Gli stakeholder nel campo della disabilità (II parte)


Marino Bottà | 17 Dicembre 2019

In Italia il sistema del collocamento delle persone disabili si affida ad alcuni soggetti sociali: il Collocamento Disabili o Mirato delle Province, i servizi per l’inserimento lavorativo (Sil),  i servizi sociali e socio-sanitari dei Comuni e delle Asl, le cooperative sociali, le Agenzie per il Lavoro (Apl) e ultimamente alcune associazioni dei disabili. Tutti questi servizi spesso svolgono le loro attività in “Rete”, elaborano progettualità e collaborazioni attraverso “Tavoli tematici”.

I servizi per l’inserimento lavorativo

La costituzione dei primi servizi per l’inserimento lavorativo (Sil) risale alla fine degli anni ottanta, in pieno regime della legge  482/1968. Una legge burocratica, gestita in modo vessatorio contro le aziende, e inefficace ai fini dell’inserimento lavorativo delle persone disabili.

I servizi di accompagnamento al lavoro, denominati in vario modo (Sil, Nil, Sisl, Uoil, ecc.) ebbero origine dal dibattito sul declino dei principi egualitari del Sessantotto e dal fallimento del Collocamento Obbligatorio ministeriale. I Sil si svilupparono spontaneamente all’interno dei Centri di Formazione Professionale e nei servizi sociali e socio-sanitari locali.

Nell’anno 2000, la riforma del Collocamento e il passaggio di competenze dal Ministero alle Regioni e alle Province, nonché il varo della legge 68/1999 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili“, causarono il declino dei  Sil. Molti chiusero l’attività, altri  si occuparono dei soggetti disabili più fragili, altri ancora si orientarono verso le fasce deboli indicate dalla legge 381/1991 (tossicodipendenti, soggetti psichiatrici, detenuti e minori). La crisi economica del 2008 peggiorò ulteriormente la situazione, diminuirono le risorse economiche e la disponibilità di posti di lavoro. La disoccupazione colpì ampi strati di popolazione e la povertà coinvolse nuovi strati sociali; i servizi che si occupavano di inserimenti lavorativi  furono costretti dalle loro amministrazioni ad occuparsi delle emergenti categorie di fragilità sociale (adulti indigenti, giovani, ecc.).

 

L’azione dei Sil consiste nel prendere in carico le fasce deboli del mercato del lavoro, e nel realizzare un percorso di accompagnamento e inserimento. A tale fine viene elaborato un “Progetto di Accompagnamento Individualizzato (PAI)”, in cui sono declinate tutte le azioni necessarie. I Sil spesso agiscono in completa autonomia: promuovono la valutazione funzionale, l’orientamento al lavoro, la ricerca del contesto lavorativo, l’incontro domanda/offerta e la consulenza all’azienda, non avendo tuttavia tutte le necessarie competenze. A mio avviso, i percorsi di accompagnamento non dovrebbero appartenere ad un solo operatore sociale. C’è chi ha esperienza nel campo della formazione, chi nell’accompagnamento al lavoro,  chi nel mercato del lavoro. Ogni servizio ha una  propria storia, esperienza e competenza, diverse e consolidate. Tutto ciò costituisce la sua identità e la sua ricchezza che  dovrebbero essere valorizzate, potenziate e messe in comune. Questo atteggiamento autarchico subordina il bene comune all’interesse privato di un singolo servizio. Gli altri servizi  non sono  vissuti  come collaboratori, ma come  concorrenti che possono limitare o addirittura sottrarre possibilità e risorse. Induce inoltre ad un atteggiamento di chiusura verso l’esterno che causa la perdita di un reale rapporto con la realtà, con la necessità di confronto e di aggiornamento. Gli operatori dei Sil sono in ostaggio alla loro attività quotidiana e alla paura di perdere quanto, a fatica, conquistato. Vivono costretti in un immobilismo che li porta ad una accettazione dello status quo, a subire negativamente ogni  cambiamento esterno e a osteggiare qualsiasi nuova collaborazione che si propone sul loro territorio. Per riprendere il percorso e rilanciare i Sil, su basi solide e prospettive certe, è  necessario soffermarsi sulle contraddizioni che li hanno caratterizzati e che ne hanno indebolito l’efficacia e quindi l’utilità sociale.

 

I servizi sociosanitari

Per servizi sociosanitari ci si riferisce: al Centro Psico Sociale (Cps), al Servizio per le Tossicodipendenze (Ser.T) e al Nucleo Operativo Alcologia (Noa). Sono servizi che hanno in carico tossicodipendenti, alcolisti, e soggetti psichiatrici (spesso in possesso di una certificazione di invalidità civile) e ne curano gli aspetti sociali. Non si occupano di lavoro sempre e in modo omogeneo, a livello territoriale. In alcuni casi collaborano con gli enti e servizi preposti, in altri hanno strutturato uno staff specifico che cura gli inserimenti lavorativi. Questi ultimi dispongono di personale dedicato (psicologi, assistenti sociali, educatori) in grado di elaborare percorsi di accompagnamento al lavoro personalizzati.

Purtroppo i risultati conseguiti non sono soddisfacenti e commisurati agli sforzi e agli oneri economici sostenuti. La mancanza di una strategia adeguata, la scarsa conoscenza del mercato e del mondo del lavoro e la difficoltà nel farsi comprendere dalle aziende hanno compromesso i risultati. A questo si accompagna una errata visione “eliocentrica” del servizio e dei suoi utenti che li porta a rivendicare diritti verso un mondo che non li capisce e li rifiuta a priori. Ne consegue un ripiegamento auto assolutorio. Sono gli altri a non capire, a non accettare e a non volere assumere una persona con disabilità.

 

Pur comprendendo il loro punto di vista, non ho mai condiviso i loro comportamenti. Se si entra nel mondo profit, lo si deve conoscere, occorre comprendere le dinamiche e le regole che lo caratterizzano, si devono sviluppare azioni efficaci e un adeguato marketing sociale. Quando si parla con l’azienda che dovrebbe accogliere il lavoratore debole bisogna saper presentare i punti di debolezza e di forza della persona e far comprendere i vantaggi che deriverebbero da una sua assunzione. Si deve fare in modo che “l’Altro” la accetti, che condivida i bisogni della persona e quelli del servizio. Ognuno dei soggetti in campo è portatore di bisogni diversi. È compito del tutor/mediatore condividerli rispettando le finalità e gli obiettivi di ognuno. Spesso le poche disponibilità incontrate, vengono bruciate da un errato approccio o dall’uso di un  linguaggio incomprensibile per l’azienda. Mai come nel caso delle persone definite a doppia o tripla diagnosi si deve invertire il paradigma, ossia partire dalla azienda e non dalla persona svantaggiata.

 

Alcuni anni fa gli operatori di un servizio mi chiesero un elenco di aziende da contattare per inserire alcuni loro utenti. Diedi i riferimenti di quarantacinque aziende. Non ottennero alcuna disponibilità; nemmeno da parte della ditta che aveva assunto poco tempo prima un disabile con una percentuale di invalidità del cento per cento, tossicodipendente, detenuto e con una prognosi nefasta per un tumore. Spesso non sono le aziende a non essere disponibili, ma sono gli operatori a non sapersi rapportare con loro. A volte, a tutto questo si aggiunge la rivendicazione di un incomprensibile “diritto di prelazione” e di protezione dell’utente, che porta i servizi sociosanitari a non avere una corretta e adeguata collaborazione con il Collocamento Disabili e con i Sil territoriali. Ricordo un pomeriggio quando ricevetti a colloquio una persona disabile/alcolista, in carico al Noa. Si sedette lontano dalla scrivania, in una posizione non correttamente frontale. Ad un certo punto, visto l’eloquio e l’odore di mosto che si era diffuso nell’ufficio, gli chiesi se avesse bevuto. Negò e si difese dicendo che aveva acquistato un dentifricio al gusto di uva. Quando lo riferii all’assistente sociale del Noa mi rispose che sicuramente era così come lui aveva detto. Non poteva aver mentito!

L’insieme di questi comportamenti porta i servizi sociosanitari all’isolamento, e all’autoreferenzialità. Si rafforzano indirettamente i pregiudizi delle aziende e si favorisce l’affermazione di una pleiade di soggetti accreditati al lavoro e non, in grado solo di procacciare persone disabili–abili per i loro clienti. Dico questo con amarezza, in quanto ho una profonda stima del loro operato e della passione che la maggior parte degli operatori mettono nel lavoro quotidiano. Sarebbe, a mio avviso, estremamente utile un loro aggiornamento sui temi del mondo del lavoro, sul mercato, sulle leggi, sulle agevolazioni.

 

Le associazioni

“Vede quello dietro di me, è un invalido”. Alle spalle dell’imprenditrice con cui ero a colloquio c’era solo una parete bianca con appeso un quadro. “Scusi, ma non capisco”. “Mi riferisco al quadro. L’ho acquistato da una persona (mi disse a chi si riferiva) che in cambio mi ha liberato da un invalido avviato dal Collocamento Obbligatorio”. Potrei raccontare tanti aneddoti di questo tipo per illustrare un mercato storico di cui tutti avevano conoscenza e dove molti si erano ritagliati un proprio spazio. Il mercato legato alla disabilità/lavoro era fiorente fino all’inizio dell’anno duemila, prima dell’avvento della legge 68/99. Finalmente la nuova normativa attribuì un ruolo a tutti i soggetti sociali; tutti erano coinvolti nella gestione del sistema del collocamento. Si costituirono organismi collegiali quali la Commissione Unica Provinciale, il Sottocomitato Disabili, il Comitato Tecnico erano infatti  luoghi di confronto e di controllo, e indirettamente di stimolo per gli uffici provinciali. Col passare del tempo, questi organismi si sono svuotati di interesse e competenze. Le riunioni si sono sempre più diradate e i delegati si trovano ad esprimere parere unicamente su decisioni già prese dagli uffici competenti. Questa situazione si è creata per implicita volontà delle Provincie e per un parallelo disinteresse da parte delle associazioni imprenditoriali, sindacali e dei disabili.

 

Oggi anche il mondo delle associazioni è cambiato ed è mutato il rapporto con la disabilità/lavoro: il sindacato è sempre più presente nella tutela individuale del lavoratore anziché nelle battaglie di diritto e di cultura. Le associazioni imprenditoriali sono meno attente ai bisogni collettivi dei loro associati ed evitano qualsiasi contrapposizione con gli enti preposti. Molte associazioni hanno spostato la loro attenzione verso le tutele sanitarie, assistenziali, pensionistiche, scolastiche a scapito del lavoro. Tutto questo fa si che il sistema del collocamento sia sempre uguale a se stesso e ogni volta che si tenta di imporre un cambiamento esso viene vanificato in modo da ritornare alla tradizionale e oramai soporifera e inefficace normalità. Ecco che i provvedimenti normativi non sortiscono l’effetto desiderato e i servizi periferici continuano a rispettare norme, procedure e prassi cristallizzate, impermeabili a qualsiasi trasformazione sociale. Le associazioni più rappresentative sono comunque presenti negli organismi provinciali del collocamento disabili, ma spesso i delegati non sono sufficientemente preparati sul tema lavoro, non conoscono le norme di legge e non comprendono la ricaduta sociale di certi comportamenti degli uffici e servizi competenti. Si consuma così un rituale che esalta la semplice presenza e l’autoaffermazione ovvero dà spazio alla presentazione di proposte e richieste anacronistiche, a volte lesive dei reali interessi dei propri associati. Si indebolisce tutto il sistema di rappresentanza, non si riesce ad essere propositivi né a garantire strumento di pressione sociale e di controllo.

Le associazioni dei disabili rischiano di riproporre strategie, strumenti ed idee oramai superate o ad effetto pubblicitario. La cultura inclusiva, tuttavia, non si manifesta con la semplice presenza a scuola, sui mezzi pubblici, nei posti di lavoro nelle fiction e nella partecipazione ad iniziative locali. La cultura inclusiva vive nei piccoli atti quotidiani nei gesti delle persone che li incontrano, nelle minute condivisioni di spazi di tempo, di emozioni. La pietà, la disponibilità, l’accoglienza non evidenziano il livello di inclusione, non sono questi gli indicatori. La diversità lascia il posto all’inclusione quando non suscita attenzione e stupore, quando si ha l’oblio della diversità che caratterizza il compagno di vita, di casa, di lavoro.

Ci sono altri aspetti negativi comuni nelle associazioni di rappresentanza sindacale, imprenditoriale e delle persone disabili, e sono: la scarsa conoscenza della legge e la non comprensione della operatività dei servizi per il Collocamento Disabili. Bisogna preparare e aggiornare chi rappresenta la disabilità/lavoro. Lo scarso successo della legge 68/1999 è in parte dovuto a questi rappresentanti, figure presenti nei vari organismi di indirizzo, decisionali e normativi a livello provinciale, regionale e nazionale; essi non hanno alcuna esperienza diretta del mondo del lavoro e a volte ricercano soluzioni che sono  già presenti nella società.

 

Le reti per il lavoro

Il Decreto legislativo 151/2015, attuativo del cosiddetto Jobs Act, indica la necessità di promuovere: “Una rete integrata con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio”.

Con il termine “Rete per il lavoro” si intende un soggetto sociale composto da più enti accreditati e non (associazioni, cooperative, agenzie per il lavoro, ecc.) che collaborano nella gestione di servizi, progetti, azioni a favore delle politiche attive per disabili. La loro operatività si traduce nella presa in carico di persone disabili e nella realizzazione di  percorsi di accompagnamento individualizzato (Pai).

Ogni componente della rete cura autonomamente l’intero processo di collocamento, ritenendo, erroneamente, di possedere tutte le professionalità necessarie per l’orientamento, la formazione, il tutoring, l’incontro domanda/offerta lo scouting e le consulenze aziendali. Questo ha fatto si che si creasse un insieme sterile di autoreferenzialità, autarchia, concorrenzialità e confusione di ruoli. Le reti, per elezione, dovrebbero essere dei sistemi territoriali coordinati, sinergici ed efficaci, composti da tutti i soggetti sociali, in grado di offrire un contributo alle politiche attive per le persone disabili. Considerato che i singoli soggetti sociali che partecipano alla rete non possiedono tutte le professionalità necessarie, le istituzioni e gli enti pubblici dovrebbero sollecitare una suddivisione delle azioni e dei compiti fra i partecipanti alla rete, valorizzando le esperienze e le competenze di ognuno ed evitando di improvvisarsi esperti di tutte le fasi che compongono i percorsi di accompagnamento al lavoro. Nonostante tutto, la rete sembra essere l’unico modello democratico, pluralista e sinergico possibile per l’attuale welfare, date le contraddizioni sociali emergenti. Più che mai c’è bisogno della partecipazione di  soggetti in grado di agire con uno spirito collaborativo, di promuovere politiche inclusive locali e servizi in grado di costruire percorsi di pari opportunità e di promozione al lavoro. Ognuno dovrebbe dare il proprio contributo e condividere il patrimonio di esperienze e conoscenze. Il mercato del lavoro ha bisogno di servizi competenti e operatori preparati: dobbiamo decidere se aggiornarli o lasciare spazio ad una montante pletora di soggetti profit accreditati al lavoro,  spesso impreparati. È utile perseguire una rifondazione delle reti verso la costituzione di sistemi in grado di suddividere i compiti valorizzando l’ esperienza e la competenza di ognuno.

 

I tavoli

Le suddetti reti agiscono attraverso la costituzione di tavoli, ossia gruppi di lavoro tematici, composti dai rappresentanti di soggetti sociali presenti su un determinato territorio. La costituzione di un tavolo scaturisce dalla necessità di affrontare collegialmente un problema sociale. Il soggetto promotore comincia con il coinvolgere gli enti competenti e quelli che “non possono essere esclusi”.

 

La complessità delle attuali contraddizioni sociali  richiedono obbligatoriamente l’intervento di più enti disponibili al confronto e alla progettazione. In sé un modo virtuoso, democratico e partecipativo di affrontare i bisogni di una comunità. Purtroppo, il distorto funzionamento del “tavolo” spesso è causa della sua inefficacia e inutilità. La presenza dei rappresentanti dei vari enti e l’assenza degli operatori impegnati quotidianamente nella gestione degli utenti trasformano frequentemente il confronto in sterile volontà di affermazione ed esercizio dialettico. A questo si aggiunge un’inefficace e costosa abitudine di delegare quanto deciso ad un soggetto esterno.

 

Conclusioni

Numerosi sono i soggetti sociali che operano a favore dell’inserimento lavorativo delle persone disabili. I risultati conseguiti nei trenta anni di legge 68 non possono essere considerati soddisfacenti. Da più parti si cerca di scaricare ogni responsabilità sui contenuti della legge, ma sono gli stessi stakeholder della disabilità/lavoro la fonte di ogni contraddizione e insuccesso: lo dimostrano i rari casi in cui, una adeguata interpretazione e gestione della legge, ha dato risultati più che positivi. I servizi di norma hanno  l’abitudine di rivolgere il pensiero e la programmazione verso l’interno e non curarsi del mondo esterno. Non comprendono l’attuale complessità sociale, il rapido mutare dell’economia e del mondo produttivo, l’evoluzione tecnologica, i cambiamenti nel mercato del lavoro, a cui si aggiunge il contradditorio proliferare di norme nazionali, regionali e locali.

Visto l’attuale disinteresse della politica e delle istituzioni, e il crescente numero di soggetti che vedono nel disabile disoccupato una occasione di business, non si può essere ottimisti verso il prossimo futuro. Questo non deve costituire un comodo alibi per non continuare sulla strada a suo tempo intrapresa che, nonostante tutto, ha consentito di raggiungere indubitabili e significative conquiste.


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