L’usura ai tempi del Covid (e cosa ci giochiamo davvero)


Luciano Gualzetti | 23 Dicembre 2021

Sappiamo che il virus, in chi lo ha contratto, produce sintomi che si protraggono oltre la malattia. Stiamo ormai verificando che qualcosa di analogo accade anche in chi si è impoverito o è diventato povero durante la pandemia, per effetto più o meno diretto, delle misure di contenimento del contagio: il lockdown della primavera 2020 e il sistema di limitazioni più flessibili introdotto nell’autunno che tiene conto dei livelli di rischio rilevati nelle singole regioni. Ora, senza con questo volere mettere in discussione quelle politiche di sanità pubblica e le ragioni drammatiche e urgenti che le hanno motivate (l’aumento vertiginoso dei contagi, i morti, tutti i malati per altre patologie che non sono stati adeguatamente curati per l’intasamento delle strutture sanitarie), dobbiamo fare i conti con questa realtà: esiste un long Covid non solo sanitario ma anche sociale.

 

Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio delle Povertà e delle Risorse della Caritas Ambrosiana, su 10 famiglie che sono finite sul lastrico durante i primi mesi della pandemia, quattro non si erano ancora risollevate all’inizio del 2021, una percentuale più alta di quella che in media è stata riscontrata nel resto del Paese, dove il rapporto è di 3 su 10. Anche quando le attività economiche sono riprese, dunque, inducendo gli osservatori a valutazioni ottimistiche sul futuro, c’è chi non è riuscito a saltare sul treno che si rimetteva in marcia persino in una delle aree più produttive del Paese, come è l’area metropolitana vasta milanese che, con Milano, Monza, Lecco, Varese e le rispettive provincie, corrisponde al territorio della Diocesi ambrosiana.

Come mai è accaduto? Non abbiamo una risposta certa a questo interrogativo. Ma dalle storie di vita raccolte dai nostri operatori sappiamo che spesso tra gli impoveriti da Covid che si sono ripresentati a chiedere aiuto alle Caritas erano indebitati. Nei mesi duri del lockdown, non solo chi ha perso il lavoro, ma anche chi è stato sospeso, potendo beneficiare della cassa integrazione, non è riuscito a far fronte alle più elementari spese quotidiane: il cibo, le bollette del gas e della luce, l’affitto o il mutuo. Nonostante gli aiuti materiali ricevuti e la possibilità di procrastinare alcuni di quei pagamenti, ad un certo punto si è trovato costretto a chiedere denaro in prestito per assolvere a quegli obblighi.

Questa situazione debitoria è diventata la zavorra che ha costretto queste persone a ricorre di nuovo all’aiuto della Caritas anche quando, nei casi più fortunati, hanno ripreso a lavorare. Ora proprio il fardello dei debiti, oltre ad impedire loro di riprendere la corsa, le fa precipitare in una condizione dalla quale è ancora più difficile uscire. Non potendo, infatti, accedere al credito legale queste famiglie sono tentate di ricorre a chi è in grado di offrire denaro senza chiedere in cambio garanzie, salvo poi far pagare a caro prezzo questa apparentemente illimitata concessione di fiducia. Sta già avvenendo ora e se non interverremo in tempo sarà sempre più frequente nel futuro.

In questo contesto, il prestito di sussistenza potrebbe generare un aumento del fenomeno usuraio che trae linfa proprio da questo meccanismo oltre che dall’indebitamento patologico, prodotto naturale di ogni recessione economica. In questo quadro la lotta all’usura diventa allora una sfida che andrebbe affrontata con nuovi e più efficaci strumenti. Innanzitutto con una nuova legge che permetta agli aiuti di arrivare più velocemente a chi è a rischio o già finito nelle mani degli usurai. In secondo luogo, con il rafforzamento dei presidi sul territorio, attraverso un’alleanza strategica tra le Caritas e le istituzioni pubbliche, dedite al contrasto e alla prevenzione.

 

Il perimetro del fenomeno pre-Covid

Ma quando parliamo di vittime di usura a che cosa esattamente ci riferiamo? Gli studi e le analisi condotte dalla Consulta Nazionale Antiusura sono tra le fonti più attendibili per definire i contorni del fenomeno.

Il Report di Assisi (Fiasco 2018) della Consulta Nazionale Antiusura è una ricerca condotta su dati certificati (il panel triennale delle famiglie osservate dalla Banca d’Italia) che ha dimostrato un aumento del 53% del numero delle famiglie indebitate tra l’anno che precedeva la crisi finanziaria del 2007 e l’inizio dell’anno 2017: si tratta di 1 milione e 960 mila famiglie. Il confronto tra i due anni ha messo in evidenza che:

  1. La RI, ossia la riserva economica ovvero il margine che si presenta nella disponibilità della famiglia, tra il 2006 e il 2016, è diminuita del 13%;
  2. Il reddito delle famiglie era già drasticamente calato prima della crisi, tanto che i loro consumi si erano sensibilmente ridotti (-2,7%), così come la loro ricchezza (-16,5%) e avevano parzialmente compensato queste perdite con un maggior ricorso ad attività finanziarie.

Il dato di bilancio aggregato diceva che la ricchezza nominale delle famiglie in 10 anni era passata da un valore monetario medio di 260 mila euro a 226 mila e 500, con una perdita secca di 13 punti.

Il Report di Milano (Fiasco 2019), presentato dalla Consulta Nazionale Antiusura l’anno successivo, sul peso dell’usura nelle province italiane, basato su una ricerca fondata su oltre 25 indicatori ufficiali, confermava il dualismo nord-sud, con le regioni meridionali maggiormente esposte e con alcune province settentrionali sensibili al rischio acuto. L’altro elemento che emergeva dal report era la stima attendibile delle famiglie ancora in equilibrio tra entrate e uscite, ma che una tempesta generale o una vicenda particolare poteva spostare sotto la soglia dell’equilibrio, e far finire quindi tra quelle in condizione tecnica di sovraindebitamento.

 

In breve, prima dell’emergenza Covid-19 si rilevava che nelle province “meno esposte” all’usura (9 del nord-est, 11 del nord-ovest, 6 del centro-nord e la Capitale) proprio i servizi di welfare sembravano rappresentare lo strumento più efficace per aiutare le famiglie a sostenere il peso della crisi, contribuendo così a una relativa tenuta dell’economia e al contenimento del rischio finanziario. E questo nonostante l’esposizione al costo materiale, sociale e umano della questione criminale. Viceversa, nelle province gravemente esposte all’usura, (ossia 7 province siciliane, quelle pugliesi e Potenza) gli indicatori che gettavano il meridione nell’area dell’usura erano quelli criminologici (con incidenza sul totale in un range tra l’80% e il 51% dei fattori), seguiti da quelli economici (tra il 63% e il 42%) quindi da quelli finanziari (tra il 63% e il 45%).

Da tali considerazioni derivò l’indicazione che le politiche pubbliche contro l’usura dovessero essere orientate soprattutto al contrasto della criminalità e, contemporaneamente, alla realizzazione di interventi sociali, alla messa in atto di misure di stimolo all’economia e di forme di tutela e assistenza finanziaria.

 

Il perimetro del fenomeno post-Covid

Ma tutto ciò ha dovuto fare i conti con il Covid-19. Con l’arrivo della pandemia sono emerse forti preoccupazioni, certamente fondate, ma tuttora non supportate da informazioni strutturate e messe a disposizione dalle autorità statali.

La Consulta delle 33 Fondazioni antiusura italiane, basandosi sulla sua esperienza, si è interrogata sui nuovi rischi che la pandemia può comportare anche in termini di usura. In particolare: quali sono state le conseguenze dei lockdown sul fenomeno dell’usura? Chi la pratica e a chi si rivolge? Rispondere a queste domande comporta una opportuna considerazione dell’evoluzione storica dell’usura.

Prima dell’impatto della crisi finanziaria del 2008, le ricerche svolte con regolarità dalla Consulta Nazionale Antiusura documentavano una significativa contrazione dell’area del prestito usuraio, del denaro offerto e ricevuto a tassi d’interesse e a condizioni manifestamente illegali. L’Italia vi aveva impiegato almeno quindici anni, dalla traumatica crisi scoppiata nell’estate del 1992, e si avviava a un nuovo equilibrio: con la ripresa dell’economia e grazie agli strumenti introdotti con la legge 108/1996 si stavano alimentando delle speranze fondate. La Consulta indicò con chiarezza la necessità di affrontare il tema del sovraindebitamento, in quanto condizione preliminare rispetto al rischio di usura.

Il sovraindebitamento, secondo la legge 3/2012, è il “perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte dal debitore ed il suo patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni”. Al di là delle formulazioni astratte, la “crisi da sovraindebitamento” dei soggetti che la legge considerava e considera “non fallibili” è concretamente una condizione drammatica che ha il suo centro di acuto disagio nella famiglia, anche laddove la situazione di perdurante squilibrio tra le entrate e le uscite correnti sia incentrata su un’attività economica, e non esclusivamente sulle scelte compiute dal “soggetto consumatore”.

Quindi l’aiuto delle persone vittime di usura, se in passato era riservato solo al singolo in stato di sovraindebitamento, dopo averne verificato la documentazione presentata, si è trasformata nella salvaguardia di una riserva di reddito e di beni necessari al sostentamento anche del nucleo familiare del debitore. Se si intendono utilizzare dunque le chance contenute nella legge 3/2012, in parte rinnovata nel 2018, occorre un approccio attivo e multidisciplinare, e non meramente “proceduralista”. La crisi da sovraindebitamento trova una speranza di essere risolta, con le minori sofferenze familiari e sociali possibili, se e in quanto si dispieghi un sostegno diversificato e personalizzato per ricomporre la condizione cronicizzata (il debito) e per far conseguire alla famiglia e alla “microimpresa” un nuovo equilibrio e una nuova capacità di affrontare con competenza la gestione del budget.

Con l’avvento della pandemia, la recessione economica si è combinata con una preesistente area della povertà. La popolazione delle famiglie in oppressione per debiti non rimborsabili ora può essere articolata in tre fasce:

  1. Famiglie consumatrici e piccole imprese famigliari che la pandemia ha indotto a cadute in sofferenza straordinaria per la prima volta: è una fascia stimabile in almeno 3 milioni di nuclei famigliari, per l’appunto divenuti debitori insolventi (circa 7,5 milioni di persone fisiche). È questa una situazione transitoria, che tuttavia provoca un carico di inquietudine, di tensioni intrafamiliari, di manifestazioni di disagio;
  2. La fascia intermedia di famiglie e piccole imprese famigliari che avevano già varcato la soglia di rischio e che erano effettivamente in fallimento tecnico per debiti (2 milioni e 250 mila unità – sommando le tre forme di sovraindebitamento (attivo, passivo, differito) e corrispondenti a 6,5 milioni di persone). La cronicizzazione della sofferenza in questa fascia conferma che essa non è superabile senza misure specifiche adottate dallo Stato;
  3. La fascia del reale rischio e pericolo di usura, che riguarda (secondo proiezioni delle precedenti rilevazioni) almeno 350 mila famiglie corrispondenti a 800 mila persone.

L’indebitamento patologico nella recessione economica va associato al fenomeno dell’usura come prestito di sussistenza per le famiglie con reddito in nero e a quello delle aste giudiziarie tra drammi familiari e affari illeciti. Il prestito di sussistenza – vale a dire la richiesta di denaro a interesse in assenza di reddito per spese indispensabili e contratto nell’illusione di un nuovo flusso futuro di entrate familiari – si è ripresentato fin dagli inizi della pandemia come conseguenza sia della messa in cassa integrazione di famiglie già impegnate in obbligazioni onerose e a scadenza, diventate insolventi, sia della chiusura delle attività commerciali e del conseguente licenziamento dei lavoratori “in nero”.

Enormemente cresciute nell’ultimo decennio, le aste giudiziarie sono un business molto lucroso. Secondo l’ultimo report realizzato da Astasy insieme a NPLs Re-Solutions nell’anno 2019 gli immobili che sono stati oggetto di incanto sono stati ben 204.632, per un controvalore di quasi 30 miliardi di euro. Un giro di denaro che rappresenta un affare per qualcuno, ma un dramma per molti altri. In particolare per le 120 mila famiglie in Italia che rischiano di perdere l’abitazione in cui vivono. Come se non bastasse, oltre a generare drammi personali e familiari difficilmente sanabili, la bolla speculativa che è nata attorno alle aste giudiziarie solleva anche un preoccupante problema di illegalità.

 

Concludendo, si può stimare che lo shock della pandemia abbia fatto lievitare complessivamente fino ad almeno sei milioni il numero di famiglie in varia graduazione di sofferenza: da quelle pressate da uno stato di insolvenza finanziaria o creditizia a quelle via via più esposte al rischio di usura. La novità amara è appunto questa: una condizione di massa che incide nel contesto micro (le famiglie) e in quello macro (gli effetti recessivi generali sull’economia).

Se tale è l’entità del fenomeno, è possibile immaginare di scongiurare il rischio che ne deriva solo attraverso misure legislative illuminate, da un lato, e un’attenta e minuta azione di contrasto e prevenzione, dall’altro. La proposta di riforma della legge anti usura, avanzata dalla Consulta Nazionale, va esattamente in questa direzione. Da un lato, il potenziamento del Fondo di solidarietà per le vittime e l’allargamento dei beneficiari non solo ai soggetti economici, le imprese, ma anche alle famiglie; e dall’altro, la semplificazione delle procedure di accesso anche al Fondo di prevenzione, rafforzerebbero l’azione di contrasto al welfare criminale, utilizzato dalle mafie come potente strumento di ricatto e controllo.

Poiché, tuttavia, il territorio è terreno su cui si disputa la partita, è qui che va costruito il secondo pilastro della strategia di contrasto al fenomeno usuraio. Rafforzare l’alleanza tra le istituzioni pubbliche e la Chiesa, attraverso proprio le Caritas Diocesane, che possono contare su una straordinaria ramificazione territoriale, permetterebbe di intervenire tempestivamente e di fare argine comune contro chi vorrebbe sostituirsi alla Stato e far crescere i propri affari illeciti: la vera posta in gioco.