L’adozione internazionale implica la costruzione di un rapporto di genitorialità tra adulti e minori di diversa nazionalità e dunque appartenenti a culture differenti.
La cultura, in senso antropologico, è “l’insieme delle caratteristiche spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali che contraddistingue un determinato gruppo umano” (Unesco, 1982). Essa condiziona necessariamente, seppur in modo non deterministico, le abitudini di vita degli individui, la loro identità, il loro sistema di valori, la loro interpretazione della realtà ed il rapporto con tutto ciò che li circonda.
Uno studio dell’Università di Washington condotto da Patricia Kuhl, direttrice dell’Institute for Learning & Brain Sciences (ILBS), registrando attraverso un ciuccio collegato ad un computer le modalità di suzione durante una produzione orale, ha provato che i bambini nati da poche ore riescono a distinguere una lingua sconosciuta da quella parlata dalla loro madre durante la gravidanza, dimostrando che neanche l’eventuale bassissima età anagrafica del minore esclude il condizionamento culturale. I neonati assimilano inconsciamente gli stimoli esterni che derivano dagli stili di accudimento – dalla frequenza con cui viene cambiato il pannolino al modo in cui il bambino viene accarezzato o consolato, agli orari di somministrazione del cibo e del sonno, solo per indicare qualche esempio – degli adulti che si occupano di loro nel paese di origine, mentre i bimbi più grandi, che stanno acquisendo o hanno acquisito competenze psicomotorie, emozionali e cognitive, possiedono, già a partire dai 3 anni, una memoria a lungo termine che gli permette di ricordare quanto li circonda e ciò che accade loro.
Nello specifico dell’adozione interazionale, dunque, questa non uniformità dei riferimenti culturali può costituire un ostacolo o una risorsa, a seconda di come ci si pone rispetto ad essa.
L’obiezione, comprensibilmente frequente, secondo la quale il bambino adottato ha il vantaggio di passare da una condizione di disagio ad una di sicuro benessere, chiama in causa ben due importanti nodi problematici.
Il primo, quello dell’immaginario rispetto al vissuto preadottivo del bimbo, induce comunemente a pensare che, prima dell’adozione, la vita del bimbo sia costituita esclusivamente da esperienze negative; in realtà, invece, per quanto possa risultare oggettivamente triste e dolorosa nel suo complesso, ogni storia include necessariamente anche ricordi piacevoli. Con l’adozione dunque il minore non si lascia alle spalle solo deprivazioni materiali ed affettive, ma deve separarsi anche dalla “parte buona” del suo passato della quale può avere legittimamente nostalgia.
Il secondo invece, l’approccio etnocentrico all’adozione, condiziona erroneamente a valutare le altre culture secondo i parametri della propria giudicando deprecabile tutto ciò ne differisce. Così nel minore adottato gran parte dei comportamenti che fanno riferimento alla cultura del paese d’origine vengono considerati espressione di arretratezza da cui aiutarlo ad emanciparsi piuttosto che componenti imprescindibili della sua storia e della sua identità da rispettare e valorizzare a tutela dell’integrità della sua persona.
La resistenza al confronto culturale può tuttavia dare origine anche ad un altro approccio, per certi versi opposto ma altrettanto disfunzionale: quello della negazione delle differenze. Soprattutto nel caso di minori provenienti da altri paesi percepiti come culturalmente affini – “in fondo i russi o i polacchi non sono molto diversi da noi” – la tendenza a pensare che le diversità siano poco rilevanti è diffusa. A tale proposito è interessante ricordare ciò che accadde alcuni anni fa ad una multinazionale che decise di spostare in una filiale belga il personale della sua sede olandese. Si trattava di un trasferimento di poche centinaia di chilometri tra due paesi europei confinanti e apparentemente non troppo diversi tra loro; eppure la convivenza nei primi mesi fu così conflittuale da provocare un crollo degli affari. Vennero effettuate delle accurate indagini aziendali dalle quali emerse una sottovalutazione delle differenze culturali: belgi e olandesi infatti concepiscono i rapporti di affari e la comunicazione con i manager in maniera molto diversa, così come diversa è la loro motivazione al lavoro e perfino il modo di fare la pausa caffè (Gert Hoftebde, “Culture ed Organizzazioni”).
Pensare che la cultura del paese d’origine di un bambino adottato all’estero sia così simile alla propria da poter escludere i problemi di reciproco adattamento è infatti pura mistificazione. Qualunque sia l’età del bambino e qualunque sia il suo paese di provenienza, egli non è mai un contenitore vuoto da riempire, né un Venerdì di Robinson Crusoe a cui insegnare i fondamenti della civiltà, ma un individuo la cui prima parte di storia è già stata scritta e con l’inchiostro indelebile di una cultura che non è inferiore a nessun’altra.
La difficoltà ad accettare la diversità culturale del bambino adottato, e ancora di più a valorizzarla, è spesso alimentata anche dal rifiuto verso le proprie radici che frequentemente i minori stessi mostrano. Capita infatti che essi apprendano molto velocemente lingua ed abitudini del paese di accoglienza assumendo contestualmente un atteggiamento apertamente critico verso la nazione di provenienza, la famiglia d’origine e tutto ciò che riguarda il proprio passato. Non è raro che bambini adottati in età scolare, dopo pochi mesi dal trasferimento nel nuovo contesto, asseriscano di non ricordare più nulla e di non saper più parlare la loro lingua madre. Ciò ovviamente non può corrispondere al vero: essi fingono, o più spesso si impongono di non ricordare, perché mossi dal bisogno estremo di sentirsi meno “diversi” e di farsi accettare, esorcizzando così anche la paura di un nuovo abbandono. Ma se le nuove figure di riferimento – genitori, insegnanti, membri della nuova famiglia allargata – avallano e rinforzano tale condotta mostrando compiacimento e complimentandosi per il rapido adattamento, l’insana idea della necessità di rinnegare le proprie radici per farsi amare ed accettare trova una pericolosa conferma.
Il bambino va invece aiutato a comprendere che i suoi ricordi e la cultura del suo paese d’origine costituiscono un patrimonio di inestimabile valore da conservare gelosamente e di cui essere incondizionatamente fieri.
L’orgoglio delle proprie radici non costituisce, come molti erroneamente temono, un ostacolo all’integrazione; al contrario una ricerca condotta dall’Università del Sacro Cuore di Milano tra il 2011 e il 2012, curata da Rosa Rosnati e Laura Ferrari, ha dimostrato che i figli adottivi che esprimono una doppia appartenenza etnica, ossia coloro che pur essendosi ben inseriti nel contesto culturale dei genitori mostrano allo stesso tempo anche un’elevata valorizzazione delle proprie origini, sono quelli che ottengono i migliori esiti adattivi in termini di benessere psicosociale, autostima, accettazione del proprio corpo (nonostante la diversità somatica) e qualità delle relazioni familiari.
Al contrario gli “assimilati” cioè coloro che hanno assunto come riferimento esclusivo il patrimonio culturale dei genitori, e in misura ancora maggiore i “separati” ossia coloro che lo rifiutano e rimangono ancorati alla loro cultura originaria, risultano più fragili, insicuri e problematici.
Inoltre, le ricerche condotte sui fallimenti adottivi (Ricerca CAI, 2003; Università Cattolica di Milano, 2016; Università di Siviglia, 2016; Regione Emilia-Romagna, 2013) hanno dimostrato che le differenze culturali, quando non adeguatamente gestite, costituiscono un rilevante fattore di rischio nell’ambito delle adozioni fallite e di quelle altamente problematiche.
Quando il rapporto tra genitori e figli raggiunge livelli di problematicità insostenibili, il Tribunale per i minorenni può decretare l’allontanamento del minore dalla famiglia adottiva ed il suo contestuale affidamento ad una struttura di accoglienza. Si parla in tal caso di “adozioni fallite” e “restituzioni”, nel senso di bambini restituiti, ridati indietro, riconsegnati. Un dramma incommensurabile che segna irreversibilmente la vita di tutti.
La sfida è quella di realizzare una felice convivenza tra i diversi riferimenti culturali ed imparare a non percepire il vissuto preadottivo come lontano, scollegato, talvolta disturbante rispetto al presente. Acquisire cognitivamente ed emotivamente la consapevolezza della continuità, liberarsi dalle dicotomie del prima e dopo, del meglio e peggio, e imparare a vivere la propria esistenza come un tutt’uno inscindibile e meritevole di rispetto in ogni sua parte.
Naturalmente affinché i minori possano raggiungere tali obiettivi è indispensabile che i medesimi siano preventivamente guadagnati dagli adulti che si preparano ad accoglierli.
I futuri genitori dovrebbero essere accompagnati in un percorso di riflessione, apprendimento e crescita guidato da professionisti qualificati. Una formazione specifica che consenta loro di superare i pregiudizi e prendere coscienza del fatto che loro stessi con l’adozione internazionale si preparano a diventare membri di una famiglia multietnica.
Consapevolezza ottimamente raggiunta da quel padre adottivo che un giorno incontrandomi per strada si scusò per la fretta precisando che doveva correre a casa a vedere in televisione la partita di calcio della Nazionale. Alla mia obiezione – “Ma oggi non gioca l’Italia…” – egli rispose accorato – “Lo so bene, ma gioca la Colombia e metà della mia famiglia è colombiana!”. Quel genitore considerava i due figli adottivi “la sua famiglia”, ma non per questo ne negava l’appartenenza etnica: erano figli suoi, ma al tempo stesso erano colombiani. E lui, in quanto padre di due ragazzi colombiani, non poteva esimersi dal considerare la squadra di quel paese “la Nazionale”. Inutile aggiungere che esponeva al balcone di casa entrambe le bandiere.
Sono completamente d’accordo con le affermazioni contenute nell’articolo. Ho prestato la mia attività professionale presso la CAI, dove ero responsabile del settore post adozione, per cui mi sono occupata a lungo dei temi della ricerca delle origini e dei fallimenti adottivi. Lo affermo anche nel mio libro Lo zainetto invisibile (la ricerca delle origini tra diritto web e dinamiche relazionali) adottare un bambino significa accogliere anche quello zainetto invisibile che ha sulle spalle, nel quale sono contenuti i suoi ricordi, i suoi genitori biologici … tutte le sue figure di attaccamento e i sentimenti che lo legano a loro e che meritano accoglienza e rispetto.