L’ultima tragedia del mare
Le politiche dell’indifferenza e le possibili alternative
Maurizio Ambrosini | 7 Maggio 2021
L’ultima tragedia nel Mediterraneo, accaduta nella sostanziale indifferenza delle autorità statali di Italia, Malta e Libia, ha riportato di attualità la questione delle vittime del mare: circa 130, questa volta.
Come hanno segnalato le ONG impegnate nei soccorsi in mare, nelle oltre 24 ore trascorse tra la prima segnalazione di Alarm Phone e il tragico esito della vicenda, la Ocean Viking ha atteso un intervento delle autorità marittime italiane, maltesi e libiche che coordinasse le operazioni, ma questo non è avvenuto, o comunque non ha coinvolto la nave umanitaria che si trovava nella zona.
Complessivamente, sono 23.000 le persone che hanno perso la vita nei viaggi della speranza, o almeno quelle di cui si ha notizia, da quando nel 2014 si è cominciato a raccogliere i dati in maniera sistematica. Nel 2013, il 5 ottobre, era avvenuto il naufragio con centinaia di vittime, a poca distanza dalla Baia dei Conigli di Lampedusa, che aveva fatto promettere solennemente “Mai più!” alle massime autorità nazionali ed europee.
Provoca un certo sconcerto ricordare ora che il premier Draghi ha scelto la Libia per la sua prima missione ufficiale all’estero da capo del governo. È comprensibile che abbia voluto rinsaldare i rapporti con un partner importante sulla sponda Sud del Mediterraneo, cercando di recuperare il terreno perduto nei confronti della Turchia. Meno condivisibile che abbia colto l’occasione per ringraziare il governo di Tripoli per i cosiddetti salvataggi in mare, ossia in realtà per aver ricondotto migranti e richiedenti asilo nei centri di detenzione sul suo territorio. Nessuna dichiarazione invece, almeno in pubblico, sul rispetto dei diritti umani e sui trattamenti riservati alle persone recuperate in mare.
Già comunque il secondo governo Conte, nella legge di bilancio 2021, aveva previsto un esborso di 66 milioni di euro per la realizzazione di “infrastrutture” sul suolo libico. In proposito un documentato rapporto di ActionAid, The Big Wall, ha cominciato a squarciare il velo di riserbo sui vari capitoli di spesa, italiani ed europei, che finanziano il fronte della sorveglianza dei confini e della deterrenza verso i tentativi di ingresso, fossero pure quelli di chi fugge da guerre e persecuzioni. La Libia fa la parte del leone, con circa 200 milioni di euro. Secondo altre fonti, i finanziamenti al governo di Tripoli ammontano invece a quasi 800 milioni.
Mentre la magistratura italiana continua a inquisire le ONG che salvano i migranti in mare, arrivando a intercettare i colloqui tra i giornalisti e le loro fonti, gli intrecci tra autorità italiane, governo libico e misteriose figure intermediarie non hanno destato fin qui grande attenzione. All’inizio di aprile è stato scarcerato in Libia al Bija, ex capo della cosiddetta “guardia costiera libica”, arrestato a ottobre con l’accusa di traffico di esseri umani. Varie inchieste hanno documentato il suo duplice ruolo, di complice dei trafficanti e carceriere dei migranti. Soprattutto, secondo un’inchiesta di Nello Scavo di “Avvenire”, nel 2017 al Bija aveva incontrato segretamente a Catania funzionari del governo italiano, per mettere a punto la strategia di contrasto delle partenze dalla Libia. Mentre su altre frontiere se non altro l’UE e i governi nazionali trattano con le autorità ufficiali ed evitano di criminalizzare i salvataggi, i governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno esitato ad accordarsi con figure del genere, mentre innescavano la sistematica persecuzione dei soccorritori.
Due sono invece i punti di convergenza tra Bruxelles e Roma. Dopo il piano von der Leyen di settembre, L’UE ha impresso un’accelerazione al suo impegno, come si usa dire, “securitario”. Nel budget settennale approvato a dicembre, in coerenza con gli aspetti più discutibili del Patto su immigrazione e asilo, ha destinato ai rimpatri (il termine più ricorrente del Patto, con 88 occorrenze) gran parte del Fondo per Immigrazione e Asilo (8,7 miliardi), oltre a sussidiare con 12 miliardi di euro il controllo dei confini.
Il secondo aspetto riguarda la deviazione verso il contrasto dei transiti delle spese ufficialmente dedicate ad assistenza e sviluppo. Ossia si parla di aiuti umanitari, ma si finanziano forze armate, centri di detenzione, acquisto di tecnologie in paesi come la Libia o il Niger, che sono coinvolti nella sorveglianza esterna dei confini dell’UE. I confini dunque si estendono, fino al deserto del Sahara, diventano più articolati e presidiati. Ai paesi satelliti dell’UE viene delegato il lavoro sporco, quello che serve per fermare gente che non ha più nulla da perdere.
Nuove tecnologie sempre più sofisticate inoltre vengono messe in campo: nel mese di febbraio la Polizia di frontiera italiana ha assegnato un appalto per 6,9 milioni di euro al colosso aerospazial-militare Leonardo, al solo scopo di noleggiare un drone per la sorveglianza del Mediterraneo Centrale. Purtroppo non è servito a individuare i barconi partiti dalla Libia e ad attivare i soccorsi. La sorveglianza, a quanto pare, riguarda solo il presidio dei confini marittimi nell’ottica della sicurezza e della riaffermazione della sovranità nazionale.
Ma oltre al dispiegamento di tecnologie servono allo scopo anche i centri di detenzione sulla sponda Sud e le maniere forti, per esercitare un effetto di deterrenza su chi vorrebbe attraversare il Mediterraneo.
Serve dunque un profondo cambiamento di rotta. Proviamo a delinearne per sommi capi le direttrici.
In primo luogo, come hanno richiesto le ONG al premier Draghi, occorre ripristinare il soccorso in mare. Quello che svolgeva direttamente lo Stato italiano con l’operazione Mare Nostrum, poi le ONG sotto la regia delle autorità governative, finché è intervenuto un cambiamento di linea politica. Come ribadito dalla stessa Presidente della commissione UE, Ursula Von der Leyen“, “il soccorso in mare non è un optional”, bensì un preciso obbligo degli Stati, un obbligo giuridico, quindi, oltre che morale. Scelgano gli Stati, si può chiosare, se occuparsene direttamente, delegarlo alle ONG o promuovere un sistema misto e coordinato. Due derive sono da evitare: quella dell’indifferenza e quella dell’affidamento delle persone da soccorrere alla Libia e ai suoi centri di detenzione.
La seconda iniziativa riguarda un rilancio su scala più ampia dei corridoi umanitari. Questa soluzione, messa in campo dalla chiesa cattolica e dalla chiesa protestante, ha finora consentito l’arrivo in condizioni sicure di 2.500 richiedenti asilo dal Libano, dall’Etiopia e di recente per un piccolo gruppo anche dal Niger. Belgio, Francia e ora anche Germania hanno seguito l’esempio, su piccoli numeri, dimostrando in ogni caso che c’è un’alternativa ai trafficanti e ai rischiosi viaggi per mare. Il concorso di sponsor extra-governativi, a partire dai Comuni e dalle Regioni, allargandosi all’associazionismo nazionale e locale e alle Fondazioni di origine bancaria, potrebbe ampliare il numero dei posti a disposizione.
Una terza linea di azione potrebbe riguardare l’istituzione di centri di raccolta delle richieste di asilo nei paesi di transito, assicurando una prima accoglienza in loco e una rapida risposta, con la possibilità di ingresso sicuro per via aerea in caso di accoglienza dell’istanza. Anche in questo caso, un sistema misto pubblico-privato potrebbe irrobustire la capacità ricettiva del sistema.
Come si vede le idee non mancano. Ma da sole non camminano, serve una volontà politica all’altezza del dramma umanitario che va in scena davanti alle coste del nostro paese.