Non autosufficienza, mutualità e soluzioni assicurative: una sfida culturale
Alessandro Bugli | 21 Ottobre 2018
Sebbene non si ponga sempre la massima attenzione al tema, essendo tendenza di tutti noi quella di occuparsi di tematiche apparentemente più immediate e urgenti, il fenomeno della non autosufficienza cresce e crescerà, con conseguenze importanti sullo stesso modo di intendere la nostra società.
La questione sembra tanto lontana da non ammettere neanche un secondo di attenzione, mentre tutti si corre. Eppure quasi tutti (forse ognuno di noi), se ci riflette un attimo, abbiamo vissuto le vicende di un nostro caro non più in condizioni di compiere le primarie attività del vivere quotidiano (alzarsi dal letto autonomamente, lavarsi, vestirsi, uscire…). Il fenomeno della non autosufficienza è parte della storia delle nostre famiglie e delle nostre storie, eppure l’umana natura tende a renderci più interessati di argomenti meno “nostri” e invasivi. E così il tema è spesso appannaggio di specialisti e di piccole coorti di operatori.
La storia ci insegna che sebbene lo Stato, le Regioni e qualche altra realtà caritatevole possano aiutarci – in parte – nel momento del bisogno, a voler essere razionali e realisti, sta innanzitutto a noi di aiutarci e trovare le soluzioni utili in tal senso.
Il welfare su base “familiare” diviene sempre più debole per tante ragioni: disgregazione dei nuclei familiari stessi, riduzione della dimensione delle realtà abitative nei maggiori centri urbani, necessità di conciliare l’attività lavorativa a fini di sussistenza con l’impegno di assistere un proprio caro (legge 104/92 a parte).
La mutualità e l’assicurazione possono aiutare in questo senso? La risposta è, ovviamente, affermativa.
La mutualità (intesa come collettivizzazione, anche non profit, di rischi omogenei afferenti a diversi soggetti) e l’assicurazione (massima espressione della logica mutualizzatrice) possono aiutare a meglio suddividere sulla collettività i pesi dei rischi e bisogni descritti. Se tutti contribuissimo con un piccolo “gettone”, il “tesoretto” accumulato potrà essere utilizzato per aiutare la fascia più bisognosa della nostra collettività. Se imparassimo a accumulare piccoli risparmi, tempo per tempo, su un lungo arco temporale, il nostro salvadanaio potrebbe essere la risposta all’esigenza.
La sanità integrativa di carattere negoziale, destinata ai soli lavoratori dipendenti e legata al rapporto di lavoro, svolge molto spesso un ruolo importante in tal senso. Contribuendo al fondo sanitario di riferimento si avrà anche un importante risparmio fiscale, potendosi dedurre – cioè non vedere tassati – i contributi fino a 3615,20 euro (sfruttando tutta la soglia, per coloro che abbiano una tassazione IRPEF pari mediamente al 30%, è come se lo Stato – a fronte della nostra contribuzione – ci aiutasse a contribuire in misura pari a 723 euro).
Le soluzioni assicurative consentono a tutti di detrarre (cioè ridurre la misura dell’importo dovuto a titolo di imposta) il premio pagato per un massimo del 19% di 1291,14 euro. L’adesione individuale a una società di mutuo soccorso – cioè non in ragione del contratto di lavoro – consente altrettanto a tutti di detrarre la quota associativa al 19% di 1300 euro.
Non basta. Con la Legge di Bilancio per il 2018 si è previsto che: «Non concorrono a formare il reddito [n.d.r. da lavoro dipendente]: […] i contributi e i premi versati dal datore di lavoro a favore della generalità dei dipendenti o di categorie di dipendenti per prestazioni, anche in forma assicurativa, aventi per oggetto il rischio di non autosufficienza nel compimento degli atti della vita quotidiana […] o aventi per oggetto il rischio di gravi patologie». Non costituisce, quindi, reddito da lavoro dipendente il versamento di contributi o premi assicurativi da parte del datore di lavoro a fondi sanitari o compagnie di assicurazione a favore della generalità dei propri dipendenti o categorie degli stessi.
Senza che si abbia ancora il dato aggiornato del successo della previsione appena citata, si può ricordare come la raccolta complessiva registrata l’anno precedente per assicurazioni per la non autosufficienza arrivi a solo 109 milioni di euro su circa 150 miliardi di raccolta premi.
Non si creda, come molti avanzano, che si tratti di un tema di carenza di benefici fiscali. L’ esempio della Legge di Bilancio 2018 a cui segue una totale defiscalizzazione dei premi e contributi versati dal datore di lavoro a favore di forme a sostegno della non autosufficienza e per le malattie gravi, ove l’elargizione sia a favore della generalità dei dipendenti o di categorie di questi, è riprova che, anche in presenza di un’agevolazione senza limiti e senza precedenti in materia, il ricorso verso questi strumenti è ancora troppo contenuto. Quello che manca è un corretto piano di educazione su questi temi (vi è un pressoché silenzio assoluto nelle scuole primarie, secondarie e nelle università, dove le materie del welfare e delle assicurazioni sono dimenticate, al massimo, in qualche indirizzo specialistico di piccola portata numerica in termini di studenti. La materia del welfare, al pari della vecchia educazione civica, dovrebbe essere obbligatoria per tutti i nostri studenti, per consentire loro di comprendere i loro diritti e obblighi, soprattutto quando si troveranno a contribuire o guidare attivamente la loro vita familiare).
Perché questi dati, a fronte di benefici fiscali consistenti? Verrebbe da dirsi, scarsa cultura e difficoltà di raggiungere e convincere le PMI che sono più del 90% del tessuto imprenditoriale e i loro dipendenti. Secondo altri, è una carenza di risorse. Ma – come detto – l’obiezione non regge (o, almeno non regge del tutto) se, con tutto il rispetto per l’attività svolta, sono stimati circa 8 miliardi di spesa in maghi e cartomanti, tra i quasi 200 miliardi annui di spesa oggetto di miglior orientamento stimati da Itinerari previdenziali, forse si può provocatoriamente pensare di utilizzarne almeno un 10% (800 milioni) per i nostri cari e per il nostro bilancio familiare. Certamente un altro aspetto da tenere a mente (ne è un esempio fulgente quello del welfare aziendale) è la difficoltà delle contrattazione collettiva di raggiungere le PMI che costituiscono più del 90% delle realtà produttive italiane.
L’assenza di rappresentanze sindacali in “azienda” (RSA o RSU) non consente di sfruttare a pieno le leve dell’attuale sistema di welfare integrativo in abbinato alla contrattazione stessa. Senza offesa per nessuno, non si può logicamente mettere in discussione il fatto che il contratto di lavoro sia la sede naturale del welfare complementare. Il tutto per una serie di ragioni, prime fra tutte: 1) negoziare soluzione della salute in forma collettiva, consente di contrastare il fenomeno della c.d. selezione avversa, riuscendosi a spalmare su una coorte di età, sesso e stato fisico diverso i costi dei detti rischi. La proposizione si soluzioni retail, ad esempio, per la non autosufficienza attrae solo l’interesse di fasce di popolazione più esposte al rischio, con conseguente crescita siderale dei costi per accedere a simili strumenti; 2) in un Paese come l’Italia, dove il peso fiscale e il c.d. “cuneo” sul rapporto di lavoro tocca picchi da top 10 a livello globale, saper orientare le limitate risorse verso servizi di welfare in forma specifica (attraverso, ad esempio, l’utilizzo del “premio di produttività”) e utilizzare conseguentemente le agevolazioni esistenti, in luogo della resa delle stesse in “moneta” in busta paga, consente di evitare che l’effetto dell’aumento stipendiale sia sovente vulnerato dal diffalco dato dal pagamento delle imposte, con conseguente insoddisfazione del lavoratore e contestuale aumento importante dei costi per il datore di lavoro.
Altro aspetto su cui lavorare è quella di ragionare sull’opportunità di abbinare necessariamente soluzioni long term care con l’assicurazione del rischio RCA. La circolazione è certamente la prima causa di non autosufficienza nelle fasce giovani della popolazione (quelle che in ipotesi di grave invalidità hanno maggiori necessità di assistenza e la più lunga aspettativa di vita in condizione di grave o gravissima difficoltà).
Ora, stante la capillarizzazione e diffusione dell’assicurazione RCA, non c’è dubbio che il costo per garantire questo rischio sarebbe particolarmente contenuto. Ove, poi, l’obiezione fosse nel senso di escludere questa possibilità per ragioni di contenimento dei premi dovuti per assicurarsi dal rischio della circolazione, basterebbe eliminare le imposte ora dovute pur a fronte di un obbligo di assicurarsi e di uno strumento definito dalla stessa Corte Costituzionale come vera e propria assicurazione sociale (la RCA, si intende). La riduzione di gettito fiscale sarebbe ampiamente compensata dagli effetti positivi dell’intervento della soluzione LTC abbinata al premio e a tutela dei soggetti che circolino a bordo del veicolo e dovessero versare in grave stato di salute post sinistro.
Nel più ampio obiettivo di educazione finanziaria di base per il Paese, anche queste tematiche – spesso, troppo spesso, dimenticate (come anticipato) dalle nostre scuole e università – dovrebbero trovare attenzione e facile divulgazione (senza cadere in inutili tecnicismi volti solo ad allontanare i potenziali interessati dall’ascolto). Un esempio, che qui riprendo – pari pari – dal noto studioso della materia Raffaele Bruni, se entriamo in una libreria italiana per visionare e acquistare testi relativi alla materia del welfare complementare, il 99% del consultabile è dato da testi di diritto dedicati ai soli avvocati o magistrati. All’estero, la proporzione è opposta nel senso di trovare molto spesso manuali agili e di interessante lettura su come si crea un sano piano di welfare familiare e come affrontare le sfide che ci occuperanno tutti dal più al meno. Immaginate, anche grazie ala tecnologia, di poter chiare in breve tempo e ad effetto ad un datore di lavoro quali siano i vantaggi dell’utilizzo degli strumenti di cui si discute, anche in logica di fidelizzazione dei propri keyman di impresa. Bisogna, poi, con altro tratto, ma per le stesse finalità, lavorare sui consulenti delle stesse PMI (avvocati e commercialisti in primis, spesso digiuni di nozioni in questi segmenti e portati a consigliare approcci forse utili sino a trent’anni fa).