Perché non parliamo mai dei fallimenti?


Sergio Pasquinelli | 8 Febbraio 2022

Se c’è un argomento tabù nel welfare sociale (e non solo qui) è quello delle cose andate storte. Dei progetti che non hanno raggiunto gli obiettivi, dei fallimenti veri e propri o dei successi in sedicesimo, molto inferiori alle aspettative. Tanto la narrazione pubblica delle cose condotte a fin di bene, alla fine, copre tutto. Con qualche numero raccolto qua e là, a giustificare l’utile e l’inutile.

E così, vessati dalle rendicontazioni e da una montagna di adempimenti amministrativi, non impariamo mai dagli errori, dagli sbagli, dagli inciampi, che invece succedono, possono essere “sani” e potrebbero essere molto istruttivi se condivisi. Perché errori e inciampi sono culturalmente marchiati da una “colpa”, quindi tendenzialmente da nascondere. Il che fa il paio con azioni di valutazione tendenti alla compiacenza e poco inclini a spiegare: per costruire, meglio, dopo.

Tutto ciò rischia di riproporsi nelle molte cose previste dal PNRR e che iniziano a prendere corpo. Piano che sì, prevede una minuziosa azione di monitoraggio. Ma un monitoraggio teso a verificare che le cose per cui si sono spesi i soldi vengano realizzate. Insomma per controllare se ciò che era previsto è stato fatto. Il che non ci dirà mai se ciò che è stato fatto è realmente servito, quanto, e a chi. Due esempi tra i tanti.

 

Primo, le Case della Comunità. Ormai si sta delineando abbastanza chiaramente che queste 1.350 strutture saranno date, in massima parte, dalla riconversione di luoghi già esistenti, più o meno sottoutilizzati, o utilizzati male. Altrettanto chiaramente si delinea che la posta in gioco non riguarderà solo la capacità di essere “della Comunità”, coinvolgendo tutti i soggetti che popolano il loro ecosistema. Riguarderà anche la riorganizzazione dei processi di lavoro interni alla sanità, le connessioni, le capacità e le competenze professionali nel renderle virtuose: tra la medicina di territorio e quella ospedaliera, tra quella di base e quella specialistica. Chi ci riuscirà?

 

Secondo, l’assistenza domiciliare. Il Piano investe oltre due miliardi per potenziarla. Precisando, affermazione che tanti sembrano dimenticare, che

solo attraverso l’integrazione dell’assistenza sanitaria domiciliare con interventi di tipo sociale si potrà realmente raggiungere la piena autonomia e indipendenza della persona anziana/disabile presso la propria abitazione, riducendo il rischio di ricoveri inappropriati”.

 

Il rischio è invece che tutto si traduca in un semplice potenziamento dell’ADI, l’assistenza domiciliare delle Asl, servizio che soffre di gravi limiti di estensione, intensità, confini ristretti entro cui opera, carattere fortemente prestazionale.

Se il fallimento si annida già nel modo in cui il nuovo viene reso operativo, non potremo nemmeno parlare di fallimenti “sani”. Potremo solo prendercela con l’inettitudine di chi non ha osato il cambiamento possibile.


Commenti

La ritrosia o il rifiuto di parlare dei progetti non andati a buon fine è molto diffusa anche in altri ambiti, ed è un peccato, perchè si potrebbe imparare molto, ad es, dalla sperimentazione di un farmaco o un percorso terapeutico dimostratosi non efficace, pericoloso o meno utile del previsto.
Nella progettazione sociale però spesso non si tratta di interventi ben impostati che non avevano preso in considerazione fattori al momento ancora sconosciuti. Purtroppo succede che il progetto parta male (gli esempi dell’articolo sono perfettamente calzanti) o che addirittura sia non falsificabile. Un progetto serio dovrebbe prevedere già in partenza la possibilità di dire “non ha funzionato” sulla base di parametri misurabili. E’tecnicamente molto difficile, perchè l’ambito sociale è perfino più complesso di quello biologico. Ma credo che la vera difficoltà si trovi sul versante dell’opinione pubblica, che premia l’apparenza tangibile e sottovaluta la complessità di una valutazione adeguata