Natalità: che cosa resta da fare


Sergio Pasquinelli | 26 Luglio 2022

E così siamo a meno di 400mila nuovi nati all’anno: fin dove arriveremo? Con questi numeri e nel lungo periodo – diciamo la fine di questo secolo – la popolazione italiana rischia di dimezzarsi. Difficile che il nuovo Assegno unico universale per i figli rallenti la discesa, certamente non da solo. Le istanze per ottenerlo sono cresciute molto negli ultimi mesi, superando il 70% degli aventi diritto, ma il suo valore, già limitato in partenza e legato alle fasce di reddito familiare, salendo dai meno abbienti verso il ceto medio si indebolisce ulteriormente, se comparato ai costi reali di un figlio.

 

La scommessa è quella di far lavorare il “combinato disposto” del cosiddetto Family Act: assegno universale, riforma dei congedi parentali, sostegno al lavoro femminile, aumento dei permessi retribuiti, assieme alle misure previste dal PNRR: più di duecentomila nuovi posti nei servizi per l’infanzia, agevolazioni fiscali per la locazione dell’abitazione alle giovani coppie e così via.

Fare in modo che queste diverse misure siano rese operative in tempi brevi, con accessi trasparenti e semplici, aiuterà a non rendere vano il tentativo di ridurre la denatalità. Occorrono diverse cose fatte in simultanea: una campagna di informazione che spieghi, luoghi riconoscibili dove fare domanda, piattaforme digitali dedicate e così via. Insomma uno Stato che si fa prossimo al cittadino, una cosa su cui non siamo mai stati forti. Basteranno queste misure per raddrizzare la curva paurosamente discendente della fecondità italiana? Possiamo spingerci ancora oltre?

 

Certo, un’inversione di tendenza sconta una certa inerzia: fare un figlio richiede un orientamento al futuro. Le misure di policy incidono su questa propensione non solo se sono strutturali, ma se sono anche percepite come tali. E la storia italiana degli interventi pro-figli non va esattamente in questa direzione: si pensi ai vari bonus bebè, che si sono succeduti una tantum ad anni alterni. Le donne in età fertile, inoltre, stanno diminuendo e invecchiando, riducendo il potenziale riproduttivo del Paese.

 

Ma la domanda ritorna: che cosa resta da fare? Intanto dobbiamo mettere a terra al meglio le riforme già decise: questo significa per esempio realizzare nuovi asili nido, e contemporaneamente formare una nuova classe di educatrici e operatori che vi lavoreranno. L’ampliamento del numero di posti disponibili nei servizi 0-3 anni richiede infatti un adeguato numero di educatori formati, adeguati livelli salariali e termini contrattuali per assicurare un reclutamento che ne garantisca il funzionamento nel lungo periodo. L’accesso ai servizi per la prima infanzia va inoltre agevolato in tutti i modi, per esempio potenziando l’offerta di asili nido gratuiti, almeno per fasce più ampie possibili di popolazione.

 

Ma la sensazione è che tutto questo ancora non basti. La sensazione è quella di un retroterra culturale che si è disabituato a “fare famiglia”, con giovani che raggiungono la vita adulta sempre più tardi, in condizioni sempre più precarie. Una precarietà di vita che riguarda lavori senza prospettive di crescita, sottopagati1, erosi dall’inflazione, cui si accompagna un indice di “housing affordability”, inteso come sostenibilità delle spese abitative, in caduta libera.

 

L’insicurezza è la cifra dominante delle generazioni più giovani. Ma basta questo a spiegare la bassa fecondità? Ci sono stati periodi storici di grande incertezza, in cui la fecondità ha avuto sobbalzi ma non è scesa in modo così lineare: si pensi alla seconda guerra mondiale, e al dopoguerra. I giovani sembrano oggi stanchi nel vedersi in un domani, nell’immaginare un progetto di futuro. Un figlio è frutto di una scelta diventata molto razionale, molto calcolata, forse anche molto “privata”, non c’è più quella dose di generatività incosciente, quel legame sociale che porta a dire che “i nostri figli non sono figli nostri (…) non ci appartengono”: parole del poeta Khalil Gibran2, che mai come oggi suonano così lontane dal senso comune. In una società ancora molto familistica come quella italiana, “i genitori, proprio perché si sentono responsabili del futuro dei loro figli, puntano ad averne pochi per poter dare loro il massimo. Al contrario in Nord Europa e negli Stati Uniti la fecondità è più alta. Sono Paesi in cui il legame tra le generazioni è più debole: naturalmente non vuol dire che i genitori vogliano meno bene ai figli, ma il futuro dei figli dipende meno dai genitori”: è la tesi di demografi come Gianpiero Dalla Zuanna.

 

E quindi, cos’altro possiamo fare per favorire questa scelta? Possiamo fare ancora molto, su più fronti: formazione, lavoro, casa, relazioni sociali. Con misure nazionali ben più incisive delle attuali, e con interventi regionali come il progetto “Giovani Sì” della Regione Toscana, attivo da più di dieci anni che ha la particolarità di essere molto inclusivo: per esempio favorendo sostegni su scala vasta, sia individuale sia collettiva, e considerando giovani persone fino ai 39 anni di età. Il progetto spazia su diversi terreni di intervento, finendo per avere attivamente coinvolto oltre 400mila persone: qui l’ultimo Report. Esperienze come questa vanno fatte conoscere, confrontate con percorsi analoghi, fatte crescere. Con la speranza che il tema venga dibattuto ed entri nella campagna elettorale.

 

Ringrazio Stefania Sabatinelli e Nicola Orlando per utili osservazioni e suggerimenti. Naturalmente la responsabilità di quanto ho scritto è solo mia.

  1. Secondo l’ultimo Rapporto Istat 2022, un lavoratore del settore privato su tre guadagna meno di mille euro al mese lordi.
  2. “I vostri figli non sono vostri. Sono i figli e le figlie che il desiderio della vita ha di se stessa. Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi. E sebbene stiano con voi, non vi appartengono”, Khalil Gibran, “Il profeta”, 1923.

Commenti

Tra le cose che restano da fare c’è la riforma dell’estate: tre mesi di ritiro istituzionale che abbandonano i genitori lavoratori a se stessi da inizio giugno a metà settembre.
13 settimane di vuoto che aumentano le disuguaglianze tra gli studenti e li riportano sui banchi a settembre un po’ più annoiati e ignoranti che a giugno.
90 giorni da riempire, in cui le famiglie con più risorse relazionali ed economiche riescono ad arrabattarsi tra nonni e campus, mentre quelle più povere tirano a campare come meglio riescono.
Nessun lavoratore può occuparsi a tempo pieno dei propri figli per tutto questo tempo, e forse non è nemmeno auspicabile.
Tuttavia, il tema del vuoto estivo non è mai nell’agenda di nessuno. Men che meno dei politici maschi over60.