Il nostro Codice Deontologico riporta: “L’assistente sociale riconosce la centralità e l’unicità della persona in ogni intervento; considera ogni individuo dal punto di vista biologico, psicologico, sociale, culturale e spirituale, in rapporto al suo contesto di vita e di relazione”, così nell’ottobre 2024 il Consiglio nazionale Ordine Assistenti sociali (CNOAS) ha aperto il documento sulla posizione della professione in materia di disabilità.
Dopo la discussione scatenata dal Decreto cosiddetto Milleproroghe del 2025 che posticipa al 1° Gennaio 2027 l’applicazione del decreto legislativo 3 maggio 2024, n. 62 “Definizione della condizione di disabilità, valutazione multidimensionale e progetto di vita individualizzato personalizzato”1, passata la sensazione di smarrimento, si ritiene importante delineare cosa significhi per gli assistenti sociali accompagnare le persone con disabilità e le loro famiglie nella costruzione dei loro progetti di vita. Per fare un esempio di cosa significhi “progetto di vita”, pensiamo alla situazione di un giovane con disabilità intellettiva che sogni di frequentare l’università in una città diversa da quella pensata dai suoi familiari che avrebbero scelto per lui un luogo meno dispersivo. La realizzazione del progetto, in questo caso, non può limitarsi a un piano assistenziale, ma deve includere il supporto abitativo, il trasporto, la costruzione di una rete relazionale e universitaria che gli consenta una reale vita indipendente.
A partire dalla Convenzione ONU
Per gli Assistenti sociali che lavorano in questa area, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006 è un faro che accompagna quotidianamente l’agire professionale (Curto, Marchisio, 2020). La piena applicazione della Convenzione, ratificata nel nostro Paese nel 2009, ancora oggi si scontra con vecchie questioni: risorse che non ci sono, organizzazione dei servizi ed interventi che non rispondono più alle esigenze delle persone, integrazione tra sociale e sanitario che fatica ad essere messa in pratica, competenze dei professionisti non pienamente garantite dai percorsi di laurea, necessità per questi ultimi di formarsi, spesso a proprie spese, per riuscire a garantire interventi adeguati alla complessità crescente ed ai cambiamenti (Bartolomei, Rosina, 2023, Bertotti, Fazzi, Rosignoli, 2021).
La Convenzione Onu non riconosce diritti “speciali”, ma ha dato avvio ad una riflessione profonda e sempre più sentita, sulla necessità di passare da un approccio custodialistico e assistenziale ad un approccio basato sui diritti. Quel trattato prevede la possibilità per le persone con disabilità di vedersi riconoscere i diritti di tutti e conseguentemente, per i professionisti, l’obbligo di darne concretezza e attuazione. Nei territori ci sono diverse esperienze di progetti costruiti dalle persone e dalle loro famiglie, dove assistenti sociali, insieme ad altri operatori di professionalità diverse, si spogliano del potere di decidere, sostenendo il percorso di scelta, individuando i sostegni necessari alla realizzazione delle aspettative e dei loro desideri.
Secondo l’approccio anti-oppressivo (Sanfelici, 2024), alla persona deve essere restituito potere decisionale sulla propria vita, al professionista il compito di affiancare, sostenere e guidare l’attuazione delle azioni finalizzate al raggiungimento di un progetto che sia coerente con il desiderio, gli obiettivi: niente di differente da quello che ognuno di noi ogni giorno fa, pianifica, sogna, lotta per vedere realizzati i propri desideri e le proprie ambizioni. Ogni giorno, nel quotidiano i professionisti cercano di pianificare quello di cui tanti oggi parlano, il progetto di vita, costruendolo con il protagonista, cercando di non essere i registri o gli sceneggiatori. Approcciarsi al lavoro in questo modo è per gli operatori molto faticoso, richiede che per riconoscere ed accettare il desiderio dell’altro senza preconcetti, senza limiti, per fare spazio all’ascolto dell’altro, si riconosca e si limiti il potere decisionale autoattribuito o attribuito dall’esterno. Questo potere, se ci pensiamo bene, può essere una delle cause di burnout o dell’appiattimento professionale che trova rifugio nella burocrazia e nell’applicazione di procedure, o nel riempimento delle schede, che, possono rassicurare il professionista e permettono la misurazione del suo operato.
Il diritto di sbagliare
Nella prospettiva confermata dal Decreto di riforma della disabilità, qualità dei servizi non vuol dire standardizzazione, la qualità si raggiunge quando i servizi sono flessibili ed adattabili, quando diventano una sorta di abito sartoriale cucito su misura per la persona (Curto, 2021). Riconoscere l’altro con i suoi desideri e le sue aspettative può essere un’esperienza molto faticosa.
Faticoso è rimanere in silenzio, ascoltare quello che la persona ti sta raccontando, senza giudizio, imparando a gestire l’ansia di dover il prima possibile fornire una prestazione, di dare una risposta. Ma è quello che bisogna cercare di fare, quello che noi assistenti sociali cerchiamo di fare.
Spesso come professionisti dei servizi siamo spinti ad incasellare le persone in proposte precostituite, a pensarle per quel determinato centro diurno, per quella precisa attività di socializzazione, per quel gruppo di co-housing, a valutare se hanno raggiunto quel minimo di competenze sufficienti per poter realmente costruire il progetto di vita indipendente. Ciò che fa di ognuno di noi una persona soddisfatta e realizzata in grado di fronteggiare gli eventi della vita è l’avere ed esser parte di una rete di relazioni. Spesso le persone con disabilità sono prive di questa rete, stanno ai margini, non hanno possibilità di scegliere, quasi fossero degli eterni bambini per i quali c’è sempre qualcuno che sceglie e decide per loro, che siano genitori, familiari, amministratori di sostegno o il sistema dei servizi (Imprudente, 2024). Il compito nostro compito deve essere quello di creare servizi e sostegni che accompagnino la persona a sperimentarsi nel mondo reale, offrendole possibilità di scelta, e anche di sbagliare, al pari di qualsiasi altro.
Faccio un altro esempio: una ragazza con disabilità che desidera vivere con coetanei, partire in estate con gli amici per le vacanze, mentre i genitori protettivi, per paura che qualcosa vada storto, antepongono la loro volontà a quella della figlia. Il lavoro dell’assistente sociale è quello di accompagnare la famiglia in un percorso di fiducia, ascolto e sperimentazione, riconoscendo il diritto a vivere esperienze significative con i pari. Il rispetto dell’autodeterminazione richiede che le persone possano avere l’opportunità di fare esperienze in contesti di vita reali, che possano avere il diritto di sbagliare e che, attraverso i supporti necessari, quei contesti diventino realmente accessibili. Pensiamo per un attimo alle nostre storie, tutto è andato sempre in maniera precisa e lineare? Chi di noi lungo il proprio cammino non ha mai avuto una relazione “sbagliata”, o non ha scelto un lavoro che magari nel tempo ha cambiato, che non ha avuto conflitti con la propria famiglia per la scelta dell’università, piuttosto che per le amicizie o per la scelta di andare a vivere da solo? Ecco ad una ragazza o ad un ragazzo con disabilità tutto questo non è consentito, in nome della sua protezione e della sua fragilità. E il sistema dei servizi, per così come è articolato, rischia di riproporre esperienze di marginalità e di isolamento.
In un processo di trasformazione
Ogni volta che i professionisti assumono la responsabilità, come se fosse un diritto, di scegliere un centro diurno, un inserimento lavorativo, una palestra … sono consapevoli del fatto che potrebbero violare il rispetto del principio di autodeterminazione della persona? Questo non significa che centri diurni, progetti di socializzazione o progetti di co-housing vari debbano essere smantellati o distrutti, ma richiede che si inizi a pensare ad una reale modularità di servizi e interventi in modo che le scelte delle persone non restino imbrigliate nei vincoli di spesa o di rendicontazioni (Merlo, Tarantino, 2018).
L’esperienza di questi anni ci ha dimostrato che anche le persone e le famiglie fanno tanta fatica perché spesso non abituate a pensarsi in una prospettiva futura, sono focalizzate sul qui ed ora, e sul concetto di competenze acquisite o da acquisire e su tutto ciò che è possibile ottenere. Gli stessi operatori rischiano di alimentare il focus sulle competenze, sui limiti e sulle potenzialità. Lavorare secondo pratiche dialogiche permette all’assistente sociale di rimandare alla persona e alla sua famiglia la possibilità di autodeterminarsi per costruire il suo futuro (Arnkil, Seikkula, 2013).
Cosa sta generando il processo di trasformazione che la Riforma disabilità ha inevitabilmente rimesso al centro dell’azione professionale? Abbiamo ancora una volta, come assistenti sociali, l’opportunità di ridare significato al mandato professionale e deontologico. L’esperienza sta dimostrando che da parte delle famiglie, anche se faticoso, c’è un cambio di prospettiva in cui sentono di essere considerate e direttamente partecipi della definizione del futuro dei figli, ma al tempo stesso cambia anche l’approccio nei confronti del servizio sociale professionale: è l’occasione per scardinare quei pregiudizi che ci sono nei confronti della professione.
È un passaggio significativo: prima si cercavano e strutturavano luoghi speciali per la persona con disabilità, dove essa veniva allenata alle competenze. Quanto più i servizi riuscivano ad avvicinare le persone con disabilità al raggiungimento di quelle competenze socialmente richieste, quanto più potevano accedere al diritto alla vita indipendente. Per la società può essere complesso abbandonare questa logica perché tutto è costruito sulla normalità, sull’adeguatezza, competenza, sulla performance e non sulla necessità di creare sostegni e servizi in grado di costruire spazi di vita accessibili a tutti. Nella logica dei diritti spostiamo l’attenzione dalla persona al contesto, creiamo sostegni e servizi che guardino alla persona con disabilità rivolgendosi a lei come cittadina/o. La cosa interessante è che mentre costruisci il progetto di vita, questo processo è in continua evoluzione e definizione, come la vita di ognuno di noi, che cambia in base alle scelte che facciamo e in base al contesto che ci troviamo di fronte.
Bisogna riconoscerlo: il sistema dei servizi che ancora oggi abbiamo, non è certo orientato alla realizzazione dei diritti delle persone con disabilità, ma non sarà questo slittamento dei tempi di attuazione della legge di Riforma a frenare un processo virtuoso che nei diversi territori si è innescato: come professionisti assistenti sociali le esperienze ci dicono che lo possiamo fare e noi, ogni giorno, continueremo a farlo.
- Il Decreto legislativo 62/2024, attuativo della Legge Delega in materia di disabilità, è qui segnalato.