Ma il futuro non ci aspetta


Sergio Pasquinelli | 4 Novembre 2020

Ritornare alle chiusure non ci riporta ai tempi di marzo, ma fa lo stesso molto male. Perché si accompagna a un misto di sentimenti cupi, tra cui l’impotenza. Eppure il futuro dobbiamo ricostruircelo noi. Da subito.

 

Prolunghiamo misure tampone, risarcitorie, che non potranno durare all’infinito: cassa integrazione, blocco dei licenziamenti, moratoria sui mutui. Prima o poi questi interventi finiranno, e sarà allora che rischiamo seriamente due cose. Un aumento devastante delle diseguaglianze sociali, di spinte regressive e di un aumento dei poveri. E poi, il ritorno a un utilizzo del welfare di tipo assistenziale: la “pezza” da mettere sopra tutti gli strappi che si saranno generati. E invece già oggi dobbiamo iniziare a lavorare su condizioni diverse, perché ciascuna presenta bisogni e possibilità differenti: chi si troverà con più risorse, competenze, relazioni su cui giocarsi il futuro e chi con meno, chi si troverà più autosufficiente e chi meno. Per gli uni e per gli altri dobbiamo pensare a percorsi, strumenti, interventi diversi.

 

“Fare Milano”

Se ne è discusso alla fine di ottobre il programma di lavoro “Fare Milano. Sette temi per progettare insieme il futuro della città”. Sette temi, sette enti che hanno raccolto le sfide con proposte e progetti per disegnare la Milano di domani. Il programma, promosso dal sindaco Giuseppe Sala, si è realizzato attraverso diversi incontri che hanno visto la partecipazione di centinaia di persone, nella seconda metà del mese.

Uno dei temi ha riguardato “I bisogni di Milano”. Coordinato dall’Irs, ha visto coinvolti quasi cento soggetti della società civile, in collaborazione con l’Assessorato ai servizi sociali e alla casa e l’Assessore Gabriele Rabaiotti. I risultati sono stati presentati in un documento costruito insiemee discusso la mattina del 26 ottobre. Qui il documento e qui il video dell’incontro.

 

Non chiudiamo le scuole

“Non chiudiamo le scuole. È una scelta irresponsabile, che non tiene conto delle inevitabili conseguenze su bambini e ragazzi”: è un appello forte e chiaro quello che arriva da Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti e intervistato da Chiara Ludovisi di “Redattore Sociale”.

Un appello che rivolge al governo, alle istituzioni, ma anche ai suoi colleghi, perché prendano posizione in un momento in cui questo proprio sul tema della scuola il governo si divide e si scontra. Da una parte la ministra Azzolina e altri esponenti politici, come la ministra Elena Bonetti, a chiedere che le scuole, anche nell’aggravarsi della pandemia e delle relative necessarie restrizioni, continuino a funzionare in presenza e non solo a distanza. Dall’altra chi invece chiede che la didattica a distanza diventi totale e si estenda anche ai gradi inferiori. E poi ci sono i governatori, De Luca in testa, che con proprie ordinanze dispongono la chiusura: in Campania e in Puglia didattica a distanza per tutti, in altre regioni a casa tutti gli ragazzi delle superiori, in Umbria a distanza medie di primo e di secondo grado, in tutta Italia didattica a distanza nelle superiori almeno al 75%, così come disposto dal Dpcm di fine ottobre.

 

Nel frattempo Francia e Germania hanno compiuto scelte diverse, inaugurando un lockdown a scuole aperte che diventa quindi una possibilità reale.

E proprio la scelta di Francia e Germania è indicata da Novara come una possibilità da considerare e percorrere, mentre “ingiustificabili” risultano le iniziative di Puglia e Campania. “Trovo irresponsabile il pensiero che si possa affrontare la nuova ondata di contagi in Italia chiudendo le scuole – scrive Novara – Trovo irresponsabile che non si considerino le inevitabili conseguenze che questa chiusura avrebbe sui bambini e sui ragazzi: sul loro stato mentale, sulla loro possibilità di una crescita adeguata, sui danni che la mancanza della scuola può creare sul loro sviluppo”. Qui il testo dell’intera intervista.

 

Opinioni diverse sull’isolamento degli ultra 70enni

Fa discutere l’ipotesi di isolare gli ultra settantenni, di isolare gli anziani per ridurre i contagi senza ricorrere a un lockdown totale. Tra le opinioni espresse, due, autorevoli, si esprimono in termini molto diversi.

“Inaccettabile”, peggio ancora: “mortale”. Così Marco Trabucchi, presidente dell’associazione italiana Psicogeriatria, intervistato da “Redattore Sociale” circa l’ipotesi avanzata dall’Ispi. La segregazione dell’anziano è mortale, perché provoca solitudine, senso di abbandono, disperazione – osserva Trabucchi – Si riprodurrebbe la situazione della scorsa primavera, quando gli anziani chiusi nelle loro case hanno mostrato gravi problemi di salute sul piano somatico e psicologico”.

Di altra opinione Chiara Saraceno, intervistata da “Repubblica” il 2 novembre: «Nessuno nega che sia dura. Ma se si dovesse fare una scelta, è evidente che dobbiamo cedere il passo ai giovani. La mancanza della scuola, la clausura domestica hanno già provocato danni enormi sull’apprendimento, sulla tenuta psicologica degli adolescenti, sulla serenità dei bambini. Ho 79 anni, questi sono forse gli ultimi anni buoni della mia vita, da mesi non vedo se non virtualmente i miei nipoti, non viaggio più, il peso della poca libertà cui ci obbliga la pandemia lo sento con forza. Ma di una cosa sono certa: un nuovo lockdown per i giovanissimi, per i bambini, sarebbe una tragedia».

Un confronto di posizioni delicatissimo, dove gioca un ruolo cruciale la dimensione di solitudine che riguarda molti anziani. E infatti la stessa sociologa torinese aggiunge: “c’è bisogno di reti di solidarietà. Di chi porta la spesa a casa, di medici a domicilio, di vicini disponibili, di giovani che si mettano a disposizione dei più vecchi. Tutte misure che dovrebbero già esistere. Perché adesso siamo in piena emergenza, ma il nostro Paese da tempo ha abbandonato gli anziani al loro destino”.

 

Sull’assistenza domiciliare servono proposte

Una parte dei fondi del Recovery Fund, almeno 8 miliardi di euro, andranno alla sanità e andranno spesi entro cinque anni, altrimenti verranno persi. E una parte di questa somma sarà destinata a irrobustire la sanità di territorio, le cure primarie, dentro cui c’è convergenza nel sostenere che l’assistenza domiciliare alle persone fragili e vulnerabili gioca un ruolo cruciale.

Inoltre, la legge 77/2020 (ex dl Rilancio) ha già raddoppiato di fatto per il 2020 le risorse previste per i servizi di Assistenza domiciliare integrata delle Asl (ADI), con 734 milioni di euro che verranno ora ripartiti tra le regioni. In Italia l’ADI offre prestazioni di natura medico-infermieristico di durata limitata: si conta una media di 25 ore all’anno per utente. Il punto è che i bisogni delle persone con disabilità, o non autosufficienti, sono invece continuativi nel tempo e riguardano anche, e sempre più, sostegni e tutele di tipo “sociale”. Non a caso di parla di long term care. Quindi, non è (solo) di più Adi ciò di cui abbiamo bisogno.

In un Webinar che si terrà la mattina del 20 novembre, promosso dal Forum del terzo settore assieme a diverse sigle associative, la cooperazione sociale, i sindacati, Uneba, l’Ordine degli Assistenti sociali, verranno avanzate e discusse dieci proposte di sviluppo delle cure domiciliari. Proposte declinate sulla Lombardia ma che hanno valore ben al di là dei confini di questa regione. Qui il programma dell’incontro.