La pandemia ha riportato all’attualità il tema delle strutture residenziali per anziani. Il dibattito ha assunto toni anche drammatici, riproponendo il tema della limitazione, se non chiusura, delle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA). Al netto delle forzature emotive o ideologiche, è comunque evidente la necessità di ripensare servizi datati o non coerenti con l’evoluzione dei bisogni. Ovviamente, non si può parlare solo dei servizi residenziali. La pandemia ha piuttosto messo in evidenza la debolezza del sistema territoriale e di una sanità orientata essenzialmente sulla medicina specialistica e ospedaliera. In ogni caso, dopo decenni di ridotta o assente programmazione, l’Italia ha accumulato un ritardo notevole rispetto agli altri paesi europei o OCSE. Ad esempio, non esiste alcun surplus di posti letto residenziali, storicamente fra i più bassi in Europa1 e con una tendenza alla loro graduale riduzione (ISTAT, 2018). Questo deficit, comune anche all’offerta semiresidenziale, abitativa sociale e domiciliare, richiederà investimenti consistenti e robuste riforme normative, se si vorrà garantire un’assistenza di qualità, diffusa e personalizzabile.
Cosa si intende per RSA?
Alla luce di questa premessa, quali popolazioni accolgono oggi le RSA? Va innanzitutto chiarito che non è affatto chiaro in Italia cosa si intenda per RSA, in assenza di una definizione univoca e in conseguenza della eterogenea normativa regionale. Parlando più in generale di strutture residenziali, in Italia operano circa 13.000 presidi sociosanitari e socioassistenziali con poco più di 382.000 posti letto. 293.000 posti sono di tipo sociosanitario, l’81% dei quali è dedicato a anziani con diverso grado di autonomia (Istat, 2018; dati al 31-12-2015). Quelle definite come RSA nelle diverse regioni sono solo una minoranza e con attribuzioni operative non omogenee. Le altre strutture residenziali sono più spesso definite case di riposo o strutture protette e molte regioni prevedono una distinzione di ammissibilità degli anziani per livelli differenziati di autonomia. Soprattutto nelle regioni del sud, il quadro è più confuso, con livelli preoccupanti di abusivismo o la diffusione di enti gestori a ridotta qualificazione. Questo fenomeno, però, non è assente anche nelle altre regioni italiane, soprattutto negli ambiti delle mal definite e eterogenee strutture sociali (ad esempio, le cosiddette case-famiglia), spesso agli onori della cronaca per episodi di abuso o maltrattamento. La confusione è elevata e una offerta francamente discutibile può confondersi con singoli esempi di alta qualità umana e professionale. Anche i LEA del 2017 non sono di grande aiuto. Le categorizzazioni non brillano per chiarezza (servizi per persone disabili, disabili non autosufficienti, non autosufficienti o con dipendenze o disturbi mentali) e non è difficile verificare come una stessa persona possa rientrare senza difficoltà, a parità di condizioni, in categorie diverse. In Italia manca anche una definizione univoca di non autosufficienza. In ogni caso i LEA descrivono la sola offerta sanitaria o socio-sanitaria; la mancanza di LEA sociali non favorisce la qualità dell’offerta sociale e crea forti barriere per una effettiva integrazione fra i due comparti. Non ultimo, proprio nelle regioni che hanno meglio normato il sistema residenziale, è stata favorita la ricerca di una buona qualità sanitaria ma anche la diffusione di modelli costruttivi e gestionali ospedalieri, standardizzati e totalizzanti.
Le persone giuste nel servizio giusto?
Sembra comunque utile provare ad analizzare in modo più dettagliato le popolazioni che trovano oggi risposta da questi servizi. Solo per garantire maggiore coerenza a dati nazionali poco affidabili, si utilizzeranno quelli provenienti da un’unica regione, la Lombardia, che ha un sistema di accreditamento consolidato2 e dati pubblici di accettabile qualità. Secondo essi, il 93% dei degenti dei circa 60.000 posti letto di RSA apartiene alla popolazione tipica non autosufficiente, mentre il 5% è accolto nei Nuclei speciali Alzheimer e il 2% in altri sottogruppi (stati vegetativi, SLA in fase avanzata)3. Oltre il 70% dei degenti tipici rientra nella classi SOSIA 1 e 34: grave o totale compromissione delle autonomie motorie e cognitive e elevata comorbidità. Nel 2013 la SIGG regionale ha condotto insieme alla Regione Lombardia un’analisi specifica, utilizzando il sistema VAOR LTCF, uno dei gold standard della valutazione multidimensionale5. Sono stati valutati 3.772 degenti di 74 RSA. L’età media dei degenti è risultata di 85 anni, ma più di un quarto di essi superava i 90 anni, con 44 ultracentenari. L’81% era totalmente dipendente nelle attività della vita quotidiana e poco meno del 60% presentava livelli elevati di compromissione cognitiva. Il sistema VAOR permette di associare i risultati della valutazione multidimensionale con una stima dei tempi di assistenza necessari6. Secondo questa analisi, le popolazioni accolte richiederebbero una media di 1.240 minuti settimanali di assistenza contro i circa 1.100 medi erogati dalle RSA lombarde e ben superiori ai 901 minuti definiti dalla normativa come standard di minima. Con questo tempo, le RSA lombarde potrebbero al massimo gestire le popolazioni più semplici, che rappresentano però circa un terzo della popolazione residente. Paradossalmente è come dire che – allo stato attuale – l’assetto normativo non prevede le risorse umane ed economiche necessarie ad affrontare la popolazione prevalente e, in particolare, quella che dovrebbe risultare più appropriata. Emerge anche un altro dettaglio; i 1.240 minuti settimanali di intensità assistenziale ricavati, derivano dalla compresenza di due sottogruppi di popolazione; uno a bassa intensità assistenziale (672 minuti) e un più consistente sottogruppo a maggiore intensità (1.412). Le popolazioni che richiedono minore assistenza, in altre parole, sembrano rappresentare il “serbatoio” di tempo che permette di affrontare quelle più impegnative. La ricerca ha anche dimostrato la ridotta capacità del sistema SOSIA di discriminare con precisione i bisogni delle persone residenti. SOSIA sembra leggere correttamente la disabilità motoria, ma in modo meno efficace la compromissione cognitiva, la presenza di anomalie del comportamento e l’instabilità clinica; inoltre, non assegna alcun valore alla presenza di bisogni assistenziali complessi: nutrizione e idratazione artificiali, necessità di imboccamento, ossigenoterapia e ventilazione meccanica, lesioni da decubito, malnutrizione, rischio di caduta, fine vita. Problema grave se SOSIA deve guidare la programmazione regionale e l’attribuzione della copertura tariffaria SSN/SSR prevista dai LEA.
Non solo anziani non autosufficienti
Resta quindi da chiedersi se queste strutture stanno rispondendo a bisogni appropriati e perché in esse si trovino anche residenti con apparenti minori bisogni assistenziali. È stata quindi condotta un’analisi personale sui ricoveri nelle 6 RSA gestite in Lombardia dalla Fondazione Don Carlo Gnocchi (2014-2019; 4.876 ricoveri, 2,8 milioni di giornate). L’età all’ingresso dei residenti è molto elevata (moda 91,4) e la durata media dei ricoveri ridotta (circa 19 mesi). Soprattutto nelle annualità più recenti, le persone arrivano a queste RSA con elevati e preesistenti livelli di fragilità e di compromissione fisica e cognitiva; tutti hanno alle spalle almeno 7-8 anni di dipendenza moderato-severa. Nell’ultimo anno antecedente l’ingresso in RSA, si registrano inoltre fino a 4 ricoveri ripetuti ospedalieri e il 50-70% dei residenti arriva direttamente dalle degenze ospedaliere. Per gli anziani soli o con una rete di sostegno naturale non adeguata, l’ingresso è di regola più precoce (l’età media è di otto o dieci anni inferiore a quella della popolazione tipica) e la provenienza è più spesso il domicilio, anche su diretta segnalazione o invio da parte dei servizi sociali comunali. L’autonomia e la complessità clinica all’ingresso di queste persone sono in genere migliori. Si tratta però di persone anziane sole o con una rete familiare molto debole, spesso con un elevato e preesistente disagio sociale o con problemi specifici: ex detenuti, senza fissa dimora, disabili gravi, “dopo di noi”, problemi psichiatrici residuali, dipendenze, ludopatie. L’invio in RSA ha quindi a che vedere con la necessità di una protezione abitativa, di sostegno sociale e di aiuto pratico nella vita quotidiana di base, senza però sottovalutare alcune specifiche necessità di supporto medico e specialistico. Oppure, le RSA vicariano la cessazione della copertura da parte dei servizi per disabili o per la salute mentale per raggiunti limiti di età. Un ultimo capitolo riguarda le popolazioni speciali, ad esempio le anomalie comportamentali dei degenti dei Nuclei Alzheimer, utili ad aiutare le famiglie o superare crisi temporanee o situazioni altrimenti irrisolvibili con le risorse personali. Oppure le persone in Stato vegetativo o con SLA end-stage, che non sono necessariamente anziane ma propongono specifiche complessità bioetiche e assistenziali: ventilazione e nutrizione artificiali, comunicazione assistita, ausili e presidi personalizzati, decodifica specialistica del contenuto di coscienza. La regione Lombardia ha già normato questi percorsi di cura e gli standard collegati; i ricoveri sono già oggi a totale carico SSR e avvengono in reparti specializzati di RSA/RSD con livelli assistenziali molto elevati (fino a 2000 minuti settimanali).
Strutture residenziali o sistemi integrati multiservizi?
Almeno nello scenario descritto, il termine RSA sembra sottintendere una interpretazione riduttiva del loro ruolo e della complessità delle funzioni che oggi assolvono. Alcune delle popolazioni descritte (Nuclei Alzheimer, Stati vegetativi, SLA) richiedono conoscenze e competenze specialistiche delle équipe di cura; la loro azione è fortemente integrata con quelle delle reti sociali o sanitarie e con le associazioni di familiari e di volontario specializzato. Fra la popolazione più tipica, emerge invece la caratteristica storia di vita e di cura delle persone che invecchiano. Per esse, la richiesta di ricovero si genera dopo molti anni durante i quali sono state le famiglie a farsi carico della cura della vecchiaia, supportate soprattutto dalle badanti, con l’integrazione ricorrente ma a bassa intensità dei servizi domiciliari e un ruolo non sempre efficace dei servizi di cure primarie e della medicina specialistica. Con l’aggravarsi della situazione, la sostenibilità fisica, emotiva e economica delle famiglie può essere superata, soprattutto quando diventano più frequenti gli eventi clinici delle fasi avanzate delle malattie croniche e della vecchiaia (infezioni, cadute, problemi di alimentazione, disidratazione, lesioni da decubito), che determinano il ricorrente e probabilmente inappropriato ricorso ai servizi ospedalieri; l’ultimo di questi ricoveri si conclude spesso con l’invio definitivo alle RSA. Questa modalità di presentazione al ricovero, prossima al termine naturale dell’esistenza, è oggi particolarmente frequente, in analogia a quanto avviene da tempo in molti paesi europei7. Anche per questo motivo molte organizzazioni specializzate e società scientifiche sottolineano il tema dei bisogni di cure palliative in RSA e le relazioni da sviluppare fra reti dei servizi per anziani e le reti di cure palliative. Negli anni a venire, emergerà in modo più evidente la rarefazione o assenza delle reti familiari. Già oggi determina il ricorso precoce alle RSA di anziani meno gravi o con migliori autonomie residue. Queste persone potrebbero essere candidabili a servizi semiresidenziali o abitativi di vita indipendente o di vita assistita, se fossero idonei e disponibili. Non a caso, l’invio da parte dei servizi sociali comunali è spesso sofferto o tardivo e legato alla peculiare carenza di queste soluzioni nel sistema di rete. Non vanno neanche trascurati i rischi cui queste persone sono oggi esposte, quando le iniziali limitazioni delle autonomie si associno all’assenza di una rete di supporto: disagio grave, malnutrizione, morte o cadute in solitudine, abusi, spoliazione economica da parte di terzi. La carenza di soluzioni alternative è il vulnus del sistema italiano, che non ha saputo garantire una diffusione di servizi di vita indipendente o assistista intermedi fra la casa e le strutture residenziali più specializzate; in molti paesi le soluzioni abitative sono la vera spina dorsale del sistema di tutela della vecchiaia8, utili anche a restituire efficacia ai servizi di assistenza domiciliare e di cure primarie. Richiedono però una programmazione specifica e una cultura gestionale di qualità; non possono essere lasciate in balia di enti gestori improvvisati o dell’abusivismo dilagante. Non da meno, dovrebbero essere ben supportate dalla medicina generale o da quella specialistica, in una logica di rete effettiva e non di abbandono assistenziale.
Conclusioni
L’Italia ha la necessità di una robusta riforma del sistema di welfare sociale, socio-assistenziale e socio-sanitario. Come si è cercato di descrivere in modo sintetico, le RSA analizzate accolgono popolazioni molto complesse o molto specifiche, comunque diversificate. Rispondono anche a bisogni sociali non adeguatamente sostenuti da altre soluzioni. In molti contesti italiani, le strutture più aggiornate rappresentano già veri e propri sistemi multiservizi (residenziali, specialistici, abitativi protetti, diurni e domiciliari) ben integrati con la restante offerta territoriale. In altre parole, non sono più semplici contenitori indistinti di bisogni residuali, ma esperienze dinamiche e in rapida evoluzione; non raramente, sono anche il centro di servizi più organizzato per la risposta ai bisogni delle proprie comunità. Sono quindi pronte ad affrontare le sfide del futuro, ma meritano di essere riconosciute nella loro efficacia e complessità.
- Oecd.org. Accesso eseguito il 6 giugno 2021
- Scrivi qui il testo della tua nota!In Lombardia, dai primi anni 2000, tutte le strutture residenziali socio-sanitarie per anziani sono state riunite sotto l’unico modello delle RSA. È stata quindi superata la precedente distinzione in case di riposo e strutture protette, oppure fra strutture per anziani parzialmente o totalmente non autosufficienti (NAP e NAT). Sono rigidamente definiti standard strutturali e gestionali e, dal 2014, anche standard di appropriatezza delle cure fornite ai residenti (DGR 1765/2014). Sono inoltre previsti standard specifici per i Nuclei speciali Alzheimer, i reparti specializzati per Stati vegetativi e per gli Hospice. Il sistema prevede indicazioni anche per le Residenze sociali, gli Appartamenti protetti o per forme sperimentali di cure temporanee post-acute. È prevista una più ampia riforma delle Degenze di transizione e Ospedali di Comunità.
- Marchesi V. Regione Lombardia, dati da Scheda struttura, 2014
- Il sistema SOSIA è un sistema di classificazione multidimensionale dei livelli di fragilità, compromissione cognitiva e motoria e comorbilità dei degenti di RSA. In altre regioni sono adottati sistemi diversi, come SVAMA, BINA e VAOR.
- Morris JN. A Commitment to Change: Revision of HCFA’s RAI. J Am Geriatr Soc. 45:1011-1016, 1997.
- Brizioli E. La costruzione di un sistema tariffario per le RSA basato sui RUG. In Pesaresi F. “RSA – Residenze sanitarie assistenziali”. Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2013
- EAPC Taskforce 2010-2012. Palliative care in long-term care settings for older people. EAPC, 2013
- Giunco F. Abitare Leggero. Nuovi modelli di residenzialità per anziani. I Quaderni dell’Osservatorio. Fondazione Cariplo, 2014