Serve fare i piani di zona dei servizi sociali?


Maurizio Motta | 15 Settembre 2022

La legge 328/2000 (all’art. 19) ha introdotto i Piani di Zona dei servizi sociali come atto ordinario di programmazione periodica dei Comuni o dei loro Enti gestori dei servizi sociali; ma se si osserva quale sia l’attuale stato di produzione ed utilizzo di questi piani si rileva una enorme differenza nei diversi territori, sia regionali sia locali, da governi locali che adottano con continuità questo strumento di programmazione ad altri territori che da molti anni non lo usano per nulla.

Gioca un ruolo sicuramente importante l’azione che le Regioni mettono in opera sul tema, tra i due estremi di Regioni che hanno assunto atti dedicati a questa programmazione e gestiscono sia procedure di raccordo con i governi locali sia supporti dedicati, e Regioni che invece poco o nulla hanno investito sul tema, o nel tempo lo hanno abbandonato. Ma in questo articolo si intende discutere questo snodo: ammesso che si consideri il Piano di Zona uno strumento rilevante per il governo locale dei servizi, che cosa può rendere difficile adottarlo con continuità? E dunque quali miglioramenti possibili merita individuare? Ecco un elenco di questioni per questa riflessione:

 

Atti di programmazione locale troppo scollegati?

Sin dalla loro introduzione nella legge 328/2000 non sono stati previsti meccanismi formali di legame strutturale tra i Piani di Zona e gli altri atti che hanno di default la funzione di programmazione delle risorse in base a scelte di governo locale, soprattutto i bilanci annuali e poliennali. Questo scollamento ha favorito il rischio di una produzione del Piano di Zona come atto che sul piano formale può anche essere del tutto indipendente dagli altri atti di programmazione locale che davvero regolano l’uso delle risorse. Il che produce alcuni rischi: impegnare i governi locali in almeno due processi di programmazione che possono anche essere del tutto separati (la costruzione dei bilanci e quella dei Piani di Zona), lo svuotamento del ruolo del Piano di Zona nel disporre l’uso delle risorse finanziarie per dar corpo alle scelte di merito (visto che tale disposizione si concretizza davvero solo negli atti di bilancio) e quindi il rischio di un Piano di Zona che diventa “solo un documento di intenzioni”.

Peraltro la normativa sui bilanci nei governi locali si è nel tempo arricchita di interessanti meccanismi, come la natura delle relazioni di merito che devono accompagnare i bilanci consuntivo e preventivo, o l’abbinamento agli atti di bilancio di impegni formali che individuano le azioni da mettere in atto anche a cura dei Dirigenti dei servizi (nei Piani Esecutivi di Gestione e nel Piano delle Performance). Mentre, per contro, tutto il legame tra i Piani di Zona e questo crescente sistema programmatorio è stato lasciato solo ad iniziative locali.

Dal luglio 2022 è stato introdotto1, anche per i Comuni e ASL, il PIAO (il Piano Integrato di Attività e Organizzazione) che tra l’altro sostituisce i “piani per la performance” e il piano dei fabbisogni di personale. Diventerà un’opportunità o permane il rischio di iperaffollamento di contenitori istituzionali per la programmazione in capo ai comuni ed enti gestori, che implicano moltiplicazione dei costi organizzativi per redigerli?

Troppi piani nazionali e flussi di risorse separati?

Il Piano di Zona è figlio di un modello di programmazione nel quale si ipotizza che un governo locale dei servizi sociali (Comune o organismo associativo dei Comuni) possa in uno specifico momento disporre di tutti gli elementi per definire le priorità da affrontare, e contestualmente di tutte le risorse (umane, strumentali, finanziarie) per le quali scegliere un utilizzo coerente con gli obiettivi di programmazione. Ed inoltre la ciclicità dei Piani di Zona (ogni tre anni) ipotizza che questo scenario di opportunità si ripresenti costantemente. Da sempre questo modello mostra limiti di ingenuo semplicismo, ma negli ultimi anni si sono molto rafforzate dinamiche che spingono verso l’abbandono di una programmazione ciclica che possa occuparsi in un unico momento dell’intera rete dei servizi sociali (e del relativo insieme di risorse) come modalità di funzionamento ordinaria degli enti gestori, costringendo invece ad uno slittamento verso atti di programmazione episodici, dedicati solo a specifiche aree di bisogno, con flussi di risorse riservati a singoli temi; atti peraltro spesso non coordinati tra loro. Tra le dinamiche che spingono in questa direzione merita ricordare, soltanto come esempi, ovviamente il PNRR, che impone propri tempi di programmazione, ma anche molti altri atti nazionali di grande rilievo programmatorio (e che forniscono risorse dedicate) che producono necessità nei governi locali di costruire piani in specifici momenti, tra di loro separati, ad esempio il “Piano per la non autosufficienza”, il “Piano Nazionale degli interventi e dei servizi sociali, ilPiano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva”.

Questa esigenza dei servizi e governi locali di “correre dietro a diverse scadenze programmatiche” e di “produrre in successione molti piani monotematici” è un fenomeno accresciuto anche dal crescere delle diverse fonti di finanziamento utilizzabili, di fonte europea, nazionale e regionale. Con due connotazioni: il proliferare di fondi che sono riservati a specifici interventi anche se questi fanno ormai parte organica del sistema di welfare (solo per fare qualche esempio: il Fondo “dopo di noi”, il Fondo caregiver familiari, il Fondo sostegno per la locazione, quello per le morosità incolpevoli, quello per i minori stranieri non accompagnati), ed una crescente tendenza a creare nuovi flussi finanziari (per molte finalità che coinvolgono i servizi sociali) che devono essere richiesti accedendo ad un apposito bando con specifiche scadenze temporali, oppure  mettendo in opera l’attivazione dei vari “bonus” per i cittadini. È uno scenario che rende molto frammentati sia l’insieme dei criteri di merito da adottare nei servizi locali, sia i dispositivi per l’accesso alle risorse2.

 

Tempi per il Piano di zona troppo lunghi?

Il procedimento del Piano di Zona è stato ideato (e così gestito in molte esperienze) per costruire una programmazione partecipata, che raccogliesse le letture dei bisogni e le proposte di molti soggetti sociali del territorio; ed anzi con l’obiettivo di dare continuità a questa forma di governance. C’è però da chiedersi se questo processo non richieda tempi troppo lunghi, di fatto incompatibili con quelli necessari per la programmazione locale se questa deve servire a dislocare risorse e introdurre riordini con modalità tempestive in seguito ai mutamenti dei bisogni. Ossia se si possa verificare un contrasto tra il respiro temporale che occorre per un processo di programmazione partecipato e ciò che va fatto per non governare con ritardo riordini necessari.

Chi governa i servizi sociali locali?

Il Piano di Zona presuppone che tutte le funzioni sociali di un ambito locale siano gestite da un unico soggetto, ossia che operi la responsabilità di un governo unitario della rete dei servizi in un territorio. Ma sul tema permangono forme di governo locale dei servizi sociali che non includono tutte le funzioni in capo ad un unico ente gestore (comunque sia denominato, Consorzio o Unione o Ambito), ma invece prevedono spezzettamento di funzioni sugli interventi sociali nel territorio, in parte ai comuni singoli, in parte agli enti gestori. Questo scenario è anche prodotto da modelli troppo disomogenei nelle diverse regioni delle forme di governo associativo dei comuni, con incentivi e vincoli inadeguati a garantire una effettiva gestione associata. Ed anche da eccessive differenze nella messa a disposizione delle risorse da parte dei comuni singoli verso il loro soggetto gestore, il che lo indebolisce o ne complica la capacità. Dunque se il governo territoriale è frantumato, chi può davvero programmare che cosa nella rete dei servizi a livello locale?

 

L’area sociosanitaria

Diventano sempre più rilevanti i problemi dei cittadini che hanno natura sociosanitaria, sia per la loro crescente numerosità sia per la grave distanza tra bisogni e risposte carenti del welfare, ed a tutti è evidente la gravità ed estensione dei problemi di tutela dei non autosufficienti. E sono problemi che richiedono sia un forte impegno del SSN, sia necessariamente robuste intese tra Enti gestori dei servizi sociali ed Aziende Sanitarie. Entro la logica dei Piani di Zona questo significa (come prevede la legge 328/2000 all’articolo 19) approvare il Piano di Zona anche in esito ad un accordo di programma formale tra Ente gestore dei servizi sociali ed ASL. Ma almeno due questioni possono indebolire le scelte sul punto:

  • Nella normativa nazionale (a partire dai LEA) non è adeguatamente previsto un impegno primario del SSN nell’assistenza tutelare (non sanitaria, ma di supporto negli atti della vita quotidiana) dei non autosufficienti, in particolare nell’assistenza al domicilio. Col rischio che di fatto si scarichi solo sui servizi sociali (sulle famiglie) questo tipo di intervento, e che ci si avviti in contenziosi locali tra Asl e Comuni su chi deve fare che cosa. Peraltro sul tema vi sono grandi differenze nei modelli di intervento previsti dalle diverse Regioni.
  • Le ASL sono in grado, o sono sufficientemente motivate, per utilizzare la procedura di concertazione dell’accordo di programma, per i Piani di Zona, che incide anche sulla loro programmazione interna? E le Regioni hanno previsto un impegno delle ASL nel partecipare ai Piani di Zona?

Rischio di confondere le sedi per decidere?

Negli ultimi anni, anche in esito alla riforma del Terzo settore, sono cresciute le esperienze e le intenzioni di costruzione di rapporti tra Enti gestori e Terzo settore non solo per la coprogettazione di interventi, ma anche per la coprogrammazione su aree di problemi. E’ dunque interessante chiedersi se questa dinamica non possa nascondere qualche rischio, ad esempio la tentazione per servizi e governi locali di interpretare la coprogrammazione col terzo settore come uno spostamento di fatto solo entro quell’arena decisionale (nonché negoziale) di scelte rilevanti, anche di profilo strategico sulla rete dei servizi che devono essere assunte dall’ente pubblico. Questo possibile spostamento può diventare una criticità se quel contesto decisionale (che è limitato al terzo settore, il quale peraltro è fisiologicamente interessato a gestire progetti/servizi) sostituisce di fatto la logica del Piano di Zona, che era nato per essere una procedura che fa concorrere alla programmazione un ampio insieme di diversi soggetti sociali, anche non del terzo settore e con ruoli/interessi molto diversi

 

Strumenti per conoscere

Programmare implica conoscere e gestire informazioni, e la programmazione locale dovrebbe non eludere dunque diverse piste di lavoro:

  • Individuare meglio (anche nel dibattito tecnico scientifico) gli indicatori che davvero servono a monitorare l’efficacia della programmazione dei servizi, ad esempio per misurare “risultati di benessere delle persone”, e non solo “aumenti degli interventi e degli utenti”. Ed approfondire quali domande è utile farsi per programmare, ad esempio: “quali sono i tempi di risposta non adeguati?”, “quali sono i bisogni sui quali non si riesce a intervenire?”, “quali sono i trend dell’incidenza (i nuovi casi) su problemi diversi?”, “come rilevare miglioramenti di benessere”?
  • Disporre nei servizi locali di sistemi informativi gestionali (ossia funzionanti in continuo come ordinario strumento di gestione delle attività) costruiti anche per produrre sistematicamente i report e gli indicatori per la programmazione. Oggi Enti e servizi locali sono bombardati da richieste di popolare flussi di dati (verso Regioni e Stato) che spesso implicano compilazioni ad hoc, spesso esterne alle informazioni gestionali presenti, e spezzettate tra loro. Dovrebbe essere in corso la progettazione del SIUSS (il Sistema Informativo dei Servizi Sociali); lo si disegna anche per evitare ai servizi locali di dover fornire dati “oltre” a ciò che ricavano dai sistemi gestionali? E affinché fornisca ai governi locali report utili per programmare?
  • Il Piano di Zona coinvolge operatori ed amministratori. Dunque non va sottovalutata la necessità per gli operatori di saper informare con costanza i decisori (dirigenti ed amministratori) su come il sistema dei servizi risponde ai bisogni, ma con linguaggi comprensibili, esponendo comunicazioni fondate su evidenze, e dalle quali trarre proposte ben documentate.

 

In conclusione ci si potrebbe chiedere se produrre i Piani di Zona conviene ancora o no. Ossia se implicano per gli enti e servizi locali un impegno ed un costo organizzativo così rilevante che non compensa i vantaggi che ne derivano. E se conviene dunque di più attrezzarsi per non perdere le opportunità offerte dal mix dei bandi e progetti settoriali, privilegiando in questo modo l’obiettivo dei processi programmatori di massimizzare l’uso delle risorse (obiettivo che è certamente rilevante), ma trascurando quello di costruire le scelte sia in modo partecipato sia con un orizzonte sull’insieme dei bisogni e servizi.

Oppure, ad evitare che l’eventuale Piano di Zona scivoli verso il divenire una riscrittura di scelte già fatte in altri momenti e sedi, o una rituale liturgia di incontri, se non sarebbe utile introdurre miglioramenti per ridurre i rischi sin qui esposti, sia nella normativa (nazionale e regionale) sia nelle prassi locali.

  1. Con la legge 6/8/2021 n°113 e il decreto dei Ministeri dell’Economia e della Pubblica Amministrazione 22/6/2022
  2. Una discussione sui limiti di finanziamenti dei servizi che si ottengono solo partecipando a bandi è in un articolo di Maurizio Motta pubblicato su questo sito.