Non autosufficienza: una riforma rinviata?

Intervista a Cristiano Gori


A cura di La Redazione di Welforum.it | 3 Maggio 2024

Abbiamo chiesto a Cristiano Gori, consulente scientifico di Welforum.it nonché coordinatore del “Patto per un nuovo welfare per la non autosufficienza”, un’ampia coalizione sociale che raggruppa sessanta realtà associative, una valutazione complessiva sull’esito della riforma sulla non autosufficienza (decreto legislativo 29/2024). Il dialogo ha consentito di affrontare elementi relativi al percorso decisionale che hanno accompagnato il processo di riforma negli ultimi due anni, per giungere a un risultato finale che molti giudicano deludente, comunque inferiore alle aspettative.

Perché il Patto parla di riforma rinviata?  

Attesa da un quarto di secolo, la prima riforma nazionale dell’assistenza agli anziani avrebbe dovuto prevedere il complessivo riordino del settore. Con questo scopo, nel 2021, avevamo proposto di inserirla nel PNRR, come poi effettivamente accadde. La Legge Delega (33/2023), contenente i criteri generali per la definizione della riforma, disegnava in effetti un progetto di innovazione completo e condivisibile. Invece, il recente Decreto Attuativo (29/2024), in teoria chiamato a tradurre i criteri della Delega in indicazioni operative, li ha seguiti in modo molto parziale e ha nettamente ridimensionato lo sforzo trasformativo. 

Ecco, allora, il paradosso della riforma: approvata in via definitiva, sul piano formale, e rinviata a tempi migliori, su quello sostanziale. Si potrebbe dire che la riforma è stata introdotta nel 2023 (approvazione della Legge Delega) e rinviata nel 2024 (approvazione del Decreto attuativo).

È stata decisiva l’assenza di nuovi finanziamenti?

No. È vero che non vi sono nuove risorse di natura strutturale, mentre la riforma necessiterebbe di 5-7 miliardi annui aggiuntivi a regime, ma era noto da tempo che nella fase attuale non sarebbero stati disponibili. Il punto da cui partire è un altro: la definizione di un progetto per il futuro dell’assistenza agli anziani in Italia. Tuttavia, per nessuna delle tre misure principali (domiciliare, residenziale, indennità) è previsto un disegno di cambiamento.

D’altra parte, il tema delle risorse serve sovente a non confrontarsi con i problemi. Troppe volte chi critica un governo si concentra solo sull’insufficienza dei finanziamenti, senza illustrare i cambiamenti necessari e – simmetricamente – chi amministra indica proprio tale insufficienza come l’ostacolo insuperabile alla progettazione dei miglioramenti che servirebbero, senza occuparsene.

Volgiamo ora lo sguardo ai singoli interventi, partendo dall’assistenza a casa. Grandi erano le attese per il suo sviluppo

Facciamo un passo indietro. In Italia manca un servizio domiciliare pubblico disegnato per gli anziani non autosufficienti poiché quelli esistenti hanno logiche differenti. Il più diffuso, l’Adi delle Asl, segue la logica clinico-ospedaliera (cure), cioè quella di erogare prestazioni per rispondere a singole patologie in un arco di tempo limitato. L’altro servizio, il Sad dei Comuni, è guidato dalla logica del disagio socio-economico. Nella maggior parte dei casi, infatti, la non autosufficienza non è il criterio di maggior peso per ricevere il Sad, utilizzato per rispondere a situazioni in cui a questo stato si accompagnano anche la mancanza o la debolezza delle reti familiari e/o la presenza di difficoltà economiche.

La Legge Delega (33/2023) prevedeva, appunto, l’introduzione di un nuovo modello di domiciliarità rivolto alla non autosufficienza. Tre i caposaldi: i) durata.  La non autosufficienza si protrae a lungo e, pertanto, il nuovo servizio domiciliare deve essere di durata adeguata; ii) unicità della risposta. La persona è una e unica e, dunque, bisogna assicurare l’azione unitaria di Comuni e Asl; iii) molteplicità di interventi. La non autosufficienza è una condizione multidimensionale, che coinvolge molteplici aspetti dell’esistenza e quindi il nuovo servizio deve prevedere la possibilità di ricevere una pluralità di tipologie di servizi e interventi.

E poi cosa è successo?

Nel passaggio al Decreto attuativo (d. lgs. 29/2024) l’introduzione del nuovo modello di domiciliarità è stata cancellata. È rimasto solo il coordinamento tra gli interventi sociali e sanitari. L’annullamento di questa parte della riforma è tanto più sorprendente se si considera con quale forza, dalla pandemia in avanti, opinione pubblica, media e politici abbiano insistito sulla necessità d’intervenire nei servizi domiciliari.

Come ti spieghi questo esito?

La mia impressione è che il personale dei due ministeri coinvolti, Welfare e Salute, impegnato nella scrittura del Decreto, non se la sia sentita di mettere in discussione il complessivo disegno della domiciliarità in Italia e/o abbia istintivamente tenuto le distanze dal possibile abbandono del percorso tradizionale. Ci si sente più al sicuro mantenendo l’esistente.

Nella Legge Delega la nuova prestazione universale rappresenta la riforma dell’indennità di accompagnamento. Nel Decreto Attuativo, invece, la prestazione è costruita sull’assunto che l’indennità non debba essere riformata. Diventa un intervento temporaneo – per il biennio 2025-2026 – che lascia immutata l’indennità e vi aggiunge ulteriori risorse (850 euro mensili per utente). Un intervento, peraltro, dedicato ad un’utenza assai limitata.

E tra i criteri di accesso, insieme ad un elevato fabbisogno assistenziale, troviamo l’Isee inferiore a 6000 Euro. Si confondono così le politiche di cura delle persone fragili e le politiche contro la povertà, reiterando un fraintendimento presente da sempre nel nostro Paese. Fraintendimento che ha segnato a lungo, ad esempio, le politiche per il sostegno alle famiglie con figli, impedendo che ne venisse riconosciuta la specificità.  Qui parliamo di una politica di cura: pertanto, la possibilità di ricevere la nuova prestazione universale dovrebbe dipendere solo dalla condizione di non autosufficienza (diritto). L’importo, invece, dovrebbe essere graduato in base al fabbisogno assistenziale (equità). Erano le indicazioni della Legge Delega, ma il Decreto attuativo fissa – al contrario – la condizione economica tra i criteri di accesso e prevede un importo uguale per tutti.

Inoltre, la prestazione si colloca nell’antica tradizione italiana di non riformare ma di aggiungere qualcosa all’esistente (in questo caso l’indennità, con i suoi limiti di sempre), lasciandolo così com’è e stratificando il nuovo sopra il vecchio. Si tratta, in altre parole, della rinuncia a governare. Una rinuncia particolarmente critica, considerando che l’indennità assorbe ben il 44% della spesa pubblica del settore, che le sue criticità sono note da lungo tempo e che è immutata dal 1980.La Legge Delega, invece, ne prevedeva la riforma  attraverso un intervento inspirato alle direttrici condivise dal dibattito tecnico, in particolare: i)  mantenimento dell’accesso solo in base al bisogno di assistenza (universalismo), ii) graduazione dell’ammontare secondo tale bisogno, iii) possibilità di utilizzare l’indennità per fruire di servizi alla persona regolari e di qualità (assistenti familiari o organizzazioni del terzo settore), in questo caso ricevendo un importo maggiore.

Perché la riforma dell’indennità di accompagnamento, prevista nella Legge Delega, nel Decreto Attuativo è stata tolta?

L’unica motivazione portata dal Governo consiste nell’intenzione di “mettere in sicurezza l’indennità”. Tuttavia, la Delega prevedeva il mantenimento dell’indennità e la possibilità di optare per la prestazione universale se lo si fosse desiderato. Quindi, l’indennità era già in sicurezza.

L’indennità rappresenta l’archetipo degli istinti di conservazione: per il solo fatto che di essere immutata dal 1980, la possibilità di metterci mano viene avversata. Mi colpisce come, nel mondo politico-istituzionale romano, la riforma dell’indennità sia osteggiata utilizzando, con vigore, argomenti di segno opposto. Secondo alcuni, una simile riforma amplierebbe eccessivamente i diritti e farebbe esplodere la spesa mentre, secondo altri, sarebbe utilizzata per ridurre i diritti vigenti.

I commenti raccolti sul Decreto danno poco spazio alla residenzialità

Non c’è molto da commentare in effetti. La Legge Delega contiene alcune indicazioni per un’opportuna dotazione di personale nelle strutture, la garanzia delle sue competenze e la qualità degli ambienti di vita, cioè gli aspetti principali da affrontare in una prospettiva riformatrice. La situazione, tuttavia, è interlocutoria. Il Decreto attuativo, infatti, non contiene dispositivi concreti per tradurre tali indicazioni in pratica e rimanda ad un successivo, ulteriore, Decreto.

La campagna denigratoria nei confronti della residenzialità avutasi in epoca pandemica si fa ancora sentire?

Nel periodo 2020-2021 questa campagna fu molto forte e impattante. Determinò l’assenza di investimenti destinati alle strutture nel PNRR. Oggi questa campagna pare esaurita in termini espliciti ma la mia impressione è che le scorie siano ancora in circolazione. In particolare negli ambienti dell’amministrazione statale segnati da una robusta distanza dalla realtà e da una debole competenza tecnica, elementi che possono portare con maggiore facilità a ritenere che un anziano debba essere assistito a casa “sempre e comunque”.

Qual è il principale aspetto positivo?

Le principali novità riguardano le valutazioni della condizione dell’anziano, che determinano gli interventi da ricevere. Lo Stato è responsabile della nuova Valutazione multidimensionale unificata (Vamu), che ingloba le diverse valutazioni oggi esistenti per beneficiare delle prestazioni nazionali (indennità di accompagnamento, legge 104/92, invalidità civile). La Vamu è realizzata con uno strumento valutativo di ultima generazione, multidimensionale e standardizzato, informatizzato, in grado di cogliere pienamente la situazione dell’anziano, contrariamente a quelli statali attualmente in uso, poco adatti allo scopo. In base alla Vamu si definisce di quali misure, fra quelle di responsabilità dello Stato, gli anziani e i loro caregiver possono usufruire.

Non cambiano, invece, gli strumenti di valutazione di Regioni e Comuni, titolari delle Unità di Valutazione multidimensionale (Uvm). Queste compiono la propria valutazione – a differenza di quanto accade oggi – partendo dalle informazioni già raccolte con la Vamu e integrandole come necessario per i loro specifici compiti. Tale seconda valutazione è finalizzata a definire il Progetto Assistenziale Integrato (Pai) e a stabilire quali interventi gli anziani e i loro caregiver possono ricevere fra quelli di responsabilità di Regioni e Comuni, sotto forma sia di servizi (domiciliari, semi-residenziali o residenziali) che di contributi economici.

Quali benefici ci si può attendere?

Innanzitutto, viene semplificato il percorso di anziani e famiglie perché si passa dalle cinque-sei valutazioni attuali, tra nazionali e territoriali, a due soltanto: una di responsabilità statale e una di competenza delle Regioni. Inoltre, mentre al momento questi diversi momenti non sono collegati tra loro, i due previsti nel nuovo impianto lo sono e assicurano la continuità del percorso di anziani e famiglie.

A differenza di quanto avviene oggi, l’utilizzo di un nuovo strumento valutativo oggettivo e multidimensionale a livello nazionale permetterà un’adeguata comprensione delle condizioni degli interessati.  È pure previsto il rafforzamento della progettazione: disporre dei risultati della Vamu consentirà alle UVM di potersi focalizzare sulla progettazione degli interventi, la loro attività fondamentale. Nondimeno, è ragionevole attendersi un rafforzamento della programmazione dato che, per la prima volta, grazie alla Vamu avremo profili di utenti comparabili tra le Regioni.

Altri aspetti positivi da evidenziare?

Tre anni fa, le politiche per gli anziani non autosufficienti – come settore specifico e con una propria identità – non “esistevano” per la politica nazionale, che non le vedeva. Dopo il percorso compiuto, oggi esistono e sono riconosciute, al fianco di pensioni, sanità, povertà e così via. Questo in prospettiva è un aspetto chiave.

Inoltre, è vero che nel passaggio dalla Legge Delega al Decreto Attuativo la riforma della domiciliarità e quella dell’accompagnamento sono state cancellate. D’altra parte, era la prima volta che se ne discuteva a livello istituzionale e politico e – trattandosi di cambiamenti profondi – è normale abbiano incontrato opposizioni. Io credo che questo passaggio sia servito a preparare il terreno a successivi sforzi riformatori.

Vorrei evidenziare un ultimo aspetto. La sperimentazione della prestazione universale è pessima sotto tutti i punti di vista, tranne uno. La quota monetaria aggiuntiva deve essere impiegata in servizi, cioè badanti regolari o terzo settore accreditato. Dunque si introduce il principio della trasformazione  dei contributi monetari in servizi alla persona. E’ una novità sulla quale il Patto ha insistito molto in questi anni e che – data la predominanza della componente monetaria nel nostro welfare – ha un notevole potenziale.

Le menzionate riforme della domiciliarità, dell’accompagnamento e dei sistemi di valutazione sono state alcune tra le proposte del Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza. Più in generale, qual è stato il ruolo di questa coalizione sociale?

Il suo ruolo è cambiato nelle diverse fasi. Nei primi mesi del 2021, il Patto ha ottenuto – con un intenso lavoro di proposta e pressione – l’introduzione della riforma nel PNRR, altrimenti non prevista. La Legge Delega approvata dal Parlamento nel Marzo 2023 (Legge 33/2023), a sua volta, recepisce ampiamente le indicazioni contenute in una proposta organica elaborata dal Patto. Venendo al Decreto Attuativo approvato il marzo scorso (29/2024), infine, il Patto aveva elaborato un’ampia mole di proposte per la sua elaborazione ma il Governo non ha ritenuto di prenderle in considerazione.

Sono già trascorsi tre anni dall’inizio di questo percorso ma ho l’impressione che il cammino della riforma dell’assistenza agli anziani in Italia sia solo all’inizio.


Commenti

Intervista – che ho potuto leggere solo adesso – sinteticamente analitica del lavoro svolto dal ‘Patto’, che si presenta anche come un piccolo trattato di sociopsicologia del comportamento politico.
Spero si possa continuare a lavorare in una prospettiva sempre più pratica di adeguamento del tema della non autosufficienza ai nuovi scenari demografici ed epidemiologici, senza per questo trascurare il contesto macroeconomico, ma, da un lato, allontanandosi dai pregiudizi corporativi o ideologici o persino di ‘scuola’ e, dall’altro, mettendo da parte calcoli elettoralistici. Un compito non da poco che esige una forte condivisione d’intenti, magari conquistata nel tempo su un piano di onestà intellettuale, forte competenza e visione realistica, tra tutti i portatori d’interesse.