Integrazione sociosanitaria bye bye?


Sergio Pasquinelli | 3 Maggio 2022

Oggetto di dibattito per molti mesi, al centro delle aspettative di rilancio del sistema Italia, del PNRR abbiamo oggi informazioni frammentarie. Dopo la fase degli annunci e delle promesse, è arrivata quella dell’attuazione. E su questo i mezzi di comunicazione e la stampa nostrana non sono mai stati forti, cercando sempre la notizia piuttosto che restituire conoscenze ad ampio spettro.

 

Se c’è un terreno su cui il Piano aveva creato delle aspettative, che oggi si stanno sciogliendo come neve al sole, è quello dell’integrazione tra sanità e sociale. Un tema di cui si parla da trent’anni, su cui ogni Regione ha preso la sua strada, ma dove la traduzione operativa della Missione 6, componente 1 del PNRR, ossia il cosiddetto “Dm 71” (il decreto del Ministero della Salute recante “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Servizio Sanitario Nazionale”1) raffredda completamente le attese.

 

Prendiamo due ambiti dove l’integrazione sociosanitaria era prevista: nelle Case della comunità e nella assistenza domiciliare.

Se il PNRR prevedeva in più passaggi Case della comunità con una forte integrazione tra interventi sanitari e sociali, con una stabile presenza di servizi sociali, e di assistenti sociali (al plurale), il Dm 71 parla di una generica “integrazione con i servizi sociali” senza indicare quali e con quale modalità. Tutto fa pensare che essa avverrà con i servizi che stanno fuori, nel territorio: anche perché lo standard di personale per la Casa della comunità Hub (quella più corposa, presente ogni 40-50.000 abitanti) prevede solamente 1 (un) assistente sociale. Un assistente sociale per un tale bacino di popolazione significa che questa figura si limiterà a fare da tramite tra i servizi sanitari interni e quelli sociali presenti sul territorio. Un modello quindi a vocazione sanitaria, con un sociale totalmente ancillare.

 

E ancora, il Dm 71 parla di Punto unico di accesso (PUA) che le Case delle comunità devono assicurare, ma solo in relazione ai servizi sanitari. Per la moltitudine di servizi sociali si prospetta o l’assurdità di un PUA parallelo nello stesso luogo, oppure lo sforzo di una integrazione, lasciata a questo punto alla discrezionalità delle singole Regioni o dei singoli Distretti. Per non parlare delle Unità di valutazione multidimensionale, citate una volta sola in tutto il decreto e mai definite nella loro composizione e funzione2.

 

Relativamente all’assistenza domiciliare, sul cui potenziamento si investono 4 miliardi di euro, il PNRR è stato chiaro: “solo attraverso l’integrazione dell’assistenza sanitaria domiciliare con interventi di tipo sociale si potrà realmente raggiungere la piena autonomia e indipendenza della persona anziana/disabile presso la propria abitazione”. Da anni peraltro molti osservatori hanno evidenziato i limiti dell’ADI erogata dalle Asl: un servizio ridotto a una media di 18 ore di intervento all’anno per utente, limitato nella durata (2-3 mesi) e nelle prestazioni che offre, di tipo prevalentemente infermieristico.

Della prospettiva richiamata nel PNRR, nel Dm 71 non c’è più traccia: ci si riferisce unicamente al potenziamento dell’ADI. La sua rimodulazione (il servizio viene suddiviso in tre fasce, di primo, secondo e terzo livello a seconda dell’intensità assistenziale) in verità non supera i limiti di questo servizio.

 

L’auspicio di molti era e rimane non solo un’integrazione con i servizi domiciliari dei Comuni, ma anche l’allargamento del perimetro stesso dell’assistenza. Perché il benessere della persona non è legato solo a determinanti biofisiche, ma riguarda gli atti della vita quotidiana, l’ambiente e le relazioni sociali, le condizioni dei caregiver, quello delle assistenti familiari. È quanto viene proposto anche dal “Patto per un nuovo welfare per la non autosufficienza”, che prevede una riconfigurazione degli interventi domiciliari dentro una presa in carico di durata adeguata ai bisogni e con un mix di prestazioni possibili.

E invece il Dm 71 tira dritto e punta all’obiettivo di un ADI che raggiunga il 10% della popolazione anziana3, quasi un milione e mezzo di persone: più di quelle seguite da tutte le badanti che lavorano in Italia. Un obiettivo che, anche con un ingente quanto inverosimile investimento su nuovo personale (i soldi del PNRR vanno in conto capitale e non in spesa corrente), rischia solo di riprodurre, su più ampia scala, i limiti attuali: persone che saranno assistite con una durata e una frequenza inadeguate, oltre che con interventi ancora molto prestazionali, disallineati rispetto alle reali necessità di assistenza e di cura.

 

Non rimane che sperare nella (imminente?) proposta di legge delega sulla non autosufficienza che, almeno sui servizi domiciliari, potrebbe rendere superate le indicazioni di questo decreto.

  1. Approvato, dopo lunga gestazione, dal Consiglio dei ministri del 21 aprile, sotto forma di Dpcm.
  2. Lasciando così aperto, e incerto, il delicato tema dell’accesso al sistema dei servizi, oggi molto frammentato e poco trasparente.
  3. L’attuale grado di copertura oscilla tra il 5-6% della popolazione over 65, con ampie differenze tra le regioni.