Lotta alla povertà e imposta negativa sul reddito: un miraggio?


Stefano Toso | 6 Dicembre 2017

La discussione pubblica sulle politiche di lotta alla povertà in Italia si è arricchita nei mesi recenti di un ulteriore, articolato contributo avanzato dall’Istituto Bruno Leoni (Ibl). L’Ibl propone di riformare in senso flat-rate le principali imposte del nostro sistema tributario, in primo luogo l’Irpef, la cui unica aliquota marginale legale verrebbe posta al 25%, e di sostituire la totalità dei trasferimenti in moneta riferibili alla spesa pubblica per assistenza con una misura di contrasto alla povertà denominata “minimo vitale”. Il progetto dell’Ibl è stato presentato sulle colonne de Il Sole 24 Ore il 25 giugno scorso e ha trovato una successiva sistemazione nel volume curato da Nicola Rossi, Venticinque% per tutti. Un sistema fiscale più semplice, più efficiente, più equo, e pubblicato nella collana Ibl Libri.

 

L’ipotesi di ridisegnare il complesso, e per molti versi farraginoso e iniquo, sistema di redistribuzione tax-benefit italiano è stata sinora dibattuta con riguardo agli aspetti fiscali.1 Molta minore attenzione ha invece ricevuto l’indicazione di fare piazza pulita della spesa per assistenza erogata in moneta e di introdurre, al suo posto, un «minimo vitale». Poiché le due cose – flat-rate tax e minimo vitale -, come si legge nel volume edito dall’IBL, «sono fatte per stare insieme e completarsi a vicenda», non è possibile dare una valutazione complessiva della proposta senza considerare anche le possibili implicazioni, di equità ed efficienza, dell’intervento in tema di welfare.

 

Come si è detto poc’anzi, il sistema assistenziale riformato vedrebbe la completa abolizione della spesa corrente erogata a livello nazionale (vale a dire assegni per il nucleo familiare, integrazioni al minimo delle pensioni, pensioni sociali, indennità di accompagnamento, vecchia e nuova Social Card, Asdi, Reddito di inclusione, ecc.): un valore che si aggira complessivamente sui 60 miliardi di euro. Al suo posto l’Ibl propone l’introduzione di un trasferimento universale su base familiare, non subordinato alla verifica della condizione economica, differenziato geograficamente e di importo medio mensile pari a circa 500 euro per il single (per famiglie di numerosità superiore ad uno si applicherebbe la scala di equivalenza Isee). Il trasferimento sarebbe condizionato all’osservanza dell’obbligo scolastico da parte dei minori conviventi e/o alla frequenza di programmi di lingua e cultura italiana nel caso di nuclei familiari in cui si trovino anche soggetti privi della cittadinanza italiana e/o alla partecipazione a programmi di formazione professionale o di formazione continua. Il “minimo vitale” non sarebbe invece subordinato alla disponibilità a lavorare, sebbene si ipotizzi abbia una durata limitata e sia pagato nel tempo in proporzione decrescente in contante e in proporzione crescente sotto forma di voucher (fiscale e/o contributivo) al fine di incentivare la creazione di nuova occupazione. Tecnicamente Il “minimo vitale” assumerebbe la forma di una deduzione fiscale, ossia un abbattimento del reddito complessivo a fini della determinazione del reddito imponibile Irpef, fissata in 7.000 euro annui per una famiglia di un solo componente residente al Settentrione (per famiglie di diversa numerosità l’importo della deduzione sarebbe calcolato applicando la scala di equivalenza Isee). Per redditi familiari superiori a cinque volte la deduzione base, infine, il complesso delle deduzioni si ridurrebbe gradualmente, in proporzione alla distanza tra il reddito familiare e la deduzione base medesima, fino ad azzerarsi.

Ancorché decrescente oltre una certa soglia di reddito familiare e pur essendo condizionato a criteri di cittadinanza attiva, appare chiaro come il “minimo vitale” dell’Ibl sia una sorta di reddito di base, in quanto non vincolato alla prova dei mezzi né alla disponibilità a lavorare (come accade invece per il Reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni) e integrato perfettamente nell’imposta personale sul reddito.

 

In pratica, nel nuovo sistema le politiche redistributive in cash sarebbero in capo ad un unico istituto tax-benefit, tendenzialmente ad aliquota marginale costante, che:

  1. integra al «minimo vitale» i redditi inferiori ad esso;
  2. restituisce ai redditi familiari superiori alla deduzione base di 7.000 euro, ma inferiori al complesso delle deduzioni applicabili, il 25% della differenza tra queste ultime e il reddito familiare (ai lavoratori dipendenti e ai pensionati sarebbero concesse, infatti, specifiche deduzioni per oneri di produzione del reddito in aggiunta alla deduzione base);
  3. preleva il 25% della differenza tra il reddito familiare e il complesso delle deduzioni se la differenza è positiva.

Qualcosa di molto simile – se non fosse per il punto (1) su cui torneremo più avanti – all’imposta negativa sul reddito di Milton Friedman, teorizzata nel 1962 in Capitalismo e Libertà e considerata dai suoi estimatori – e all’Ibl non mancano – il Santo Graal della redistribuzione. “Santo Graal” poiché l’imposta negativa sul reddito ha il pregio di essere al tempo stesso strumento di prelievo fiscale e di spesa pubblica. E in quanto strumento di spesa fa sì che ai soggetti con redditi così bassi da essere privi di capacità contributiva e meritevoli di intervento pubblico sia corrisposto un trasferimento in moneta. L’imposta negativa risolve alla radice anche il problema dell’incapienza, un fenomeno tipico dei moderni sistemi di tassazione personale sul reddito e che consiste nell’impossibilità per i contribuenti con reddito imponibile molto basso di avvalersi in tutto o in parte degli sgravi fiscali previsti, se questi superano l’imposta lorda.

 

Che valutazione dare della proposta dell’Ibl che, all’insegna di un modello teorico mai attuato al mondo, nemmeno nei sistemi fiscali dei paesi ex-socialisti, ha tuttavia l’obiettivo ambizioso di coniugare l’universalismo e l’equità dello stato sociale con la semplicità e la trasparenza del sistema di imposizione personale ad aliquota unica?

Se è apprezzabile la riproposizione dell’universalismo in tema di lotta alla povertà non possono essere taciute alcune incongruenze, sia di coerenza interna sia di realizzabilità politico-finanziaria.

Cominciamo dalla seconde. Il progetto complessivo dell’Ibl prevede una perdita di gettito di 27 miliardi di euro, la cui copertura dovrebbe essere assicurata attraverso interventi sul versante della spending review. Che possibilità di realizzazione ha un’ipotesi di riforma che costerebbe quasi il doppio del «reddito di cittadinanza» del M5S – che in realtà “reddito di cittadinanza” non è ma, più correttamente, un reddito minimo tarato su una soglia di povertà piuttosto alta e fissata in termini relativi, anziché assoluti – e quattro volte tante la sofferta, e tuttavia auspicabile, messa a regime del neonato Reddito di inclusione?

 

Ma veniamo ai problemi di disegno della riforma. Un aspetto decisamente problematico del progetto Ibl ha a che fare con l’idea di fare tabula rasa delle prestazioni assistenziali vigenti, molti delle quali sono assoggettate alla prova dei mezzi. Riesce infatti difficile pensare che esse possano essere rimpiazzate da un’unica misura, il «minimo vitale», visto l’inevitabile contenuto categoriale di alcune di queste e la conseguente opportunità di riconoscere, a parità di reddito, indennità economiche aggiuntive a chi si trova in particolari condizioni di bisogno (si pensi, ad esempio, a un soggetto non vedente o non autosufficiente). Se si vuole intaccare l’eccessiva frammentazione del sistema assistenziale italiano e migliorarne l’efficacia redistributiva, più utile sarebbe omogeneizzare i criteri di selettività economica vigenti, estendendo alla totalità dei trattamenti il riferimento all’Isee anziché continuare a fare riferimento al reddito a fini fiscali Irpef. Sul piano dell’efficienza, infine, – e questo è un aspetto paradossale per un progetto che si ispira al pensiero di Friedman – la proposta dell’Ibl è criticabile poiché, prevedendo per i redditi inferiori alla deduzione base la totale integrazione della differenza tra la deduzione stessa e il reddito familiare, la riforma determina una «trappola della povertà» del 100%, ovvero un totale disincentivo a cercare lavoro: proprio ciò contro cui si batteva ai suoi tempi l’ideatore dell’imposta negativa sul reddito! Tale disincentivo non può essere minimizzato se si considerano gli ordini di grandezza, non trascurabili, della deduzione base: se per un single, come detto, è di 7.000 euro, per una famiglia di quattro componenti residenti al Nord con reddito zero è di circa 24.000 euro.

 

In conclusione: problemi di sostenibilità finanziaria, di equità e di efficienza sono alcuni tra i macigni che ostacolano la praticabilità di un’ipotesi di riforma che, nel rincorrere il mito dell’universalismo senza selettività dal lato della spesa sociale, finisce per riesumare un modello, quello dell’imposta negativa, incompatibile con una selettività anche di tipo patrimoniale (come avviene invece con l’Isee) e che scaricherebbe sulle spalle dell’Irpef tutto l’onere di selezionare chi guadagna e chi perde dalle politiche redistributive.

  1. Si vedano i contributi comparsi nei mesi scorsi sulle colonne de Il Sole 24 Ore, nel sito web lavoce.info e nel Menabò on line di Etica ed Economia].