Ripensare il welfare negli anni del rischio globale


Remo Siza | 24 Febbraio 2025

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, i sistemi di welfare sono cambiati profondamente per affrontare nuovi rischi sociali quali la non autosufficienza, la fragilità delle reti primarie, la precarietà lavorativa. I sistemi che emergono sono focalizzati sui nuovi rischi di una società globalizzata e fortemente individualizzata, sulla frammentazione e la precarietà dei legami individuali e collettivi. Progressivamente hanno attribuito centralità ai programmi di attivazione delle persone, alle politiche sociali di conciliazione vita-lavoro e di sostegno alla famiglia, a rafforzare i servizi per l’infanzia, all’istruzione e a contrastare la trasmissione intergenerazionale della povertà economica ed educativa, all’acquisizione di qualifiche e capacità lavorative. Tradizionalmente gli interventi di welfare erano, invece, finalizzati quasi esclusivamente a proteggere le persone da alcuni rischi sociali (la maternità, la vecchiaia, la disoccupazione, la malattia, la disabilità) e fondavano la loro capacità operativa sulla stabilità della famiglia nucleare.

In questi ultimo decennio, la percezione che abbiamo è che le società attuali stiano subendo un nuovo cambiamento molto più esteso di quello che abbiamo osservato negli anni Novanta e siano cambiate nuovamente le priorità e i rischi sociali. Reckwits (2021: 3) osserva che le società attuali stanno diventando sempre più fragili e contradditorie. È in profonda crisi la narrazione di un progresso fondato sulla globalizzazione, l’affermazione dei principi democratici e l’espansione dei mercati. Ulrich Beck (2017) rilevava che noi viviamo in un mondo che non sta semplicemente cambiando, è un mondo che sta subendo una metamorfosi: cambiamento significa che alcune cose mutano, ma altre rimangono uguali; metamorfosi invece implica una trasformazione molto più radicale, in cui le vecchie certezze vengono meno e sta nascendo qualcosa di totalmente nuovo, sta cambiando il nostro modo di essere nel mondo, di vivere nel mondo.

Il cambiamento non è riferibile soltanto alla evoluzione delle dinamiche demografiche, alla qualità e alla stabilità del lavoro e alle condizioni economiche della maggioranza delle persone. Il cambiamento coinvolge tutte le relazioni di vita quotidiana, le relazioni nell’ambito della famiglia, le relazioni con le istituzioni, con la politica. Per governare i processi, le dinamiche, i conflitti, le nuove forme di convivenza e le aspettative che stanno emergendo, ciò che abbiamo costruito nel passato in termini di welfare sembra oramai insufficiente.

Le crisi che si sono succedute in questi anni (la crisi economica e finanziaria del 2008, la crisi climatica, il COVID, l’elevata instabilità politica), la crescente competizione di un mercato globalizzato hanno favorito soluzioni restrittive nell’erogazione dei benefici e nell’accesso ai servizi ed hanno evidenziato limiti e criticità strutturali di molti programmi di welfare.

In primo luogo, il rapporto tra iniziative pubblica e iniziativa privata ha progressivamente assunto aspetti critici. In molte nazioni emerge un sistema di welfare dualizzato (Emmenegger et al. 2012): una parte delle famiglie, differente da una nazione e l’altra, continua ad accedere quasi esclusivamente ad un sistema pubblico teoricamente ancora universalistico, anche se la qualità delle prestazioni è sempre meno soddisfacente e le prestazioni (pubbliche o accreditate) hanno tempi di attesa molto lunghi. Le famiglie con redditi e condizioni lavorative più stabili possono, invece, accedere agevolmente ad un sistema privato-pubblico sempre più integrato e complessivamente efficiente.

La dualizzazione del welfare riguarda, inoltre, l’accesso alle tutele dai persistenti rischi sociali della società industriale (la sicurezza del lavoro, il reddito da lavoro, la malattia, la maternità e la pensione e la vecchiaia). La tutela da questi rischi è assicurata in termini molto differenziati nelle occupazioni nel settore pubblico e nel privato, nella grande industria e nelle ditte appaltatrici.

Un secondo aspetto critico riguarda l’attuale equilibrio tra responsabilità individuale e impegno della collettività nella produzione del benessere: se ascoltiamo la narrazione pubblica di tanti fatti drammatici capiamo che si è oramai interrotto il processo che trasformava i problemi vissuti individualmente in problemi sociali di cui la collettività e le istituzioni si facevano carico. Per una larga maggioranza di persone, la privatizzazione dei rischi sociali ha raggiunto una soglia critica (Siza, 2022). In molti ambiti di welfare non esistono più diritti acquisiti una volta per tutti dalle persone. I beneficiari di prestazioni di welfare (i beneficiari di misure di supporto al reddito, le persone che abitano case popolari, i senza dimora) sono soggetti al rispetto di numerose condizioni, in termini di requisiti di accesso sempre più selettivi (reddito, condizioni occupazionali, disabilità), ma soprattutto devono assumere determinati comportamenti. In caso contrario si procede alla revoca parziale o totale del beneficio. In molte nazioni europee, il welfare attivo diventa un welfare condizionale basato su sanzioni e revoche. Il comportamento individuale, la moralità e il senso di responsabilità dei beneficiari diventano centrali in ogni relazione di welfare. In Italia, il decreto che istituisce l’Assegno di inclusione, incrementa ulteriormente ogni forma di controllo e ogni forma di condizionalità aggravando sensibilmente le sanzioni previste rispetto all’art.4 della legge istitutiva del Reddito di cittadinanza. L’articolo 9 stabilisce che i beneficiari, pena la perdita del supporto economico, sono tenuti ad accettare un’offerta di lavoro a tempo indeterminato senza limiti di distanza nell’ambito del territorio nazionale. All’articolo 4 si prevede che il beneficiario decade dal beneficio se non si presenta ogni novanta giorni ai centri per l’impiego per aggiornare la propria posizione; se non partecipa alle iniziative, genericamente definite dall’art. 8, di carattere formativo o di riqualificazione o ad altra iniziativa di politica attiva o di attivazione comunque denominate.

In terzo luogo, è cambiato il senso e la complessità delle politiche di attivazione. In un mercato del lavoro fortemente polarizzato fra pochi lavori specializzati che richiedono percorsi formativi molto estesi, crescono una miriade di occupazioni a bassa qualificazione che, piuttosto che formazioni tecniche, richiedono soft skills che possono essere acquisiti in processi di cura e di supporto spesso complessi e con i tempi che hanno le crisi e i cambiamenti personali. Chiunque operi nel sociale e nelle politiche attive sa bene che disoccupazioni e povertà di lunga durata sono condizioni che riguardano i molteplici aspetti della personalità che ostacolano un immediato inserimento nel mercato del lavoro.

Le politiche di attivazione in molte nazioni europee sono diventate unidimensionali (finalizzate al rapido inserimento nel lavoro) e sono state considerate come un sostituto delle più tradizionali funzioni di sostegno al reddito e alla famiglia (Hemerijck and Matsaganis, 2024). Il messaggio implicito è che i benefici economici e il lavoro di cura svolgono una funzione passivizzante che è necessario contrastare (Cantillon and Vandenbroucke, 2014). In Italia, il decreto che istituisce l’Assegno di inclusione ben esemplifica questa tendenza. Il decreto prevede che l’accesso all’Assegno di inclusione non sia assicurato agli occupabili, cioè a tutte le persone in condizione di povertà che hanno una età compresa fra 18 e 59 anni e che non abbiano carichi di cura di minori o persone con disabilità. Nel caso partecipino a programmi formativi o a progetti utili per la collettività, beneficiano per la durata del programma del Supporto per la formazione e il lavoro (SFL), di un’indennità mensile pari a 350 euro (Siza, 2023): a dicembre del 2024, hanno beneficiato di questa misura di attivazione appena 133 mila persone.

Un quarto aspetto che presenta criticità elevata riguarda i programmi partecipativi e il governo di ogni forma di coinvolgimento dei cittadini. In questo ultimo decennio, dopo gli anni del “riflusso nel privato” emerge un ritorno alla vita pubblica e alla partecipazione seppure non organizzata in stabili movimenti, ma attraverso forme di aggregazione molto fragili, fortemente individualizzate, soprattutto attraverso i nuovi media. Ciò che noi osserviamo è la crescita di moltitudini di persone con deboli legami collettivi e stabili appartenenze; attivi nel senso che con loro impegno radicale intendono cambiare e semplificare le regole della democrazia e della convivenza civile, il funzionamento delle istituzioni; riflessivi nel senso che valutano individualmente ogni sollecitazione, ogni richiesta delle istituzioni anche in ambiti che richiedono specifiche competenze (dal vaccino alle reazioni al riscaldamento globale) (Siza, 2022; 2025).

Molte iniziative collettive riescono a contrastare fattivamente queste criticità, ma spesso non sono visibili e la loro capacità innovativa non è riconosciuta e valorizzata. È comunque assente una discussione pubblica sul welfare, sulle sue funzioni, i suoi principi e sulle condizioni che ne favoriscono la loro concreta realizzazione. Inoltre, è necessario cercare di capire cosa si può fare nell’ambito delle politiche per l’infanzia, ora che la famiglia e molte altre istituzioni si sono indebolite nelle loro funzioni di socializzazione, cosa si può fare per gli anziani o per contrastate efficacemente le nuove forme di povertà o il crescente disagio dei giovani.

Negli anni del secondo dopoguerra (Esping-Andersen, 1990) il welfare state ha rappresentato un ambito cruciale per un impegno collettivo, per promuovere integrazione sociale e conciliare esigenze economiche, principi morali e ricostruzione della sfera politica. Ora, il welfare che avevamo condiviso e pensato sul finire del secolo scorso richiede una nuova ricalibratura dei suoi strumenti e dei suoi programmi in molti dei suoi settori di attività (le politiche per l’infanzia, per l’invecchiamento attivo e la non autosufficienza, il lavoro, la famiglia e le pluralità delle forme di convivenza civile). È necessario, insomma, ripensare i programmi di welfare nell’ambito, comunque, di un riconoscimento e una valorizzazione dei suoi principi di fondo, quali l’universalismo, l’uguaglianza, la partecipazione, la dignità del lavoro e la sicurezza economica, la giustizia sociale e l’inclusione.

Un fascicolo speciale di Prospettive sociali e sanitarie, la rivista edita da IRS, che da più di cinquant’anni analizza e racconta a tutti noi le trasformazioni del welfare, potrebbe essere un luogo significativo per avviare una discussione su questi temi, presentare esperienze innovative, proporre misure di welfare che intendano affrontare i rischi globali di una società altamente individualizzata1.

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