Nella Gazzetta Ufficiale nº 65 del 18/03/2024 è stato pubblicato il Decreto Legislativo 15/3/2024 n. 29 attuativo della Legge delega nº 33 del 23/3/2023. 33 di riforma del welfare per gli anziani. Il titolo di questo articolo segnala “cose strane” in questa messa in opera della riforma, e strani davvero (per lo meno) paiono molti dispositivi. Ma questo giudizio impone di essere ben motivato; articoliamolo dunque in due aree, riferite alla non autosufficienza.
Il percorso di accesso degli utenti
Tema sempre molto rilevante (e spesso sottovalutato) in tutti i sistemi di welfare, sul quale qui si segnalano tre criticità, purtroppo sinora non molto evidenziate nel dibattito tecnico e politico:
A che cosa devono servire i PUA?
Mi permetto di rimandare sul tema a un mio articolo pubblicato a giugno del 2023 su Welforum.it dove si evidenzia l’opportunità di attivare PUA per informare i cittadini non solo sui percorsi sociosanitari (di Aziende sanitarie e Enti gestori dei servizi sociali), ma anche sulle molte altre opportunità offerte dal welfare pubblico, di altra natura e attivate da diverse Amministrazioni, che utente e famiglia hanno interesse a conoscere al più presto. Solo muovendo verso la seconda ipotesi si evita che la famiglia (e l’utente) arrivino a sapere molto tempo dopo l’accesso al PUA che possono chiedere un montascale, permessi retribuiti dal lavoro, contributi per ridurre le barriere architettoniche in casa, detrazioni fiscali sui contributi che pagano alla badante, ed altro. E ci sono interessanti esperienze locali di strumenti per “informare a 360°” i non autosufficienti su cosa potrebbero richiedere. Ma la legge 33/2023, ed il decreto legislativo 29/2024 purtroppo prevedono PUA solo con le funzioni più limitate.
Esclusioni di non autosufficienti dall’accesso
L’art. 27 (comma 2 e 3) del decreto espone questi criteri:
“2) L’accesso ai servizi di cui al comma 1 (ossia quelli previsti dal decreto, sociali e sociosanitari, nonché ai PUA) e ai correlati processi valutativi di pertinenza dei PUA è assicurato alla persona anziana in possesso congiuntamente dei seguenti requisiti:
- persona affetta da almeno una patologia cronica;
- persona con condizioni cliniche caratterizzate, anche in funzione dell’età anagrafica, dalla progressiva riduzione delle normali funzioni fisiologiche, suscettibili di aggravarsi con l’invecchiamento e di determinare il rischio di perdita dell’autonomia nelle attività fondamentali della vita quotidiana, anche tenendo conto delle specifiche condizioni sociali, ambientali e familiari.
- …. i criteri di priorità per l’accesso ai servizi del PUA sono indicati nel decreto di cui al comma 7, ivi ricomprendendovi, tra gli altri, la qualità di persona grande anziana e la presenza di più di una patologia cronica.”
Perciò, visto che la persona deve avere “congiuntamente” i due requisiti a) e b) del comma 2), ai PUA ed ai percorsi di assistenza possano accedere solo persone che siano anche “affette da almeno una patologia cronica”. Ne derivano due gravi criticità:
1) non possono accedere ai percorsi tutti i non autosufficienti che non hanno una patologia cronica ancora in atto, ma che sono non autosufficienti per traumatismi pregressi, o per i postumi ed effetti di una patologia ormai superata. Il criterio (oltre a essere per lo meno bizzarro) induce assurdi paradossi: una persona gravemente non autosufficiente sul piano motorio (per un traumatismo da molto tempo accaduto) può accedere ai PUA ed ai percorsi successivi solo se ha anche un diabete o una gastrite cronica, benché siano due patologie croniche in atto che nulla c’entrano con la non autosufficienza, né la modificano. E ai sensi del comma 3) sopra esposto la persona più anziana e con il diabete avrà priorità di accesso rispetto ad una persona con lo stesso grado di non autosufficienza (o anche maggiore) ma meno anziana e senza il diabete. È una selezione irrazionale ed assurda, e peraltro per nulla legittimata dalla legge delega 33/2023, quindi incoerente con questa delega. Ed anche incoerente col testo del decreto legislativo, che al suo articolo 2 comma 1 definisce “«persona anziana non autosufficiente»: la persona anziana che, anche in considerazione dell’età anagrafica e delle disabilità pregresse, presenta gravi limitazioni o perdita dell’autonomia nelle attività fondamentali della vita quotidiana e del funzionamento bio-psico-sociale”. E la parola “anche” qui non esclude altri che hanno comunque gravi limitazioni.
2) Alle persone non autosufficienti ma non affette da una patologia cronica pare inibito il solo accesso ai PUA, e dunque la possibilità di ottenere informazioni complete sulle opportunità alle quali potrebbe accedere, per fruire delle diverse offerte del welfare. Questa esclusione produce effetti diversi anche in base al modello di PUA che viene allestito (come sopra ricordato al paragrafo A). Ma qualunque sia il perimetro delle informazioni che i PUA forniranno, il criterio dell’art. 27 (comma 2 e 3) del decreto esclude una rilevante parte di non autosufficienti che non soffrono anche di una patologia cronica in atto, e che sono (con le famiglie) solo molto interessati a conoscere quali interventi potrebbero richiedere, a chi e come, anche senza necessariamente entrare nei percorsi assistenziali attivabili dal PUA. Anche questa esclusione appare del tutto irrazionale e per nulla coerente con la legge delega 33/2023. Nonché incoerente col testo dello stesso decreto legislativo, che al suo articolo 10 comma 1 recita “Nell’ambito dei punti unici di accesso (PUA), di cui all’articolo 1, comma 163, della legge 30 dicembre 2021, n. 234, sono assicurati alle persone anziane, l’erogazione dell’orientamento e del sostegno informativo per favorire il pieno accesso agli interventi e ai servizi sociali e sociosanitari”. E all’art 27 comma 6: “I PUA svolgono, a livello locale, funzioni di informazione, orientamento, accoglienza e primo accesso (front office)”.
Tortuosi e inutili percorsi di accesso
Il comma 4 dell’articolo 27 del decreto recita: “La valutazione circa l’esistenza dei requisiti di cui al comma 2 (esposti al precedente paragrafo B) è effettuata, su richiesta dell’interessato o su segnalazione della rete ospedaliera, delle farmacie, dei comuni e degli ambiti territoriali sociali, dal medico di medicina generale ovvero dal medico di una struttura del SSN, che indirizza l’interessato al PUA. Nel caso in cui il medico di cui al primo periodo valuti la non sussistenza dei presupposti dei requisiti di cui al comma 2, informa l’interessato della possibilità di accedere alla valutazione della condizione di disabilità ai sensi della legge 22 dicembre 2021, n. 227, e procede all’invio del relativo certificato medico introduttivo di cui all’articolo 8 del decreto legislativo attuativo della legge 22 dicembre 2021, n. 227, su richiesta dell’interessato”.
Quindi occorre che un medico accerti l’esistenza dei requisiti per l’accesso ai PUA e indirizzi al PUA l’interessato. Ossia l’accesso ai PUA non è più libero ed autonomo (come sinora avviene), e invece richiede una preliminare selezione di un medico ed il suo indirizzamento.
È un criterio che introduce diversi problemi:
1) Se l’accesso ai PUA impone al cittadino una preliminare visita medica è prevedibile che persone non autosufficienti sole o con nuclei fragili trovino più difficoltà. E l’intervento del medico sarà a pagamento per il cittadino? È molto probabile, perché l’attuale “certificato introduttivo” che il medico di medicina generale deve attivare quando il cittadino glielo chiede (primo passo per accedere alle valutazioni delle commissioni per l’invalidità) costa al cittadino intorno ai 70 euro. Va anche ricordato che i medici di medicina generale non sono dipendenti diretti del SSN, bensì lavoratori autonomi che operano in base ad una apposita convenzione (che è anche il loro contratto di lavoro) che ne definisce obblighi, funzioni e costi. Quindi non è sufficiente che una norma (come il decreto delegato che qui si discute) preveda nuovi ruoli per i medici di medicina generale se poi anche la convenzione che li lega al SSN (che è un atto nazionale, integrato poi da convenzioni contrattate con le singole Regioni) non chiarisce con precisione i compiti del medico e se sono gratuiti o meno per il cittadino1.
2) A che cosa serve che l’accesso ai PUA avvenga tramite un medico? Serve se per accedere occorre avere le condizioni sanitarie prima discusse al paragrafo B); ma è molto meglio eliminarle. Serve per “coinvolgere il medico di medicina generale” nel percorso di tutela della non autosufficienza? No di certo se il medico deve solo “far accedere” ai PUA, ed anzi così diventa soltanto un ulteriore impegno burocratico affidato ai medici di medicina generale. Questo “coinvolgimento” ha senso solo nel successivo momento della valutazione del non autosufficiente, ma va concretizzato in modo che sia realistico nel lavoro dei medici, e incardinato nei compiti che prevede la convenzione che li lega al SSN (richiamata al punto precedente).
3) Il comma 4 dell’art. 27 del decreto (sopra esposto) prevede che il medico di medicina generale o di una struttura del SSN, valuti i requisiti di accesso al PUA “..su segnalazione della rete ospedaliera, delle farmacie, dei comuni e degli ambiti territoriali sociali”. E’ un’ottima cosa che questi servizi informino il cittadino non autosufficiente (e la famiglia) dell’esistenza dei PUA; ma siamo sicuri che è realistica una loro “segnalazione” al medico senza che sia espressamente consenziente il cittadino, in base alla normativa sulla privacy? E il medico di medicina generale che la riceve, deve aspettare che il cittadino si presenti o dovrebbe contattarlo di sua iniziativa?
Anche il percorso di accesso al PUA solo previa valutazione medica rischia di diventare una grave compressione delle funzioni dei PUA, che dovrebbero essere non soltanto “porta di ingresso” nel sistema di presa in carico dei non autosufficienti, ma luogo di ampia informazione sulle opportunità che possono interessare il non autosufficiente e la famiglia, anche quando non ne derivi un percorso di valutazione per la presa in carico. E luogo il cui accesso sia facilitato e semplificato al massimo. Funzioni che peraltro sono attribuite ai PUA dal Piano Non Autosufficienza, e dalla legge 33/2023 (art. 3). Anche qui dunque c’è una incoerenza del decreto legislativo con la sua legge delega, nonché col contenuto del decreto rispetto alle funzioni dei PUA come front office informativo.
Non è un problema (solo) di mancanza di risorse dedicate
Ma vi sono molte criticità di impianto complessivo del riordino:
A) Non si prevede di rendere i Livelli essenziali (LEA e LEPS) veri diritti esigibili, eliminando la loro natura di “diritti finanziariamente condizionati”, che consente oggi alle Amministrazioni (ASL e Enti gestori dei servizi sociali) di non erogare se non hanno risorse, cosa che legittima quindi lunghe liste d’attesa. Che si eroghi solo se ci sono risorse sembra una condizione “naturale” ed ovvia; ed invece è un limite che non opera in tutte le prestazioni del welfare: ad esempio la scuola dell’obbligo o l’assegno sociale INPS sono diritti esigibili senza che si possano negare al cittadino solo per assenza di risorse. E ci sono sentenze della Corte Costituzionale che evidenziano come se una prestazione è un LEP non deve essere subordinata alle risorse.
B) Non si potenzia l’assistenza domiciliare tutelare (cioè non di operatori sanitari, ma quella per i supporti negli atti della vita quotidiana), le cui carenze sono quelle che spingono a ricoveri indesiderati in RSA, o al crollo delle famiglie. Questa assistenza tutelare:
- Dovrebbe includere anche risorse del SSN, il quale oggi invece per lo stesso paziente spende solo per pagare il 50% della retta di ricovero in RSA. E quindi il SSN premia solo il ricovero (altro che “Casa come primo luogo di cura” come dice il PNRR!).
- Deve poter offrire alle famiglie la scelta tra molte diverse modalità di intervento (assegni di cura, buoni servizio, contributi al familiare che assiste, affidi a terzi, etc.), e non solo poche ore di OSS alla settimana.
C) Il budget di cura è previsto solo come una ricognizione di cosa già esiste. Ma così non si riforma nulla, e diventa casuale cos’è il budget da cui deriva il progetto di assistenza. Invece il budget di cura deve essere un dispositivo istituzionale preciso, che produca almeno il concorso certo di risorse pubbliche mirate a garantire specifici interventi sociosanitari di tutela: abbinando ad ogni grado di non autosufficienza un “massimale di spesa”, ossia appunto un budget di cura sociosanitario, crescente al crescere della non autosufficienza; budget che deve essere composto per il 50% da risorse del SSN (indipendentemente dalla condizione economica del cittadino), e per il 50% da risorse del cittadino; oppure se egli non dispone di risorse sufficienti, da risorse (in tutto o in parte) dei servizi sociali dei Comuni. E si deve poter trasformare il budget di cura nell’intervento domiciliare che è più appropriato in quel momento entro un piano di assistenza (PAI). E in questo modo si estenderebbe all’assistenza domiciliare il dispositivo che da sempre è in opera nelle RSA, dove questo budget di cura già esiste ed è appunto la retta2.
I due punti precedenti (potenziare assistenza domiciliare tutelare, e budget di cura) sono legati perché dovrebbero fondarsi su un modello di “integrazione sociosanitaria” che non sia equivoco (come invece è oggi nei LEA, e nelle “riforme” attuali): ossia non lasciare alle sole famiglie e servizi sociali il costo della tutela domiciliare, ma almeno condividerlo col SSN. Anche perché il SSN con spesa minore di quanto usa per le rette in RSA potrebbe coprire il 50% del costo di una robusta assistenza domiciliare tutelare. Non sarebbe anche un significativo risparmio interno allo stesso SSN?
D) Nulla si prevede (né nella legge delega né nel decreto delegato) sul delicato tema delle contribuzioni degli utenti al costo delle prestazioni pubbliche (domiciliari, semiresidenziali, residenziali), e quindi si accetta su questo rilevantissimo tema (che molto “morde” sui diritti reali) l’attuale situazione di enormi differenze non solo tra regioni, ma anche entro le regioni. E sul punto inoltre:
- il budget di cura per l’assistenza domiciliare (le risorse dalle quali ricavare il piano di assistenza) dovrebbe essere costruito con lo stesso meccanismo di quello per l’assistenza residenziale, perché non deve esistere alcuna forma di “convenienza economica”, né per le famiglie né per le amministrazioni, che influenzi la scelta tra le due forme/setting di cura, scelta che deve invece derivare solo dall’appropriatezza clinica e dalla preferenza dei
- Al contrario di cosa accade ora in norme nazionali e regionali, la valutazione della condizione economica non deve essere usata per determinare l’accesso alle prestazioni (che va previsto soltanto in base alle condizioni di non autosufficienza) ma unicamente per identificare la successiva contribuzione al costo degli interventi che è a carico del cittadino.
E) Il principale difetto dell’attuale indennità di accompagnamento consiste nel fatto che, essendo soltanto una erogazione monetaria, costringe il nucleo del non autosufficiente a trasformarla da solo in sostegni per l’utente, cosa spesso impossibile quando l’anziano è solo, o ha solo congiunti anch’essi anziani e non capaci di gestire il denaro, ad esempio per assumere assistenti familiari. E’ quindi cruciale la previsione della legge delega (articolo 5 comma 2, lettera a) di far fruire ai beneficiari la “prestazione universale” potendo scegliere se ricevere denaro o servizi.
Ma il decreto delegato nulla spiega su “come” il fruitore possa usare la prestazione universale per ricevere servizi invece di denaro. Si limita a prevedere l’obbligo del nucleo di usare l’assegno di assistenza (850 euro che si aggiungono all’indennità di accompagnamento per i molto poveri) per assumere lavoratori o per acquistare servizi, ma con tutti gli adempimenti da gestire che restano soltanto in capo al nucleo, quindi reiterando la stessa criticità oggi esistente per l’indennità di accompagnamento. E si limita a prevedere successivi decreti che definiranno le modalità attuative della prestazione universale.
Per ridurre le criticità che cosa si può sperare che accada?
Che cresca il dibattito e l’analisi dei problemi di avvio della riforma, non solo a cura di soggetti sociali e associazioni di utenti, ma anche delle amministrazioni che devono gestirla.
Che il Governo introduca correttivi, o nei decreti ministeriali (molti) che dovranno essere emanati come prevede il Decreto Legislativo 15/3/2024 n. 29, oppure utilizzando quanto prevede il comma 6 dell’articolo 2 della legge delega 33/2023: “Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi di cui al comma 1, nel rispetto dei principi e criteri direttivi e con la procedura prevista dalla presente legge, il Governo può adottare disposizioni integrative e correttive dei medesimi decreti legislativi”.
Merita anche ricordare (come correttivo radicale) che la Corte Costituzionale può giudicare della coerenza tra i decreti delegati e la legge delega che questi devono attuare.
- Nel febbraio 2024 è stato rinnovato l’“Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale” tramite concertazione tra la SISAC (Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati, che rappresenta la parte pubblica) ed i sindacati medici nazionali, che molto rinvia a modelli operativi per la medicina territoriale definiti dalle Regioni.
- Una discussione più ampia sul tema è consultabile qui.