La riforma miope dell’impresa sociale


Andrea Bernardoni | 28 Luglio 2017

I decreti approvati dal Consiglio dei Ministri del Governo Gentiloni a fine giugno 2017 completano il percorso di Riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale avviato tre anni fa dal Governo Renzi. I decreti sono necessari per dare attuazione alla legge delega numero 106 approvata dal parlamento il 6 giugno 2016 e, per questa ragione, sono stati a lungo attesi dagli operatori del settore.

 

La riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale aveva un duplice obiettivo: da un lato liberare il potenziale di crescita e di innovazione del Terzo settore, con particolare attenzione alle imprese sociali; dall’altro lato realizzare una riforma organica del settore, superando la frammentazione esistente.

La riforma ha raggiunto questi obiettivi? Se pensiamo alle imprese sociali le novità introdotte quali effetti produrranno? È possibile dare un primo giudizio sul provvedimento?

La revisione dei settori in cui possono operare le imprese sociali e le cooperative sociali

Il decreto legislativo amplia i settori in cui possono operare le imprese sociali inserendo nuovi ambiti di intervento che si aggiungono ed in parte sostituiscono quelli definiti dal decreto 155 del 2006. In questo modo si permette alle imprese sociali di operare in nuove aree come ad esempio l’alloggio sociale, il microcredito, la riqualificazione dei beni pubblici inutilizzati e dei beni confiscati alle mafie con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo di questa forma di impresa in settori ritenuti strategici per lo sviluppo sociale ed economico del Paese.

Il decreto, inoltre, modifica l’art. 1 della legge 381 del 1991 che disciplina le cooperative sociali ed amplia il campo di intervento delle cooperative sociali che operano senza realizzare inserimenti lavorativi aggiungendo ai “servizi socio-sanitari ed educativi” quelli sanitari, la formazione e l’educazione.

Il Governo, tuttavia, con il decreto legislativo anziché uniformare i settori in cui possono operare le imprese sociali e le cooperative sociali, ha scelto di perimetrare il campo di operatività della cooperazione sociale al welfare, all’educazione ed alla formazione, lasciando tutti i settori maggiormente connessi alle dinamiche di sviluppo locale (ad esempio l’ambiente, la cultura, la riqualificazione dei beni pubblici e dei beni confiscati alle mafie) ad esclusiva prerogativa delle imprese sociali costitute ai sensi del decreto 155/2006 ed alle imprese sociali che nasceranno in seguito alla riforma.

Questa scelta è poco lungimirante per diversi motivi.

In primo luogo, non considera che le più recenti dinamiche di sviluppo dell’imprenditorialità sociale integrano sempre più welfare, innovazione e sviluppo locale (Bernardoni ed altri, 2012 e Federsolidarietà 2015) e che è proprio l’integrazione tra welfare e sviluppo locale ad aver prodotto negli ultimi anni le maggiori innovazioni sia tra le cooperative sociali che tra le imprese sociali.

In secondo luogo, il decreto non è allineato con la realtà attuale, in quanto non include tra i settori in cui le cooperative sociali possono operare ambiti di intervento in cui esse oggi mettono in campo buone pratiche riconosciute a livello internazionale come ad esempio nel recupero dei beni confiscati alle mafie.

In terzo luogo, anziché liberare il potenziale di crescita dell’imprenditorialità sociale il decreto lo limita in quanto l’ampliamento dei settori di attività riguarda solo marginalmente la cooperazione sociale che rappresenta per numero di imprese, addetti e valore della produzione più del 90% dell’imprenditorialità sociale in Italia. Uniformare gli ambiti di intervento di imprese sociali e cooperative sociali sarebbe stato un provvedimento a costo zero per lo Stato che avrebbe moltiplicato gli effetti positivi della riforma sia in termini di sviluppo economico che di coesione sociale.

Per questa regione reputiamo miope non aver liberato il potenziale delle migliaia di cooperative sociali legate al territorio che avrebbero potuto impegnarsi in nuovi percorsi di sviluppo, confrontandosi con alcune “Sfide Paese” come: la gestione degli oltre 25.000 beni confiscati alle mafie, la valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale diffuso in tutto il territorio nazionale, la rigenerazione di quartieri ed il riuso di spazi pubblici come teatri, cinema, ex-scuole, il recupero e la rivitalizzazione delle aree montane in fase di spopolamento nell’arco alpino e lungo la dorsale appenninica (Bernardoni, Picciotti, 2017).

 

Le misure fiscali e di sostegno economico

Il decreto legislativo affronta anche la parte relativa alle misure fiscali e di sostegno economico volte a favorire la nascita e lo sviluppo delle imprese sociali alle quali viene dedicato uno specifico articolo (Art. 18).

In primo luogo, in analogia con il trattamento degli utili delle cooperative sociali, il Governo con il decreto ha stabilito che

“gli utili e gli avanzi di gestione delle imprese sociali non costituiscono reddito imponibile ai fini delle imposte dirette qualora vengano destinati ad apposita riserva indivisibile … e risultino effettivamente destinati … allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio”.

In secondo luogo, il decreto sostiene la capitalizzazione delle imprese sociali introducendo significativi vantaggi fiscali per le persone fisiche e per le imprese che capitalizzano le imprese sociali.

Questo provvedimento è positivo ed estremamente importante, tuttavia non si comprende la ragione per cui gli incentivi alla capitalizzazione delle imprese sociali siano limitati solamente alle imprese di recente costituzione (36 mesi) che abbiano acquisito la qualifica di impresa sociale solo successivamente all’entrata in vigore del decreto.

Tale vincolo penalizza le imprese sociali costituitesi dopo l’approvazione del decreto 155 del 2006 e le migliaia di cooperative sociali nate e sviluppatesi nei decenni scorsi. La capitalizzazione dei soci rappresenta uno degli elementi che hanno dato solidità patrimoniale alle imprese e cooperative sociali e quindi dovrebbe essere incentivata in tutte le imprese, cosa che il decreto fa solo per le start-up.

Può suscitare perplessità anche il limite dell’investimento massimo detraibile per le persone fisiche, fissato in 1 milione di euro, che appare troppo elevato rispetto all’esigenza di chi vuole sostenere un progetto di cui condivide gli scopi sociali e potrebbe invece incoraggiare comportamenti opportunistici di chi mira a sfruttare strumentalmente questa opportunità di beneficio fiscale.

L’esclusione delle migliaia di imprese e cooperative sociali diffuse in tutto il territorio nazionale ed attive da più di 3 anni unito al limite molto elevato dell’investimento detraibile rende questa misura incentivante molto attenta alle esigenze dei grandi filantropi e per nulla sensibile alle esigenze ed ai bisogni delle realtà già attive, caratterizzate da una base sociale ampia formata da centinaia ed a volte migliaia di soci. Oltre al tema dell’efficacia questa misura apre anche una questione di equità perché il fisco premia chi ha grandi ricchezze ed intende investirle in imprese sociali e non premia il lavoratore svantaggiato, l’operatore sociale o il fondatore di un’impresa sociale già costituita che decidono di sostenere il piano di sviluppo dell’impresa sociale in cui lavorano.

Infine, un meccanismo incentivante di questo tipo anziché favorire la patrimonializzazione e la crescita dimensionale delle piccole e medie imprese sociali, potrebbe incentivare lo start-up di nuove imprese sociali, anche nei casi in cui alcune attività avrebbero potuto essere svolte da realtà già attive, producendo degli effetti negativi sulla competitività del sistema paese.