Come cambia il lavoro nel sociale


Sergio Pasquinelli | 11 Ottobre 2022

Come sta cambiando il lavoro nel mondo dei servizi sociali e sociosanitari? Le “grandi dimissioni”, quelle che nel 2021 hanno coinvolto solo in Italia quasi due milioni di persone, hanno investito anche i servizi alla persona? Forse non in termini massicci, ma in parte sì.

Certamente è cambiato l’approccio verso il lavoro da parte delle generazioni più giovani, e da questo punto di vista due anni di pandemia rappresentano un crinale. Due anni che sono stati per molti di stasi, ma anche di riflessione e ripensamento, hanno spostato il baricentro dei propri interessi dalla sfera professionale alla sfera privata. I giovani esprimono oggi progetti di vita meno centrati sul lavoro, e la tradizionale sequenza: fine degli studi, acquisizione di una occupazione, abitazione autonoma, vita indipendente e creazione di un nuovo nucleo familiare non è più così lineare, non è più così fluida, forse nemmeno così ricercata.

 

Mi è capitato di parlarne con diversi dirigenti di cooperative sociali, ma anche di enti pubblici, e tutti sembrano convergere sulla medesima percezione: la pandemia ha creato una stasi, una sospensione. In tanti sono usciti da questa condizione ripensando il ruolo del lavoro nella propria vita, ridimensionandolo, perché il centro della propria identità si è spostato altrove.

Il processo è lo stesso che si registra con il termine “quiet quitting”, le dimissioni silenti, o non-dimissioni: riduci la tua attività lavorativa al minimo indispensabile, lo stretto necessario: niente straordinari, impegno al minimo, niente stress, burn out e così via. In fondo è il prendere le distanze dal tuo lavoro, senza lasciarlo perché ne hai bisogno. “Se ne sta parlando non soltanto per la popolarità del fenomeno sui social ma anche per quello che dice di inclinazioni e sentimenti diffusi nel mondo del lavoro dopo la pandemia tra le persone più giovani”1. Un fenomeno che fa il paio con le grandi dimissioni, praticate queste ultime forse da chi ha più competenze da spendere sul mercato.

La sintesi la propone Dario Colombo, dirigente della cooperativa sociale Il Melograno, presente a Milano e nel suo hinterland con più di 900 addetti: “si sta affermando un atteggiamento più ‘femminile’ verso il lavoro, anche tra i maschi. Un atteggiamento che non lo considera più il fulcro su cui costruire il proprio progetto, ma funzionale a ciò che può dare, che può aiutare a fare. Si è molto più inclini di una volta alla rinuncia, a evitare sacrifici, più selettivi ed esigenti nelle richieste, forse nella convinzione che una via di fuga, una alternativa, un aiuto comunque lo si possa trovare”. E lo si trova indebitandosi, oppure ricorrendo a sostegni estemporanei, o ancora aggrappandosi a escamotages che consentono di percepirsi sopra un certo standard di benessere. Benessere, intendiamoci, spesso fittizio, temporaneo, artefatto.

 

Il caso degli educatori professionali è eloquente. Una figura che le cooperative sociali fanno sempre più fatica a contrattualizzare, per lavori ritenuti troppo faticosi: comunità educative, attività in residenze e così via. Molti educatori si orientano verso il pubblico (la scuola in particolare, con la cosiddetta “messa a disposizione”) dove a mansioni più leggere – anche se temporanee – corrispondono condizioni di lavoro meno impegnative. Analoga operazione avviene in sanità con la figura del super Oss, divenuto un vice infermiere.

L’espediente di supplire alla carenza di personale ampliando le possibilità lavorative di figure per così dire limitrofe è un rimedio che ha il fiato corto, perché copre dei buchi ma ne crea di altri, oltre a svalutare ruoli pensati in relazione a specifici iter formativi.

La crisi di vocazione del sociale è frutto di molte cose: andiamo da fattori molto concreti come livelli retributivi che non permettono di vivere dignitosamente, per esempio in una città cara come Milano (e molte dimissioni sono da ascrivere a persone che hanno scelto di trasferirsi in luoghi economicamente più sostenibili), fino a un contesto di grande incertezza sociale, economica, che non aiuta ad assumere scelte nette. E allora si rimane in una condizione di continua sospensione, con una inquietudine che fa entrare e uscire dai lavori in cerca di condizioni sempre migliori, come vivendo “per prova” inseguendo la prossima occasione.

Lato operatori, questo stare un po’ dentro e un po’ fuori il lavoro riduce l’orizzonte temporale in cui compiere scelte di vita (come quelle di coppia, per non parlare della paternità/maternità), perché il perimetro delle possibilità diventa cronicamente incerto, e si riduce inesorabilmente.

Lato organizzazioni, pubbliche e del terzo settore, e relativi datori di lavoro, questa è una situazione nuova, complessa, faticosa. La risposta non può che essere centrata sull’ascolto, sulla conciliazione delle esigenze, anche economiche fin dove possibile. Ma anche sulla richiesta di una assunzione di responsabilità nei confronti del lavoratore. Compatibile con le sue disponibilità e i suoi interessi, ma precisa nel suo perimetro. È anche così che l’operatore può sentirsi riconosciuto per il suo valore, e forse ridurre la sua inquietudine.

  1. Lavorare il minimo indispensabile“, Il Post, 16 settembre 2022.