Rappresentare la disabilità
Nuovi percorsi, oltre il mito e la pietà
Maurizio Trezzi | 7 Agosto 2018
Narrazioni accettabili
Come molte delle categorizzazioni stereotipali con cui il mondo dei media e l’universo della comunicazione ritengono di poter rappresentare ogni singola sfaccettatura della nostra complessa società, anche il tema della disabilità, risulta essere soggetto di descrizioni e narrazioni che concorrono a creare, nell’opinione pubblica, una visione condivisa e un senso, considerati, dai più, accettabili.
Queste azioni di comunicazioni si riferiscono al processo, complesso e multiforme, di costruzione sociale della realtà. La conoscenza diffusa di tutto ciò che circonda gli individui e permea il loro intorno di riferimento, cosi come la formazione delle loro opinioni e comportamenti, non si possono considerare come esclusivo esito di un semplice rispecchiamento di realtà oggettive. In gran parte sono, invece, il risultato di una lettura della realtà, condizionata da molteplici fattori soggettivi per i quali i media – tradizionali e ancora di più oggi digitali – esercitano, di fatto, un’influenza attraverso un opportuno orientamento di questi processi di costruzione della conoscenza (Contarella, Mazzara, 2002).
Lo studio delle rappresentazioni sociali ha, d’altro canto, una storia consolidata. La provenienza risale ai lavori di inizio secolo scorso di Durkheim, relativi alla teorizzazione della rappresentazione collettiva e successivamente al lavoro di Moscovici che formalizza il primo concetto di rappresentazione sociale conferendone sistematicità teorica e validazione empirica. Anche la sociologia ha attribuito grande rilievo ai processi mediante i quali gli individui elaborano una rappresentazione della realtà nella quale sono inseriti (Bartlett, 1932; Heider, 1944; Lewin, 1946).
Processi che, dal dopoguerra in poi, sono stati completamente rivoluzionati dall’affermazione di nuovi media: prima il cinema, poi la tv, con i programmi e la pubblicità, ora il web. Soggetti che concorrono, in maniera collettiva e singolarmente, alla formazione di un percepito e di un pensiero diffuso rispetto a una condizione come quella della disabilità. Un percorso che, di pari passo, modifica più e più volte modi, linguaggio, contenuti e storytelling con cui viene rappresentata la condizione, la vita e la situazione delle persone con disabilità. Comune a tutti gli ambiti della comunicazione questa evoluzione sta accelerando rapidamente, in questo avvio di terzo millennio, verso nuovi paradigmi. Non sempre positivi.
Non guardarmi, non ti sento
Negli Usa sono stati espressi (Riley, 2005) dati preoccupanti relativamente al modo di rappresentare mediaticamente la disabilità. La visione utilizzata era poco coerente con la realtà del fenomeno stesso e influenzava negativamente vissuti, atteggiamenti e comportamenti.
Uno studio condotto (Wahl, 2003) nel 2003 sui film e programmi televisivi negli USA mostra come la disabilità mentale, sia troppo spesso rappresentati in ruoli tragici e violenti. In particolare nelle fiction televisive il disabile sembra affetto da un male che lo induce a compiere azioni socialmente inadeguate, se non legalmente perseguibili.
E’ in linea con questi esiti anche ciò che si registra nelle ricerche sul modo con cui la carta stampata tratta notizie che riguardano le persone con disabilità (Foster, 2006). Un’indagine svolta nel Regno Unito, rivela come siano rare le comunicazioni che presentano una corretta discussione sulla disabilità. Sui giornali questa è presente solo in articoli che l’associano a notizie di cronaca – spesso riferiti a casi di violenza o discriminazione subite dalle persone con disabilità – o di eccessiva esaltazione nel caso performance sportive o di fatti della vita. Il mito del superuomo può portare a un’eccessiva esaltazione dell’atleta o del personaggio con disabilità, trattato come “fenomeno da circo”. Salvo poi farlo tornare sulla terra quando, come nel caso dell’atleta sudafricano Oscar Pistorius, viene coinvolto in vicende, in questo caso tragiche e drammatiche, che nuovamente sono trattate con un’evidenza particolare legata alla condizione di diversità.
Una rappresentazione quindi spesso troppo lontana dalla realtà e pertanto foriera di modalità distorte di considerare questo universo. E’ però grazie alle rappresentazioni sociali che si dà significato alla realtà e si indirizzano i comportamenti della collettività da cui e in cui nascono. Rappresentazioni che sono in continua trasformazione proprio grazie a processi di comunicazione. I canali di comunicazione hanno pertanto un’importanza molto maggiore che non quella di servire semplicemente da veicolo di conoscenza, Anche il modo stesso con cui questa conoscenza viene trasmessa può essere elemento rilevante dal punto di vista della costruzione di una rappresentazione sociale. Le tecniche televisive, giornalistiche e pubblicitarie offrono utili indicazioni su come sia possibile modulare tonalità, tagli di interviste, approfondimenti, accenti, parole per colorare di significato le notizie e la rappresentazione della realtà narrata. Per questo capita di frequente che ci accostiamo alla realtà per il tramite delle rappresentazioni che di essa ci propongono i mezzi di comunicazione, tanto da concludere che questa sia tanto più credibile quanto più assomiglia a ciò che viene descritto piuttosto che a quello con cui abbiamo più lunga familiarità.
Consigli per gli acquisti
Un settore termometro dell’evoluzione di questi processi è certamente la pubblicità. Posto al confine fra cinema e fiction, fruito in tempi strettissimi e quindi costretto a sintetizzare i messaggi non scadendo però nell’ovvio, nel banale e nella semplificazione, lo spot pubblicitario rappresenta al meglio, lo schema di evoluzione del percepito e del rappresentato rispetto alla disabilità. Secondo quanto emerso dai lavori dell’Osservatorio su Comunicazione e Disabilità dell’Università Iulm di Milano (Russo, Trezzi, 2010) analizzando contenuti, stile, messaggi presenti nella comunicazione sulla disabilità di Pubblicità Progresso, dagli anni ‘70 ad oggi, si ha modo di constatare come la condizione delle persone disabili sia passata da quella di essere “handicappati da nascondere” tipica degli anni ‘60 e ‘70, a persone da inserire nel mondo del lavoro e da includere nei percorsi scolastici – anni ‘80 – sino a diventare soggetti pienamente integrati e riconosciuti dalla società negli anni ‘90 con l’avvio delle campagne sulla tutela dei diritti delle persone con disabilità. Un viaggio che modifica parole, linguaggi, colori, elementi grafici, che passano dal grigiore di chi è ai margini, ai colori e ai volti di chi, finalmente, fa parte a pieno titolo della società.
E ancora, analizzando spot che non abbiano come focus quello della disabilità, si osserva come la totale assenza di persone disabili nei contesti e nelle immagini con cui la società viene descritta – tipica degli anni ‘80 e prodotto di un’effettiva assenza delle persone con disabilità dai principali luoghi e contesti sociali – si sia lentamente ma progressivamente ridotta con l’inserimento di persone disabili in frame o passaggi. Resta però un sostanziale deficit di presenza di persone disabili in spot commerciali. In una ricerca svolta per conto del Comune di Milano (Russo, Trezzi, 2009) sono stati analizzati 68 spot pubblicitari – 30 italiani e 38 girati in altri Paesi occidentali – dedicati alla disabilità. In quelli italiani, nel 47% dei casi il disabile appare accompagnato da un’altra persona e solo nel 17% è solo. Nel 13% degli spot, inoltre, era presente un testimonial. Negli spot stranieri la situazione è diversa: nel 47% dei casi il disabile è solo, nel 37% è accompagnato e il 16% ha un testimonial. Questi dati inseriscono un elemento importante nel dibattito legato a come la disabilità sia rappresentata in Italia rispetto a ciò che avviene nei Paesi anglosassoni. Nel nostro Paese, continua a prevalere, anche se con qualche recente distinguo, uno stile pietistico ben diverso da quello più diretto e immediato della comunicazione dei paesi stranieri e in particolare di quelli del nord Europa e del nord America. Anche i messaggi sono sostanzialmente diversi: molto più stemperati ed edulcorati quelli italiani, più forti e persuasivi quelli stranieri. In un contesto, come quello anglosassone, più pragmatico e con una dimensione culturale meno protettiva di quella italiana è facile vedere messaggi pubblicitari che fanno pienamente uso di scene particolarmente cruenti e paurose. E’ ormai opinione consolidata che siano questi ultimi a trovare maggior penetrazione e a destare riflessioni più attente e consapevoli nell’audience, soprattutto in quella più giovane che dovrebbe essere il target più privilegiato per il recepimento di questo tipo di contenuti. Occorre però fare attenzione nella costruzione dei messaggi a non eccedere nell’effetto “pugno nello stomaco” per evitare di produrre, effetto contrario evidentemente non voluto, il rigetto e il rifiuto del messaggio. La chiave per riuscire a coniugare al meglio queste due realtà e per produrre rappresentazioni sociali il più possibile vicine alla realtà, è certamente l’ironia. Il cinema ha spesso utilizzato questa tecnica di “dissumulazione” (dall’origine greca del termine) per veicolare messaggi in maniera efficace e funzionale allo scopo.
Disabilità sul grande schermo
La storia della cinematografia è punteggiata da pellicole che hanno messo sotto i riflettori il tema della disabilità. Pellicole entrate nella storia del cinema e nei palmares di grandi premi come “Figli di un dio minore”, premio Oscar 1987 a Marlee Matlin, come miglior attrice protagonista o “Il Discorso del Re”, vincitore dell’Oscar come miglior film nel 2011. Il cinema, più che ogni altro media, ha saputo raccontare e rappresentare la disabilità per ciò che è realmente. Due film, entrambi francesi, come l’”Ottavo Giorno”, del 1996 o, sulla stessa falsa riga, “Quasi Amici” del 2011, presentano con messaggi e linguaggi semplici, senza l’uso dei pietismo e con la giusta dose di ironia la costruzione del rapporto fra una persona disabile (un ragazzo con sindrome di down nel primo, una persona tetraplegica nel secondo) e il cosiddetto “normodotato”. Film che scaldano il cuore ma fanno funzionare il cervello, mescolando tecniche da soap e contenuti sociali con il risultato di lasciare allo spettatore un messaggio certamente positivo e veritiero. Che diventa ancora più esaltante quando ad essere protagonisti delle scena sono attori cult come il Tom Hanks di “Forrest Gump” o il duo Sean Pean, Michelle Pfeiffer di “Mi chiamo Sam” dove sono le persone normodotate che vivendo a fianco di quelle con disabilità finiscono per trarre il vero e reale vantaggio da questo rapporto. Ribaltando, in un gioco di contrasti assai efficace, il piano di comune convinzione in cui sia la persona più in “difficoltà” ad avere costante necessità di aiuto e a dover dipendere dalla società.
Elementi che messi insieme vanno a comporre una nuova rappresentazione della disabilità, certamente molto più vicina a quella reale e che sfruttano pienamente la commistione e l’ibridazione fra il mondo dei normali e il mondo dei disabili. Entità che non possono, perché non lo sono di fatto, rimanere distinte ed essere presentate come lontane. Come invece spesso accade, soprattutto per la seconda categoria, che nonostante i passi avanti resta ancora ghettizzata ed emarginata nell’attuale momento storico nel quale le “diversità” stanno tornando ad essere, purtroppo, oggetto di discriminazione e prevaricazione.