Part-time involontario nel Sud Europa. Una nuova forma di precarietà per le donne?
Lara Maestripieri | 21 Ottobre 2019
Conseguenze inaspettate
La maggior parità sul mercato del lavoro è dovuta solo in parte ad un incremento di partecipazione delle donne al mercato del lavoro e, in parte, ad una perdita di impiego che soprattutto nei primi anni della crisi si è concentrata prevalentemente nei settori a maggiore partecipazione maschile, come le costruzioni e la manifattura (Cucca e Maestripieri, 2015). Peraltro, l’industria è da sempre caratterizzata da un impiego con buoni condizioni contrattuali: spesso, si tratta di un lavoro a tempo pieno e in forma dipendente. Inoltre, in questo settore sono meno diffuse forme di precarietà contrattuale. La perdita di impiego manifatturiero ha anche comportato una progressiva de-standardizzazione del mercato del lavoro: la crescita dei contratti non-standard (tempo parziale, le varie forme di lavoro temporaneo, il lavoro autonomo) è un trend di lungo periodo che deriva dalla trasformazione post-industriale, ma che la crisi ha ulteriormente accentuato (Firinu e Maestripieri, 2019).
Soprattutto in Italia, studi precedenti (Reyneri e Pintaldi, 2013) hanno dimostrato come durante gli anni della crisi l’impiego femminile ha tenuto anche per una domanda crescente nei servizi manuali a bassa qualificazione, soprattutto orientata alla cura delle persone. Questi settori sono anche quelli che facilmente offrono le peggiori condizioni di lavoro: un numero di ore settimanali mediamente molto basso, bassi salari, scarse possibilità di carriera e, spesso, contratti temporanei. Normalmente sono settori a prevalenza femminile, se non caratterizzati da una forte segregazione delle donne al loro interno. È naturale chiedersi di che tipo è il lavoro femminile che è stato creato negli ultimi anni e se ad un maggiore impiego delle donne è corrisposta una maggiore qualità del lavoro femminile.
Il progetto VINE
“Social Vulnerability and its Intersections: The role of gender in a comparative perspective” (VINe)1 è un progetto finanziato nell’ambito del programma Marie Skłodowska-Curie Actions dell’Unione Europea. Lo scopo del progetto è identificare in che modo l’insicurezza economica della famiglia è mediata dalla qualità del lavoro delle donne, con un focus specifico sul part-time involontario nel Sud Europa. Le analisi condotte nell’ambito di VINe dimostrano come nel Sud Europa ci sia stata una crescita del part-time sul totale dell’impiego, concentrata soprattutto tra giovani e donne. Tuttavia, il punto critico è che la maggior dei nuovi contratti part-time che sono stati creati sono involontari: sempre più spesso donne e giovani si trovano ad accettare un lavoro a tempo parziale perché non sono stati in grado di trovare un impiego equivalente a tempo pieno. Nel Sud Europa questa crescita è stata esplosiva negli anni della crisi, come si può vedere dalla figura 1. Il 60% dei contratti part-time delle donne è involontario in Italia e Spagna (il 40% in Francia); per gli uomini, la percentuale di part-time involontario si aggira intorno al 70/80% a fronte però di un numero inferiore di occupati maschi a tempo parziale, molto spesso concentrati tra i più giovani.
Figura 1 – Percentuale di part-time involontario sul totale part-time. Uomini e Donne (25-64 anni). Fonte: Eurostat ELFS Microdati, 2000 – 2016.
Lavoro debole, ma non per tutte
La condizione di impiego non-standard involontario è una forma di sotto-occupazione, o parziale disoccupazione (Bodnár, 2018) che configura una forma di precarietà più sottile di quelle che ci siamo abituati a definire in questi anni. Più che di fragilità nell’ingresso e permanenza del mondo del lavoro (legati a contratti parasubordinati o temporanei), si tratta di una presenza ridotta nel mondo del lavoro involontariamente subita dalla lavoratrice. Questo può comportare a livello individuale basso salario e scarsa indipendenza economica, il rischio di cadere nella condizione di lavoratore povero, minori diritti di welfare in un sistema come il nostro dove la protezione sociale è una funzione diretta dell’attivazione individuale nel mercato del lavoro (Ferrera, 1996). Il tutto non scelto, ma subìto da chi è occupato involontariamente part-time.
Oltre alla sua volontarietà, un contratto a tempo parziale nasconde altre insidie. Come già identificato da tempo nel dibattito (Tilly, 1992; Hakim, 1995) quando un contratto part-time ha un numero estremamente ridotto di ore diventa di per sé un problema di povertà e scarsa capacità della persona di essere economicamente indipendente grazie al suo lavoro. A questo si aggiunge, la crescita di contratti part-time che solo nominalmente sono a tempo parziale, ma che di fatto nascondono un numero di ore abituale del lavoratore a tempo pieno: questa fattispecie di “bogus” part-time è resa possibile da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, che consente di fare in straordinario fino al 25% delle ore contrattuali del part-time. “Bogus”, letteralmente “finto” in inglese, è un termine introdotto nel dibattito da Pedersini e Coletto nel 2010 per descrivere le finte partite IVA, ovvero quei lavoratori autonomi che erano tali perché obbligati dal datore di lavoro, pur svolgendo di fatto un lavoro da dipendente. Per analogia, nel testo da cui questo articolo è tratto (Maestripieri e León, 2019) chiamiamo bogus quei lavoratori part-time che solo contrattualmente sono a tempo parziale, ma che di fatto abitualmente svolgono un lavoro superiore alle 30 ore settimanali. Il bogus part-time è un modo per flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro, usando il contratto part-time non come una libera scelta del lavoratore ma come uno strumento per adattare il lavoro alle esigenze del datore di lavoro.
La somma di queste tre forme di part-time (involontario, con meno di 10 ore/settimanali, il bogus part-time) raggiunge spesso la quasi totalità del part-time tra le donne senza figli e è maggiormente elevato per le donne più giovani e a bassa istruzione. In questo caso, i dati analizzati da VINe dimostrano che il 90,3% del part-time svolto da donne tra i 25 e i 34 anni, con la scuola dell’obbligo e senza figli, è composto da fattispecie di part-time a rischio di marginalizzazione e precarietà. Anche nel caso opposto, maggiormente favorevole, in presenza di una laurea, di un’età già più elevata (35-50) e sempre senza figli, 77,7% dei casi si tratta di part-time cosiddetto marginalizzato. In presenza di figli, cresce il numero di donne (ma non di uomini) che sceglie il tempo parziale per motivi di conciliazione: i valori oscillano tra il 23,5% e il 36,7% a seconda dell’età e dell’istruzione della donna occupata. Ma stiamo davvero parlando di una scelta volontaria delle donne?
La cronica mancanza di servizi educativi per l’infanzia
Su Welforum.it si è già ampiamente dibattuto come in Italia sia molto scarsa l’attenzione alle politiche parentali egualitarie e l’investimento sui servizi educativi all’infanzia (Saraceno 2019; Sabatinelli 2019; Dodi, Guidetti e Sabatinelli 2019). Questa mancanza cronica rende quantomeno complesso definire come scelta volontaria la scelta quasi sempre esclusivamente femminile di ridurre il proprio tempo di lavoro in presenza di figli in età prescolare. I dati – sempre Eurostat – dicono che è quantificabile in almeno il 5% del totale del lavoro part-time quello che viene subìto dalle donne tra i 25 e i 50 anni per mancanza di adeguati servizi di conciliazione (Eurostat ELFS, microdati 2016). Ancora più preoccupante è quello stesso 5% di donne che sono inattive per la stessa ragione.
In ogni caso, indipendentemente dalla volontarietà o meno della scelta, è quasi sempre la donna che riduce l’orario di lavoro, per via di una disuguaglianza nel lavoro di cura tra generi che persiste nelle generazioni e a fronte di un maggiore coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro, ma anche per ragioni più razionalmente economiche visto che sono le donne quelle che all’interno della coppia guadagnano meno. Le donne dunque pagano il prezzo di vedere le proprie carriere rallentare, il proprio salario diminuire e di conseguenza il rischio di avere diritto a sussidi più ridotti in caso di perdita del lavoro o a pensioni inferiori, una volta uscite dal mercato del lavoro. La maternità accresce, ma non è la sola causa del disagio lavorativo delle donne.
Mettere in discussione il part-time come panacea per la doppia presenza
Spesso il contratto a tempo parziale viene proposto nel dibattito politico come la soluzione ai problemi delle donne, di fatto ridotti a una mera questione di conciliazione del lavoro con la maternità. Gli studi condotti in VINe dimostrano che la maternità può intervenire a rendere più difficile una condizione lavorativa che è di per sé già problematica per le donne. La maggior presenza femminile nel lavoro non-standard non è una scelta volontaria: spesso viene subita per via delle scarse opportunità offerte dai mercati del lavoro locali, peggiorate da una crisi che ha ulteriormente degradato una domanda di lavoro che da sempre in Italia è poco qualificata e particolarmente segregata per le donne. Bisognerebbe aprire un dibattito serio sull’eterogeneità delle condizioni lavorative che si nascondono dietro il tempo parziale e affrontare il problema del lavoro femminile anche dal punto di vista della qualità del lavoro offerto alle donne.
Questo articolo è una versione ridotta e rivista del capitolo scritto con Margarita León “So close, so far? Part-time employment and its effects on gender equality in Italy and Spain“, pubblicato nel libro edito da H. Nicolaisen, H. C. Kavli and R. Steen Jensen (eds.) Dualization of part-time work. The development of Labour Market insiders and outsiders. Bristol: Policy Press, 55-85.