All’interno delle aziende, i gruppi di lavoro risultano sempre più spesso misti, ovvero caratterizzati dalla presenza di personale diversificato per età, nazionalità, genere, condizioni di disabilità e salute.
Al fine di realizzare un coordinamento efficace della forza lavoro così composta, alcune organizzazioni istituzionalizzano interventi di diversity management per creare un ambiente professionale inclusivo, in grado di favorire l’espressione del potenziale individuale come leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi. Includere le differenze nel contesto organizzativo non solo ha effetti in termini di efficienza interna, ma è anche uno dei principi etici propri della responsabilità sociale d’impresa. Fra i fattori di contesto, la formazione ricevuta appare assumere un ruolo cruciale nel modellare il valore dell’integrazione.
L’eterogeneità nei luoghi di lavoro è un fenomeno consolidato e destinato a crescere. In un contesto lavorativo infatti, già di per sé, i modi di attendere ad una stessa occupazione sono molteplici (Liff e Wajcman, 1996) e, in più, le dinamiche sociali in atto fanno sì che il capitale umano sia viepiù variegato per età, genere, provenienza, abilità e orientamento (Bombelli, 2013). All’interno di gruppi del tipo descritto, caratterizzati da similitudini e differenze, secondo quanto postulato dalla teoria dell’identità sociale, i soggetti tendono a categorizzarsi e a creare sottogruppi (in-group e out-group), spesso in base a visioni stereotipate (Ashforth e Mael, 1989) e, da ciò, deriva una inclinazione a lavorare preferibilmente con chi si considera affine (Tajler e Turner, 1986), quando, invece, ogni alternativa operativa, opportunamente riconosciuta e valorizzata, può offrire delle prospettive nuove e aprire all’innovazione (Liff e Wajcman, op. cit.).
Alla luce delle evidenze, un clima aziendale inclusivo, con team diversificati e leadership non convenzionali, è positivamente correlato a reputazione, efficienza e performance migliori – con risultati più alti se guardiamo all’indice Dow Jones (fino al +22%), maggiore produttività dei singoli (fino al +12%) e superiore capacità di costruire con i clienti un rapporto solido e duraturo (fino al 19%) (Casali, 2016). Le aziende sono spinte ad adottare e formalizzare una serie di pratiche ad hoc, note con il termine diversity management, per assicurare attenzione e riconoscimento alle differenze descritte, attraverso ad esempio formazione, attenzione al linguaggio e architetture flessibili. Complessivamente, il diversity management è una strategia proattiva che identifica e cerca di risolvere i possibili fattori ostativi (Geisen e Harder, 2011) e dà rilievo agli aspetti relazionali, contatti e interazioni, che risultano decisivi per interventi di successo (Mattana, 2016).
Affinché un programma di gestione delle diversità sia efficace, sono necessari alcuni accorgimenti chiave antecedenti l’introduzione –tra cui assicurare margini di libertà strumentali a rendere le azioni adatte alla specificità aziendale, nonché integrare in modo coordinato i livelli strategici, progettuali ed operativi (Riccò, 2016)– e susseguenti l’implementazione –come una corretta misurazione quantitativa e qualitativa dei risultati raggiunti (Ozbilgin et al., 2015). Per rendere intelligibile il contributo apportato dal diversity management si possono prendere in considerazione diversi aspetti, come la distribuzione del personale per ruoli ricoperti e per caratteristiche; il tasso per target di reclami, assenteismo e turn over; gli audit interni e anche le indagini sui clienti. Tra le buone prassi attivate nelle varie organizzazioni si possono citare la promozione anche nelle Pubbliche Amministrazioni di progetti di Smart Working (prima solo presenti nel 5% dei casi) sostenuti massicciamente dal Dipartimento Pari Opportunità (Osservatorio Smart Working, 2017); Women’s Network di General Electric, una serie di hub distribuiti geograficamente in cui, volontariamente, i top manager e i dipendenti (100.000 ad oggi e pari ad un terzo della forza lavoro complessiva) si riuniscono con il comune intento di identificare percorsi di promozione e di accelerazione della crescita dei talenti femminili all’interno dell’azienda; i career day Diversitalavoro di Costa Crociere volti a incrementare l’assunzione di persone con disabilità; la formalizzazione, attivata da IBM anticipando l’intervento legislativo, dell’equiparazione di permessi e benefit aziendali e dell’estensione del piano medico a partner dello stesso genere (Dolciotti, 2017).
Evidenze e sperimentazioni di riposizionamento culturale
A fronte dei benefici economici descritti, in Italia, secondo le rilevazioni del Diversity management Lab di SDA Bocconi, solo il 21% delle imprese è attivo nel valorizzare le differenze in azienda. A livello europeo il tasso di adozione di pratiche lavorative inclusive raggiunge il 48%. Evidentemente, al di là della focalizzazione sulle utilità strettamente monetarie riportate, è tuttora necessario a livello nazionale un intervento culturale che inneschi in modo diffuso processi di apprendimento adatti ad allineare i comportamenti personali ai valori di integrazione. Come? Ad esempio, attraverso network, mentor e task force miste, particolarmente efficaci secondo alcune recenti rilevazioni (Dobbin e Kalev, 2016), oppure con una comunicazione interna ed esterna all’azienda delle iniziative di inclusione, allo scopo, da un lato, di permettere ai dipendenti l’acquisizione di consapevolezza delle opportunità disponibili e, d’altro lato, di rendere conoscibili i modelli più virtuosi per la gestione delle diversità (Riccò, op. cit.).
Anche ampliare il focus d’azione e richiamare le ricadute sociali ascrivibili all’attività imprenditoriale può corroborare indirettamente una maggiore inclusione sul posto di lavoro. Una via può essere innescare, ad esempio con eventi premiali, una maggiore propensione imprenditoriale all’etica e alla responsabilità sociale ovvero la corporate social responsibility, due aspetti che abbracciano anche il diversity management, ma sui quali si registrano ancora oggi delle contraddizioni. Originariamente, infatti, sono stati proprio i cambiamenti peggiorativi apportati dalla rivoluzione industriale nella situazione della classe operaia a far convergere l’attenzione sulla necessità di migliorare la qualità di vita dei soggetti più fragili, con interventi di tipo filantropico alimentati da imprenditori illuminati (come Owen e Cadbury). Tuttavia, se si pensa al binomio impresa ed etica, non mancano tuttora esempi distorti, dal momento che i) l’assunzione dichiarata di un impegno sociale non costituisce di per sé un elemento di garanzia fattiva e ii) di uno strumento di corporate social responsibility si può fare un utilizzo proprio quanto improprio (Bonciani, 2017).
Poste le ancora attuali necessità di un’educazione alla consapevolezza delle opportunità insite nel confronto con elementi diversi e ai rischi derivanti da chiusure dettate dall’omofilia e vista la mobilitazione verso interventi che incidano sui modelli di pensiero rendendoli più inclusivi e consci delle opportunità insite nel confronto con le diversità, quali sono gli esiti delle traiettorie in atto nel riposizionamento culturale?
Da uno studio inter-generazionale, volto a mappare le evoluzioni dei valori, degli atteggiamenti e degli orientamenti sociali -attraverso questionari semi-strutturati e serie di batterie di item a risposta chiusa- (Gjergji R. et al., 2017), emerge che la sensibilità ad investimenti in corporate social responsibility attualmente è superiore tra i junior. Infatti, il 60% dei manager under40 intervistati ritiene che la responsabilità d’impresa sia parte integrante di una buona strategia aziendale (mentre negli over40 la quota è pari solo al 40%). Sul fronte del capitale umano, i giovani, nell’85% dei casi (contro il 50% dei senior), colgono la centralità di attrarre conoscenze esterne e valutare il personale secondo competenza. Si tratta di segnali incoraggianti che attestano il ruolo importante ricoperto dal sistema universitario nell’orientamento imprenditoriale dei futuri dirigenti. La formazione manageriale sembra infatti indurre “una sorta di distacco emotivo, un’attivazione di filtri razionali che raffredda la componente di attaccamento affettivo/emotivo” (Lazzarotti e Visconti, 2017, p. 172).
Tra le iniziative di riposizionamento culturale si possono citare Women in motion, il progetto di Ferrovie dello Stato per il contrasto agli stereotipi, attraverso il quale le dipendenti stesse narrano nelle scuole e nelle Università come le donne lavorano efficacemente nelle aree tecniche ferroviarie; e il progetto N.e.r.d? Non È Roba per Donne avviato dall’Università La Sapienza di Roma per promuovere lo studio delle materie STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) tra le studentesse degli Istituti Superiori (Dolciotti, op. cit.). Le evidenze empiriche documentate dalla letteratura scientifica incoraggiano così altre sperimentazioni, anche in classi di età inferiori. Ne è un esempio, il recente cortometraggio Purl diretto da Kristen Lester e prodotto da Gillian Libbert-Duncan. L’animazione, con grande delicatezza, prova ad introdurre tra i minori l’ideale di un modello di start-up inclusiva attivato da un gomitolo di lana rosa in un luogo di lavoro piuttosto grigio e spigoloso, con risultati positivi ottenuti attraverso un mix di tentativi basati sulla tenacia. Vale la pena di provare ad immaginare un altro modo e di aprirsi ad un altro mondo? La risposta è: sì!