Pochi giorni prima di Natale è stata inaugurata in pompa magna, con tanto di taglio del nastro, la prima Casa della comunità (Cdc) della città di Milano. Dove ne sorgeranno 24, in luoghi già individuati, e 218 nella regione. È la struttura di via Rugabella, nota a molti milanesi come grande poliambulatorio e centro di prenotazione di visite ed esami. Realtà risalente agli anni Sessanta del secolo scorso.

L’operazione si traduce quindi nella riconversione/potenziamento di qualcosa di già esistente. Ma il punto interessante è stata la presentazione dell’organico che lavorerà nella struttura: cinque medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, dieci infermieri, due Oss, 40 medici specialisti di 18 specialità diverse, personale amministrativo, tecnico, infermieri di comunità, l’apertura di un nuovo centro vaccinale. Casa di comunità in versione “Hub”, quindi aperta 24/7. Non una parola sul personale “sociale”: assistenti sociali, educatori, operatori di base. Ad essi verranno riservati due locali, per funzioni tutte da precisare, in una struttura che, a giudicare dal personale meticolosamente elencato dalle autorità regionali, ne dovrebbe contare in totale almeno 40.

Se il buongiorno si vede dal mattino, le Case della comunità in Lombardia rischiano davvero di diventare questo: poliambulatori affiancati da qualche medico di base che lavorerà in equipe con suoi colleghi, dove l’integrazione col sociale inteso come territorio di riferimento, quindi non solo il sociale “pubblico” ma tutto il terzo settore nelle sue diverse declinazioni, diventa ancillare, marginale.

Ci auguriamo che la progressione di aperture di Cdc nella regione cambi rotta. Che il sociale pubblico e il terzo settore facciano sentire la propria voce. Perché la comunità che queste Case dovrebbero accogliere, dare spazio, sostegno e in qualche modo cittadinanza, non è solo quella dei malati. O dei pazienti.