Il non impatto delle valutazioni d’impatto


Sergio Pasquinelli | 14 Giugno 2022

Da anni si fa un gran parlare di impatto. Termine ampio, ambiguo, usurato. Con Gian Paolo Barbetta1 preferisco parlare di cambiamenti generati da un intervento, un servizio, una politica. Di effetto, inteso come “ciò che accade in presenza dell’azione e non sarebbe invece accaduto in sua assenza”.

Da cui derivano, a cascata, una serie di interrogativi: quali benefici vengono effettivamente prodotti? I cambiamenti generati corrispondono ai cambiamenti desiderati? I costi sostenuti sono commisurati ai risultati raggiunti? Domande come queste affiorano qua e là nelle nostre realtà di welfare, scontrandosi, spesso, con una sostanziale povertà di dati, evidenze, analisi.

 

Conosciamo molto i progetti, le intenzioni, le aspettative. Generalmente molto poco gli effetti che si producono in relazione ai destinatari diretti, e in relazione al contesto sociale più ampio. La stagione che si aprì dopo la 328/00 con i Piani di zona non portò a quella ventata di cambiamento valutativo che ci saremmo aspettati: quanti Piani di zona sono stati realmente valutati? Soprattutto, quanti hanno “imparato” da queste valutazioni, correggendosi e modificandosi nel tempo? Personalmente credo molto, ma molto pochi.

Teoricamente, non c’è dubbio che il metodo controfattuale (con gruppo di controllo) sia ineccepibile nel misurare gli effetti netti generati da un intervento. Tuttavia, nel campo del welfare sociale questa strada si scontra con molteplici problemi applicativi, come ha argomentato Ugo De Ambrogio su questo sito2. Una strada che ha portato, talvolta, a dimostrare l’ovvio, ma con sofisticate operazioni. Mi riferisco ai casi in cui si è dimostrato, mettendoci anni di lavoro, che un portatore di disabilità seguito da un case manager ha più probabilità di star bene e vivere in autonomia di uno privo di questa figura; oppure che studiare Pirandello sui libri di testo sia meglio che farlo su Twitter; oppure ancora, che un povero che riceve il reddito di cittadinanza ha più possibilità di trovare lavoro di un povero che non lo riceve.

A volte non c’è neanche bisogno di tanta elaborazione per capire l’effetto generato. Se il bonus badanti di Regione Lombardia, dopo tre anni, viene utilizzato da poco più di 200 anziani in tutta la regione, a fronte di un potenziale ben maggiore, è evidente l’effetto modesto prodotto, a fronte di una serie di problematiche legate alla messa a terra di questa misura.

 

Ma il punto che mi preme di più riguarda l’impatto delle valutazioni sui processi decisionali. L’esperienza mi dice che questo è ancora molto limitato. Quante politiche, quanti servizi hanno “appreso” dagli sforzi di valutazione compiuti, anche da quelli più rigorosi, per correggersi, modificarsi, cambiarsi?

È una domanda aperta, che giro anche ai lettori di questa rubrica, perché personalmente faccio fatica a trovare casi in cui questo sia successo. Certamente molte valutazioni hanno aperto discussioni, hanno orientato il dibattito, hanno favorito apprendimenti. Ma raramente hanno determinato decisioni sul loro oggetto. E questo è dovuto a motivi diversi. Mi limito a indicarne due.

Un primo tema riguarda chi “commissiona” la valutazione, chi la promuove, chi ne formula il mandato. Se essa viene realizzata come atto dovuto, formale, finale, come un adempimento, le sue ricadute sono destinate, salvo eccezioni, a rivelarsi limitate, perché poco internalizzate. Se viceversa la valutazione fa parte integrante di un intervento, lo accompagna lungo tutto il suo arco di vita, e coinvolge attivamente i diversi attori interessati, essa avrà più probabilità di essere generativa nei suoi risultati finali. Da questo punto di vista serve una classe dirigente che creda nel valore della valutazione degli effetti delle policy. Purtroppo, si tratta di una sensibilità rara nelle amministrazioni pubbliche, poco inclini ad un sano confronto nel merito delle misure attuate.

Un secondo tema riguarda le modalità comunicative che usiamo per restituire i risultati raggiunti. A volte tali modalità seguono formule accademiche – nei canali, nei linguaggi e nelle forme di espressione – distanti dai contesti di ricezione e comprensione del decisore pubblico. La comunicazione dei risultati deve avere chiari i suoi destinatari, e costruire una strategia comunicativa che tocchi i loro interessi, i loro valori. Sottovalutare questo punto rischia di depotenziare anche gli sforzi valutativi migliori.

  1. G. P. Barbetta, “Sono utili gli interventi sociali?”, Impresa Sociale, n. 4, 2020.
  2. U. De Ambrogio, “Se si valutassero le valutazioni di impatto”, Welforum.it, 21 novembre 2019.