Valore mediano della ricchezza delle famiglie, per appartenenza etnica (2016)
Fonte: Tax Policy Centre da Fonte da Federal Reserve Board, Survey of Consumer Finance (2016)
La mobilità sociale e le opportunità per i più giovani non sembrano consolare la situazione: Il 32% dei bambini afro-americani vive al di sotto della soglia di povertà, contro l’11% dei bianchi ed anche gli indici di scolarizzazione riflettono questo divario incolmabile tra neri e bianchi. Recentemente anche il virus ha dimostrato come l’epidemia Covid-19 sia tutt‘altro che equa: in Minnesota (lo stato in cui si trova Minneapolis) i neri che sono stato contagiati rappresentano il 30% del totale, nonostante siano solo il 6% della popolazione.
Oggi si discute se la violenza scaturita dall’uccisione di George Floyd sia giusta, giustificata, tollerata o inutile. La compagna di Floyd si è dichiarata contraria all’esplosione d’odio che è stato generato, affermando che “George non avrebbe volto questo”. George Lewis, deputato della Georgia cresciuto nel movimento per i diritti civili con Martin Luther King, sostiene che saccheggiare e distruggere non è la risposta. Manifestare e votare invece sarebbe la strada giusta. Ma molti gli ricordano che nemmeno rappresentanti progressisti del partito democratico come il governatore del Minnesota e il sindaco di Minneapolis sono riusciti ad evitare la morte di Floyd. Allora la protesta diventa rabbia contro il sistema, contro la proprietà privata, contro i fondamenti della nostra società. La deputata democratica di NY, Alexandria Ocasio-Cortez, concilia le due posizioni sostenendo che non sia più possibile invocare la fine dei disordini senza denunciare la brutalità della polizia, pretendere l’assistenza sanitaria ed eliminare le discriminazioni nel settore immobiliare.
Riassumendo, “l’equazione Floyd” porta all’esplosione di un risentimento inarrestabile, da cui sono scaturite forme di violenza, di difficile repressione. Esso si compone di frustrazione per la secolarizzata discriminazione di minoranze etniche, mai nettamente risolta anche dopo la stagione delle rivendicazioni del Movimento per i Diritti Civili degli anni’60, sommata alla altrettanta intoccabile impunità delle autorità locali. Il tutto andrebbe moltiplicato per la durata di questi risentimenti, forse in modo esponenziale se consideriamo l’effetto dei video e dei media che, dal 1992, fatti di tale gravità provocano nella comunità nera, e non solo in quella. Diversamente da precedenti occasioni qualcosa si è mosso già contro l’immunità: il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, ha chiesto l’incriminazione dei poliziotti, il capo della polizia ha chiesto un’indagine dell’FBI condannando l’operato dei suoi agenti, condanna arrivata anche dal sindacato di polizia del Paese. L’ex presidente, Obama, ha parlato di un “risveglio politico” necessario per unire il Paese attorno a una giustizia razziale e alla riforma della polizia.
Insomma, giuste o sbagliate le forti proteste hanno portato ad un terremoto politico che avrà dei risultati fino a poco tempo fa inimmaginabili. “Ci siamo impegnati a smantellare la polizia così come la conosciamo nella città di Minneapolis e a ricostruire con la nostra comunità un nuovo modello di sicurezza pubblica che mantenga davvero la nostra comunità al sicuro”, ha dichiarato la portavoce del Consiglio comunale, Lisa Bender. È stato poi annunciato a fronte di un taglio di 150bl $ al Dipartimento di Polizia. Mentre ci saranno investimenti di 250bl $ per le comunità afroamericane.
Il Movimento Black Live Matters da Los Angeles cavalca questa ondata di attivismo politico, dando indicazioni di voto alle elezioni, chiedendo di rimuovere la polizia dalle scuole e di investire in risorse e servizi che rendono effettivamente le comunità sicure, come alloggi permanenti, assistenza sanitaria (compresa la salute mentale), buoni lavori, trasporti pubblici gratuiti, programmi di doposcuola, assistenza di comunità, protezione ambientale, parchi, biblioteche e programmi artistici. L’attacco politico è forte nelle loro dichiarazioni: ”Public officials are elected to work for the people, not to usher in agendas that speak more to their own political ambitions than community needs”. Il Movimento ha anche proposto un Budget Partecipativo (People’s Budget) per la citta di Los Angeles, dopo aver organizzato incontri, ascoltato la comunità e elaborato un budget specifico per riflettere ciò che i cittadini (c.d. the Angelenos) vogliono veramente.
Dagli slogan rivoluzionari “Give me liberty or give me death” le manifestazioni anti segregazione come quelle di Tusla nel 1921, come la Marcia di Selma nel 1965 (Alabama), come i Watts riots del 1965 (Los Angeles) sono state portate avanti dalle minoranze etniche ed hanno condotto alle conquiste d i diritti civili più importanti negli States. L’equazione Floyd porta necessariamente disordine, il disordine si trasforma spesso in conquiste.