Pandemia e migrazioni: discriminazioni, diseguaglianze, resistenze
Fabio PeroccoFrancesco Della Puppa | 1 Ottobre 2021
La Special Issue The Coronavirus Crisis and Migration, della rivista internazionale di migration studies “Two Homelands”, pubblicata dallo Slovenian Migration Institute di Lubiana e scaricabile gratuitamente, costituisce uno dei primi lavori internazionali che esamina a livello globale le conseguenze della pandemia sulle condizioni sanitarie, lavorative, amministrative e abitative di immigrati, emigranti e richiedenti asilo.
I curatori (Francesco Della Puppa e Fabio Perocco, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia) e gli altri autori presentano la situazione in diversi paesi, tra cui India, Bangladesh, Giappone, Grecia, Macedonia del Nord e Italia1.
Il nuovo Coronavirus ha profonde radici ecologico-sociali e presenta diversi aspetti.
In primo luogo, è un sintomo dello stato attuale dell’ambiente, del rapporto tra uomo e ambiente, capitalismo e ambiente. Ed è anche una cartina di tornasole, uno specchio, che mette a nudo i problemi strutturali delle società contemporanee, una metafora della crisi epocale della società odierna.
In secondo luogo, la crisi da Coronavirus ha rappresentato un formidabile acceleratore sociale, un potente fattore d’accelerazione di processi sociali pre-esistenti ad essa, quali l’individualizzazione del rapporto di lavoro, l’atomizzazione dei luoghi di lavoro (e di altri luoghi significativi come scuola e università), la precarizzazione strutturale del lavoro, l’aumento dei working poor, la polarizzazione sociale interna agli stati. Così come un acceleratore di tendenze come il commercio online, le consegne di cibo a domicilio, l’industria dell’intrattenimento domestico, il work-from-home, lo smart working. Questi ed altri fenomeni, precedenti la pandemia, hanno ricevuto da essa un forte impulso, facendo un salto di quantità che, talvolta, è divenuto un salto di qualità, come nel caso della crescita rapidissima e su larga scala della didattica a distanza – che talvolta ha comportato la trasformazione della natura stessa della didattica (per esempio la liofilizzazione dei contenuti dell’insegnamento o la sua trasformazione in prodotto “delivery” e “on demand”). Il 2020, infatti, oltre che “Anno della pandemia globale” o “Anno della paura”, si può considerare anche “Anno della grande accelerazione”.
In terzo luogo, per il capitale la pandemia ha rappresentato un’opportunità per riorganizzarsi, per espandere ulteriormente il proprio raggio di azione, penetrando ancora più a fondo in tutte le sfere della vita sociale. Benché ogni crisi abbia le proprie specificità, nelle crisi e attraverso le crisi il capitale e il sistema socio-economico capitalistico si riorganizzano e, nel far ciò, riorganizzano l’intera società.
Infine, la pandemia costituisce anche un detonatore sociale: fa convergere e aggrovigliare contraddizioni, disagi e rischi sociali. Questo, da un lato, può alimentare il caos sociale, che può tradursi in un peggioramento dei rapporti sociali e in un inasprimento delle condizioni di vita e di lavoro delle popolazioni lavoratrici; dall’altro lato, può tradursi in processi favorevoli di conflittualità e giustizia sociale, tutela dell’ambiente e benessere.
Gli studi contenuti nella Special Issue mettono in luce che, a livello sanitario e sociale, il virus e la crisi da Coronavirus hanno interessato le classi sociali, i settori economici, le professioni, i generi, i Paesi, i territori, in maniera differenziata. La crisi pandemica, oltre ad aggravare le disuguaglianze esistenti, le ha trasformate e ne ha create di nuove. Infine, che l’affermazione secondo cui il Coronavirus sia un grande equalizzatore è ideologica e sbagliata: la possibilità di contrarre il Covid-19, infatti, così come la prevenzione e la cura, la severità e la mortalità, ma anche la vita quotidiana e le condizioni di vita nel quadro della pandemia, sono legati a molteplici e specifici fattori sociali oltre che sanitari.
Nel primo lockdown alcune categorie di lavoratori e lavoratrici hanno avuto un’esposizione al virus particolarmente forte e prolungata: non hanno potuto evitare di recarsi al lavoro, non hanno potuto lavorare da casa essendo occupati in professioni “essenziali” o lavorare in maniera protetta. Alcune fasce di popolazione sono state più interessate dalla trasmissione del virus, non potendo proteggersi in modo adeguato e tenere il distanziamento fisico: disponibilità di abitazioni spaziose, mezzi di trasporto privati, dispositivi elettronici, servizi a pagamento, etc. Anche la suscettibilità alla malattia non è stata uniforme. Il Covid-19 ha seguito e si è disposto lungo le stratificazioni che già attraversavano la società, replicandole ed amplificandole.
Come è già successo in occasione di altre epidemie influenzali, la distribuzione disuguale della morbilità e della mortalità è anche stato l’esito delle disuguaglianze nei determinanti sociali di salute, delle strutture di stratificazione sociale (professione, reddito, istruzione, etc.) e di condizioni sociali impari. Non solo la possibilità di contrarre il virus, ma anche la possibilità di subire gravi complicanze o di morire da Covid-19, e la vulnerabilità che ne deriva, sono legati al gradiente sociale di salute, in definitiva alla classe sociale.
Anche in questa occasione, infatti, si è verificata una sindemia (o, per meglio dire, una pan-sindemia) – definita in letteratura come l’insieme di condizioni endemiche ed epidemiche strettamente correlate, influenzate e sostenute da un complesso di fattori economici e sociali – derivante dall’interazione tra malattia infettiva e malattie non trasmissibili, distribuite in maniera disuguale in base al gradiente sociale. Il Covid-19 ha colpito in maniera più grave gli anziani, ma anche gli individui affetti da altre patologie (ad esempio il diabete, i disturbi cardiovascolari, i tumori, le patologie del sistema immunitario, etc.), le quali sono legate ai determinanti sociali di salute.
Negli Stati Uniti, dove c’è stata una peculiare situazione sindemica, ne costituiscono un esempio: a livello di fattori sociali, i ricercatori sottolineano che il razzismo ha avuto un peso rilevante sull’impatto sanitario del virus e sulle conseguenze sociali della crisi da Coronavirus, con esiti alquanto peggiori per la popolazione afroamericana. Tant’è che il razzismo viene considerato un determinante sociale (o politico-ideologico) di salute, e quindi una questione di salute pubblica.
La condizione generale dei neri e dei “colorati” ha rappresentato l’humus in cui si è sviluppata la sindemia da Coronavirus, con uno stato di salute Covid-correlato più grave tra di essi (ma anche tra latinos e nativi americani). Il razzismo, in quanto elemento strutturale della società statunitense, ha rappresentato un fattore importante nella concentrazione della malattia e della mortalità tra i neri: così come il modello sociale dell’ipertensione e del diabete, anche il Covid-19 risulta legato ad un sistema di oppressione razziale; in pratica il razzismo ha replicato i modelli storici di disuguaglianza all’interno di questa pandemia. Sovra-rappresentati nei lavori essenziali, i neri sono maggiormente interessati da diabete, cancro, patologie cardiovascolari, e queste condizioni di co-morbilità sono una causa dell’alto numero di morti tra questi ultimi. La disparità nei livelli di positività, ospedalizzazioni, co-morbilità, severità e mortalità da Covid-19, è legata alle profonde disuguaglianze storiche che, con la crisi del 2008, si sono acutizzate e, con la pandemia, ulteriormente approfondite: disoccupazione e sottoccupazione, ad esempio, hanno colpito soprattutto neri, latinos, immigrati di breve corso, donne, giovani bianchi. Se si guarda la cartografia dei contagi e della mortalità a New York, si nota la sovrapposizione con i quartieri neri o bianchi. Un altro esempio è il Brasile, dove le disuguaglianze razziali di salute si sono riprodotte in maniera ineluttabile.
Gli immigrati sono risultati particolarmente vulnerabili alla crisi da Coronavirus, per molteplici ragioni: per la loro condizione lavorativa (concentrazione in settori essenziali, lavori manuali e precari), giuridica (status di stranieri), abitativa (spazi limitati e sovraffollati). A livello socio-economico e lavorativo, sono stati molto colpiti da disoccupazione, sotto-occupazione, peggioramento delle condizioni di lavoro, impoverimento, ancora una volta, a causa di vari fattori: forte presenza in settori colpiti dalla crisi sanitaria (come quello alberghiero, della ristorazione o domestico) e frequentemente caratterizzati da diffuse informalità e irregolarità. Sono concentrati nelle mansioni a bassa qualifica, con condizione amministrativa spesso instabile – derivante dal legame tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno – che comporta una subordinazione dei diritti sociali allo status immigratorio. Ancor di più, la maggior parte di essi ha dovuto accettare qualsiasi condizione di lavoro per salvaguardare il posto di lavoro e, quindi, il permesso di soggiorno. Ciò ha intensificato de-qualificazione lavorativa e professionale, de-salarizzazione: in un contesto di disoccupazione e inasprimento delle politiche migratorie, ai fini del mantenimento o ottenimento di un lavoro – necessario per conseguire o rinnovare il permesso di soggiorno –, ancora una volta, si sono adeguati a qualifiche e salari più bassi, orari più lunghi e ritmi più intensi. In alcuni comparti, si sono registrati fenomeni quali l’inasprimento dello sfruttamento lavorativo, l’acutizzazione delle discriminazioni sul lavoro, frequenti focolai di contagio (specialmente nei macelli, negli hub della logistica, nelle aziende alimentari).
Facendo riferimento ai richiedenti asilo, essi hanno vissuto pesanti conseguenze – sanitarie e sociali – dovute alla loro pre-esistente strutturale fragilità sociale. Talvolta, infatti, i centri di accoglienza e i campi di detenzione per rifugiati non sono stati in grado di garantire distanziamento fisico, igiene e sanità pubblica. Oltre al sovraffollamento, spesso i contagiati non sono stati evacuati dalle strutture, diffondendo il virus all’intera struttura. Nella gestione dei positivi più di qualche volta sono state adottate misure difformi e improvvisate.
In molte parti del mondo hanno perso il lavoro o hanno visto crescere il lavoro irregolare. Ciò ha determinato un aumento dell’inattività e della monotonia per chi vive nei centri di accoglienza, specialmente nei lockdown, durante i quali sono cresciuti sovraffollamento forzato, senso di abbandono, abbattimento. Si sono aggiunti l’incertezza del soggiorno dovuta alla sospensione delle domande di asilo e dei permessi di soggiorno, l’indebolimento dello status giuridico prodotto dallo stato di emergenza, la chiusura delle frontiere e dei corridoi umanitari, l’interruzione della fornitura dei servizi di accoglienza e integrazione.
Tutto ciò ha aggravato una situazione già compromessa e deteriorata dalla fatica della migrazione, dalle cattive condizioni psico-fisiche dovute al viaggio e alla vita nei campi, dal clima anti-immigrati che imperversa in gran parte del mondo. Tutto ciò ha inciso negativamente sull’esposizione al virus e sull’inserimento sociale, gettando nel limbo migliaia di persone; in particolare ha pesato sia su coloro che non hanno ottenuto la protezione umanitaria o l’asilo sia sui fuoriusciti dai sistemi di accoglienza e protezione internazionale – i cosìddetti “irregolari”.
Spesso sono stati oggetto di biasimo e stigmatizzazione: le strutture di accoglienza e i loro residenti sono stati additati come degli untori. Alla distorta immagine pubblica del richiedente asilo come fannullone, scroccone e arretrato, si è aggiunto l’elemento del richiedente asilo come “pericolo sanitario”, con conseguenti situazioni di esclusione e razzismo.
Per quanto riguarda gli emigranti in viaggio, la pandemia e le restrizioni alla mobilità hanno ridotto i movimenti emigratori e le partenze, ma, dato che le cause alla base delle migrazioni non sono mutate – anzi con la pandemia si sono approfondite – le partenze sono continuate ancorché in maniera più difficile, più disagevole, più costosa e, ovviamente, più pericolosa.
La chiusura di frontiere, porti e canali legali, l’inasprimento delle politiche migratorie, la situazione di emergenza, hanno peggiorato le condizioni della migrazione – sia di coloro che erano già in cammino sia di coloro che sono partiti durante la pandemia. Il risultato è che le persone sono rimaste bloccate nei paesi di transito, ai varchi di frontiera, con pochi mezzi di sussistenza, scarso accesso ai servizi; una parte dei movimenti migratori sono scivolati in un limbo nebbioso, sempre più nelle mani di trafficanti e organizzazioni criminali e tutto ciò ha aumentato il rischio e i casi di maltrattamenti, stupri, violenze, rendendo queste persone ancora più vulnerabili.
Infine, oltre alla disuguaglianza vaccinale tra Nord e Sud del mondo – che potremmo definire in termini di “imperialismo vaccinale” –, i primi studi mettono in luce come la disuguaglianza vaccinale colpisca gli immigrati – specialmente quelli più precari. Questo è un aspetto su cui bisogna riflettere e che potrebbe aprire nuove piste di ricerca. Ecco che, quindi, a distanza di meno di un anno dall’uscita di questa prima parte della Special Issue su Coronavirus Crisis and Migraton: Discrimination, Inequalities, Resistance, la rivista “Two Homelands” ospiterà una seconda parte per approfondire nuovi aspetti del fenomeno e per mostrare le diverse evoluzioni dell’intreccio tra pandemia e migrazioni.
- Nello specifico, la Special Issue si apre con un contributo di Fabio Perocco, che offre un inquadramento globale sulle cause ecologico-sociali della pandemia e i suoi effetti sulle popolazioni emigranti e immigrate. Successivamente, Arun Kumar Acharya e Sanjib Pate avanzano un’analisi della vulnerabilità sociale e sanitaria degli emigrati di ritorno dal così detto “Medio oriente” all’India. Yasmin Saikia si concentra sulle discriminazioni e il razzismo, nei confronti della popolazione musulmana in alcuni Stati dell’India, esacerbati durante il lockdown. Mohammad Riduan Parvez, invece, affronta il caso dello stigma che colpisce gli emigrati di ritorno in Bangladesh. Nicola Costalunga analizza l’inasprimento delle politiche migratorie giapponesi. Reena Kukreja mostra come la crisi da Covid-19 abbia comportato il peggioramento delle condizioni lavorative ed esistenziali dei braccianti agricoli bangladesi, occupati nella raccolta delle fragole in Grecia. Marina Cenedese e Ivana Spirovska propongono una comparazione tra due casi etnografici che indagano da vicino l’inasprimento delle diseguaglianze scolastiche che colpiscono i figli degli immigrati in Italia e nella Macedonia del Nord. Paola Bonizzoni e Senyo Dotsey mostrano come il sistema della stratificazione civica incorporato nelle politiche migratorie italiane abbia interagito con la crisi pandemica. Davide Filippi e Luca Giliberti si focalizzano sulle contraddizioni del sistema di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati palesate dalla crisi da Covid-19 in Italia. Stefania Spada affronta il tema delle “navi quarantena”, un vero e proprio dispositivo di esternalizzazione delle frontiere. Infine, Giulia Sanò e Omid Firouzi Tabar propongono, anch’essi, una comparazione tra due studi etnografici, condotti a Nord e Sud Italia, relativi alle tendenze “infantilizzanti” e di controllo proprie del sistema di accoglienza.