L’ossessione dei rimpatri e le soluzioni sbagliate


Maurizio Ambrosini | 11 Aprile 2025

Quella dei rimpatri è una vera ossessione per le istituzioni europee e per molti governi nazionali, non soltanto a guida sovranista, per tacere delle spettacolari quanto disumane deportazioni inscenate da Donald Trump. Nel nuovo Patto europeo su immigrazione  e asilo, nella bozza del settembre 2023, versione in inglese, i “ritorni” dei migranti sgraditi erano citati 93 volte. Questo è il dato da cui partire per comprendere gli ultimi sviluppi delle politiche europee e italiane sulla materia.

Il fallimento dei rimpatri

A Bruxelles e nelle capitali nazionali si rendono conto che le loro promesse di contrasto all’immigrazione indesiderata s’infrangono contro la bassa capacità di allontanare i migranti colpiti da ordini di espulsione. Nell’UE, appena il 27%: non del totale dei migranti irregolari, ma di quelli  (di fatto una frazione) identificati e sanzionati con un decreto di rimpatrio: soprattutto richiedenti asilo diniegati, di solito conosciuti e ospitati in strutture controllate   dalle autorità. In Italia, gli espulsi sono stati appena 4.304 nel 2022.  Nel 2023, a governo Meloni già saldamente insediato, 4.751. Anche tra quanti sono trattenuti nei controversi CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio, ossia i centri detentivi per gli immigrati condannati all’espulsione) la quota di quelli effettivamente allontanati si aggira intorno al 50%. Inoltre, avendo nel frattempo il governo ristretto drasticamente l’accesso all’asilo con il decreto Cutro, il risultato è l’aumento degli stranieri condannati a una vita di stenti: nel migliore dei casi, manodopera a basso costo per l’economia sommersa, nei campi, nei cantieri edili, nei servizi di delivery.

Sono diverse le ragioni dell’impressionante fallimento delle politiche di rimpatrio. Anzitutto,  i decreti di espulsione non sono una bacchetta magica, come molti sembrano credere. Occorre la collaborazione dei paesi di origine, mai felici di mostrarsi ossequienti verso le potenze occidentali riprendendosi i loro concittadini espatriati. In parecchi casi, mancano gli accordi o di fatto non funzionano. Le situazioni di pericolo, di negazione di diritti fondamentali, di miseria a cui andrebbero incontro una volta rimpatriati, rappresentano un’altra remora che induce le autorità alla cautela, anche se ai nostri giorni questi scrupoli sembrano sempre più ingombranti.

Per rimpatriare una persona bisogna poi identificarla con certezza, e se questa è priva di documenti la strada si rivela in salita. I migranti per evitare l’espulsione possono mentire sulla loro identità e provenienza, o cambiarla nel corso della procedura. Dal canto loro, i paesi di origine richiedono prove certe che si tratti davvero di loro connazionali.  Non va dimenticato che i migranti per partire molte volte si sono indebitati, hanno fatto collette tra parenti e vicini di casa, hanno impegnato le risorse familiari. Ritornare indietro da sconfitti, a testa bassa, è l’ultimo dei loro desideri. Si vergognano troppo. Quasi sempre preferiscono rimanere qui, nei casi limite non dare più notizie, anziché accettare il rimpatrio. Possono ricorrere ad atti di autolesionismo, rimuovere le impronte digitali, procurarsi delle ferite, pur di evitare l’espulsione. Se rimandati indietro, cercano spesso di rientrare nel paese desiderato: come i messicani espulsi dagli Stati Uniti via terra, sui cosiddetti “pullman delle lacrime”. Molti, riportati in Messico, ritentano di passare la frontiera, anche più volte, finché non ci riescono. I passatori più professionali assicurano altri tentativi, se il primo va a vuoto. Qualcosa di simile avviene sulla rotta balcanica.

Poi c’è la questione dei costi: oltre al trattenimento, anche per mesi (in Italia sono stati portati a 18 dal governo Meloni, e il nuovo regolamento europeo vorrebbe arrivare a 24), di norma i paesi di origine richiedono che gli espulsi siano scortati da agenti di polizia, che vanno poi alloggiati e fatti rientrare. Infatti quasi la metà dei pochi espulsi  dall’Italia (il 45,6%) vengono rimandati nell’unico paese vicino e collaborativo, la Tunisia. Qualche anno fa in Spagna finì sui giornali un leak relativo a una comunicazione dei vertici della polizia, che invitavano a espellere gli immigrati irregolari provenienti dal vicino Marocco, ma di andarci cauti con la lontana Colombia: rimpatriarli costava troppo. Espellere delle persone, tanto più verso luoghi  lontani come la Cina o  l’America Latina, con relativa scorta di polizia, costa migliaia di euro, sottratti ad altri impieghi forse più importanti per i cittadini.  Per evitare la spiacevole condivisione dei voli con i normali passeggeri, vengono poi spesso noleggiati aerei appositi. Altri costi.  Per di più le compagnie aeree sono refrattarie, perché i migranti rimpatriati contro la loro volontà possono inscenare proteste e danneggiare i velivoli. Successe qualche anno fa con un volo di sex worker nigeriane.

La nuova direttiva europea sui rimpatri

In questa cornice s’inserisce, e trova una motivazione, la recente proposta della Commissione europea volta a modificare la Direttiva del 2008 sui rimpatri  per introdurre la possibilità di allestire centri di detenzione per gli immigrati irregolari in paesi terzi (definiti “return hubs”), al di fuori del territorio dell’UE.  I paesi in questione sarebbero quelli con cui si può presumere che i migranti abbiano dei rapporti, per esservi per esempio transitati, oppure firmatari di accordi con l’UE e definiti “sicuri”: quindi anche verso paesi con cui i malcapitati non hanno nessuna relazione. Si tratterebbe in questo caso di una novità nel diritto internazionale. Inoltre, anche i minorenni potranno essere trattenuti e rimpatriati.

Dopo la contrastata iniziativa britannica, alla fine fallita, di trasferimento dei richiedenti asilo in Ruanda, e quella italiana del trasporto in Albania, parimenti fin qui andata a vuoto, ora sono le massime autorità europee ad abbracciare  l’idea della deportazione verso paesi terzi dei migranti indesiderati, fin qui sdegnosamente respinta. L’analogia più calzante è quella della scelta trumpiana degli invii alla base di Guantanamo dei migranti condannati all’espulsione, ma di cui non è possibile il rimpatrio per mancanza di dati certi su identità e provenienza, o per carenza di collaborazione del paese di origine. La base di Guantanamo però è sotto il controllo statunitense, anche se configurata di fatto come una sorta di appendice extraterritoriale sottratta alla normale giurisdizione.

Il rimpatrio verso paesi terzi  invece fa sorgere seri dubbi  sulla tutela dei diritti fondamentali e sul rispetto del principio di non-refoulement, che vieta di trasferire delle persone in paesi dove potrebbero subire violenze o trattamenti degradanti, specialmente nelle strutture detentive. L’UE e i governi nazionali hanno già mostrato molta flessibilità al riguardo, se si pensa alla delega a Turchia, Libia e Tunisia del contenimento dei flussi di profughi, persino incaricando le loro forze dell’ordine di riportarli a terra quando cercano di salpare verso l’Europa. Qui però si tratterebbe di un altro e grave passo verso il precipizio della rimozione delle garanzie dello Stato di diritto, se dei migranti, intercettati sul suolo dell’UE, verranno consegnati alle autorità di paesi esterni.  Controllare poi il loro comportamento sarà per forza di cose problematico e certamente sgradito a governi a cui l’UE chiede di collaborare nel gestire l’ingombrante dossier dei rimpatri.

La nuova destinazione dei Centri italiani in Albania

Nel frattempo il governo italiano ha annunciato la trasformazione di uno dei due costosi centri allestiti in Albania in CPR. Apparentemente, sembra una scelta convergente e persino anticipatoria della nuova Direttiva europea, peraltro ancora soggetta a diversi passaggi prima di essere approvata e resa operativa. Così però non è. A parte il problema non banale della modifica unilaterale di un accordo internazionale, che i partner albanesi, sotto elezioni, potrebbero non gradire, il progetto italiano presenta delle significative difformità rispetto a quello di Bruxelles.

L’Italia mantiene infatti la giurisdizione sui centri realizzati sul territorio albanese. Non è prevista una delega alle autorità locali della gestione dei centri. L’Albania, a meno di altre modifiche dell’accordo, non è definita come un paese terzo di destinazione dei migranti che si vorrebbero rimpatriare. Pertanto dall’Albania non sono previsti e non sembrano possibili dei rimpatri: quando si ottenesse dalle autorità dei paesi di origine l’autorizzazione al rimpatrio, gli espellendi dovrebbero essere riportati in Italia, firmataria degli accordi, per essere trasferiti nel loro paese. Non dall’Albania, che non ha accordi in tal senso con la Tunisia o con altri paesi di origine. Resta poi incerta la sorte di coloro che, al termine del periodo di trattenimento, anche allungato a 24 mesi, non saranno stati rimpatriati e dovranno essere liberati. Già nella versione precedente dell’accordo, il premier Rama aveva escluso la possibilità di farsi carico dei richiedenti asilo diniegati, lasciando intendere che avrebbero dovuto occuparsene  le autorità italiane. Ora il copione sembra destinato a ripetersi, con l’aggravante dell’avere a che fare, tra gli altri, con ex-carcerati e con persone devastate dalla detenzione in strutture disumane come i CPR.

Forse, come nel caso dell’accordo britannico con il Ruanda o del precedente accordo italiano con l’Albania, la tenue aspettativa è quella di esercitare un effetto di deterrenza sui partenti. Più probabilmente, di far credere all’opinione pubblica di avere a portata di mano la soluzione del problema, esibendo determinazione e persino cattiveria.

È lecito domandarsi se si possono individuare delle alternative a questa linea pseudo-rigorista. Senza pretendere di vendere soluzioni semplici a problemi complessi, si può richiamare l’esigenza di manodopera e quindi l’opportunità pragmatica di trasferire richiedenti asilo e immigrati irregolari in possesso delle competenze necessarie nel canale dell’immigrazione (legale) per lavoro. Si possono immaginare forme di sponsorizzazione da parte di soggetti che sul territorio intendano farsi carico dell’accoglienza, sostenendone i costi.  Esiste poi lo strumento dei ritorni volontari assistiti, oggi sotto-finanziati e sotto-utilizzati. Non servono invece misure che, pur di convincere l’opinione pubblica di aver trovato la soluzione al problema dei rimpatri, si accingono a consentire la violazione di diritti umani fondamentali, aggravano i costi per le casse pubbliche, rendono i governi europei più ricattabili da parte dei paesi definiti “sicuri” e collaborativi, e probabilmente neppure otterranno i risultati auspicati.