La casa come servizio
Il discorso sulle pratiche (e quindi sulle politiche) abitative apre oggi all’immaginario di un abitare leggero, in cui l’alloggio è a tempo, oppure usato in modo parziale, condiviso, su misura di quel che serve e, comunque, per lo più in locazione. E’ questa una prima accezione in cui un’interpretazione virtuosa della “casa come servizio” mette essenzialmente al centro la rilevanza di un mercato della locazione che sia in grado di fornire risposte adeguate, regolate e differenziate in termini di tipologie e costi ad una domanda abitativa assai più articolata che in passato.
Secondo questa linea, sul fronte dell’edilizia sociale, l’alloggio è inteso sempre più come “servizio abitativo”1 – pubblico o sociale – volto ad alleviare le problematiche abitative di individui o famiglie che si trovano in una fase di temporanea difficoltà economica, entro una prospettiva di mobilità nel breve medio termine verso altre soluzioni abitative di mercato. L’interpretazione dell’abitazione come servizio è divenuta rapidamente il riferimento per azioni che mirano essenzialmente ad un uso più efficiente e alla valorizzazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica esistente proprio a partire da una temporaneità dell’uso, in contrapposizione alla prevalente concezione per cui l’alloggio pubblico è, di fatto, assegnato a tempo indeterminato.
Un ripensamento profondo dei modi e delle forme dell’abitare risulta oggi fondamentale per poter immaginare politiche abitative che siano adeguate all’evoluzione di bisogni che sono strutturalmente diversi rispetto a quelli che hanno caratterizzato in passato il disegno delle politiche della casa. E però uno sguardo ravvicinato consente di evidenziare contraddizioni e inerzie che invitano a considerare in modo accorto le implicazioni di una definizione de “la casa come servizio” a seconda dei contesti e dei soggetti interessati. Inoltre, sembra evidenziarsi una sorta di polarizzazione: da un lato, quando i servizi abitativi sono pubblici, l’orientamento è a promuovere se non ad ingiungere turn-over e mobilità; dall’altro, quando i servizi abitativi sono sociali (ovvero non direttamente pubblici e orientati verso fasce di ceto medio-basso), si auspica radicamento e permanenza.
Quando la casa è l’unico punto fermo
Diventare assegnatari di un alloggio di edilizia residenziale pubblica (variamente intesa) non è da tutti. I requisiti sono fortemente selettivi. Non è sufficiente un basso reddito, e neppure un reddito precario o intermittente. L’offerta di alloggi pubblici è tanto sottodimensionata rispetto al bisogno che generalmente ad essere beneficiari sono profili di individui o nuclei familiari cosiddetti multiproblematici. Chiunque abbia avuto a che fare in modo ravvicinato con contesti di edilizia sociale si è misurato con la percezione che, a fronte di una forte vulnerabilità in diversi ambiti della vita, per molti inquilini l’alloggio è stato negli anni l’unico “punto fermo”. La casa e l’abitare – il verbo che ne estende la portata – hanno uno straordinario portato simbolico nel definire stabilità, radicamento e identità. Tanto più quando la casa costituisce l’emblema di un supporto pubblico, quando ha la consistenza del welfare materiale.
Nel corso del novecento, in molti quartieri di edilizia residenziale pubblica, il saldo della popolazione è stato alimentato negli anni dalle dinamiche naturali ma anche dal turn-over determinato dalla fuoriuscita di coloro che via via, accedendo a migliori condizioni di reddito, hanno avuto accesso al mercato della locazione o, più spesso, della proprietà. Casa e lavoro sono risultati a lungo saldati in una prospettiva di crescita e di aumentato benessere. A partire dagli anni ’80, in modo generalizzato, la produzione di nuovi alloggi pubblici è andata riducendosi fino a diventare irrisoria, mentre la domanda – anche a causa di una precarizzazione crescente del lavoro – è andata aumentando insieme alle condizioni di degrado di molti quartieri che hanno patito minori risorse per la loro manutenzione e cura. In molti casi, a fronte della crisi dei quartieri, gli inquilini che potevano affrontare i costi si sono spostati altrove, accentuando in qualche misura il carattere residuale dell’offerta e la concentrazione di individui e nuclei fragili.
In corrispondenza di un progressivo orientamento neo-liberale, nelle città europee si è dibattuto a lungo sulla possibilità di una valorizzazione e un utilizzo più efficace degli alloggi di edilizia residenziale pubblica esistenti. Si tratta di una questione complessa, che in Italia è stata in buona parte alimentata dalla svolta aziendalistica degli enti gestori che ha portato a misurarsi con attese di sostenibilità economica mai realmente verificate. Le inefficienze di lungo corso nella gestione degli alloggi e proventi da canoni di locazione irrisori hanno fatto da sfondo alle opportunità di mettere a reddito un patrimonio immobiliare cospicuo. Insieme ai programmi di vendita del patrimonio si sono avviati programmi di valorizzazione che prevedono una parziale destinazione dello stock esistente a inquilini in grado di corrispondere canoni più elevati.
E’ in questo quadro che la retorica sull’abitazione come servizio si è andata rapidamente diffondendo: in corrispondenza di un dibattito critico sull’utilizzo del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, di un forte accento sui caratteri leggeri, temporalmente definiti, mutevoli e mobili dell’accesso e dell’uso che si fa di un’abitazione.
L’idea che l’alloggio pubblico possa essere oggi assegnato come soluzione temporanea, quale forma di protezione sociale a tutela di un momento di criticità della vita individuale o familiare, mostra i suoi limiti nel confronto pratico con una struttura del mercato del lavoro che è fortemente contrassegnata da temporaneità, precarietà dei contratti, redditi bassi e discontinui (Castel, 1995). Gli assegnatari di un alloggio di edilizia residenziale pubblica vivono generalmente condizioni lavorative e di reddito tali per cui è difficile che possano nel medio termine consolidare la propria posizione tanto da accedere ad altra soluzione abitativa. Appare sempre più evidente che un uso dell’alloggio pubblico come servizio temporaneo si potrà affermare solamente a condizione di politiche di sviluppo e tutela dell’occupazione e di politiche e servizi sociali che siano attivamente in grado di supportare individui e nuclei familiari nel conseguimento di un grado di autonomia (in termini di capacità oltre che di reddito) tali da poter effettivamente consentire il rilascio dell’alloggio pubblico.
Quando l’abitare sociale diventa inerzia al cambiamento
Le criticità non sono solo sul fronte dell’alloggio pubblico. Nei progetti e nelle pratiche, emergono con evidenza anche altri fattori di inerzia. Nel caso del cosiddetto “Housing sociale” l’accesso alla casa è subordinato all’adesione a un modello abitativo, comunitario e gestionale, che implica anche un investimento di natura emozionale ed ideologica. Nella maggior parte dei progetti di residenza collettiva orientati alla ricerca di un connubio tra contenimento dei costi, innovazione delle forme dell’abitare contemporaneo e sostenibilità finanziaria degli interventi, l’interpretazione dell’alloggio come servizio, la condivisione e l’agire collaborativo sono messi in gioco quali elementi centrali. In queste esperienze è esplicitato spesso un riferimento a modelli comunitari per lo più centrati sulla prossimità e sull’integrazione nel progetto della residenza di una molteplicità di servizi e attività collettive. Per molti versi, proprio mentre si sostiene l’idea che l’alloggio sia un servizio, un fattore a supporto di un’esistenza che in vari e differenti lidi potrà dispiegarsi, l’accesso stesso ai progetti abitativi è subordinato all’adesione ad un modello di organizzazione e gestione, nonché in senso più lato alla disponibilità ad investire nel fare e riprodurre una comunità localizzata (Bricocoli, de Leonardis, 2014).
Il richiamo alla comunità è esplicito sin dalla fase di progettazione della residenza collettiva: si individuano i potenziali inquilini, si procede ad una progressiva selezione che prevede spesso la partecipazione a momenti di socializzazione e scambio nonché a valutazioni sul profilo di reddito di singoli e nuclei familiari. C’è dunque uno scarto tra la retorica dell’abitazione sociale come servizio, come situazione transitoria, e le formule che permeano i progetti in cui l’abitare sociale è fortemente orientato alla condivisione, al radicamento, allo sviluppo di comunità entro una logica che potremmo quasi dire “proprietaria”. Il “metter su casa” – in uno specifico luogo, in uno specifico contesto, entro specifiche condizioni, avviene con un investimento importante rispetto ad altre variabili e dimensioni del vivere (il lavoro, gli affetti, altre attività associative).
Mobili e immobili
E’, dunque, bene essere cauti rispetto all’estensione generalizzata di un’interpretazione che alleggerisce il peso dell’abitazione, ne fa un costrutto leggero marcandone il carattere di servizio. Il rischio è di considerare in modo indistinto le conseguenze che flessibilità e mobilità che connotano organizzazione dell’economia e del lavoro hanno sulle vite individuali. Profondamente diversa è infatti la condizione di mobilità che contraddistingue i quadri di una multinazionale rispetto a quella di flessibilità e precarietà di un lavoratore atipico a basso reddito (Boltanski e Chiappello, 1999).
Un conto è riferirsi all’abitare temporaneo e multi-locale dei “mobili”, di coloro che hanno possibilità di scelta e per i quali l’opzione della flessibilità è condizione per valorizzare e migliorare la propria posizione sociale ed economica. Certamente essi esprimono una domanda abitativa e richiedono un’innovazione progettuale e regolativa che promuova risposte più adeguate che in alcuni casi devono integrarsi a politiche di supporto all’autonomia, come è il caso degli studenti e dei giovani più in generale (Bricocoli e Sabatinelli, 2014). Ben diverso è però il caso in cui alla mobilità delle condizioni lavorative corrisponde un’immobilità della condizione esistenziale, un’immobilità non solo sociale ma anche spaziale e abitativa. È questa una condizione che costruisce insieme una ‘miseria di posizione’ (Bourdieu, 2015, p. 41) e una forte identità che è radicata non solo nel quartiere in cui si abita, ma sin anche nel palazzo, nel civico, nella scala e poi nell’alloggio che per molti costituisce l’unico punto fermo entro una sequenza di vicende personali e lavorative fortemente destabilizzanti.
La possibilità di praticare una definizione di casa come servizio presume dunque “una più ricca idea di abitare – azione, relazione, iniziativa degli abitanti, oltre che spazio-oggetto” (Tosi, 2008, p. 38). Richiede di considerare e comprendere la molteplicità dei fattori (strutturali e contingenti, che afferiscono al contesto sociale e a condizioni personali) che orientano e influenzano le traiettorie abitative dei singoli. Queste indicazioni – circa un’interpretazione più articolata dell’abitare e non come semplice tetto sulla testa – sono state recepite solo in modo marginale dall’azione pubblica e dalle pur innovative proposte che talora si sono espresse su iniziativa del terzo settore. In questo quadro, in assenza di un disegno di policy che integri in modo più significativo politiche abitative e politiche sociali, attraverso concrete misure di promozione e sviluppo e di capacitazione dei soggetti più fragili, l’interpretazione dell’abitazione sociale quale servizio presenta criticità di non poco conto e richiede di essere messa in discussione.