Verso un welfare senza territorio?
La sfida che attende il nuovo welfare è come contrastare, e possibilmente rovesciare, il ciclo di ineguaglianze economiche e sociali che si espandono, e minacciano componenti fondamentali della sicurezza di vita, come la sanità, la scuola, il reddito, l’abitazione. Alle diseguaglianze da insicurezza si aggiungono poi quelle “diseguaglianze di riconoscimento”, che deprimono lo status del lavoro produttivo, rispetto alle rendite politiche e ai lavori fluidi dell’immaginario digitale. L’insieme delle diseguaglianze – reddituali, sociali, di riconoscimento – si muove lungo faglie territoriali, che colpiscono soprattutto aree marginali, come le periferie urbane, le aree rurali interne, le regioni di frontiera. In tal modo le società locali sono state immesse nello spazio inesplorato di un “welfare senza territorio”, popolato di precarietà, povertà, sofferenze, e di persone abbandonate al destino di veri e propri “migranti sociali”.
Una retorica male intesa della devoluzione e della sussidiarietà verticale, invece di incoraggiare sforzi comuni, ha nella crisi incoraggiato ogni livello istituzionale a scaricare sul superiore le proprie impotenze ed irresponsabilità: il comune sulla regione, la regione sullo stato, lo stato sull’Europa. Con il risultato di attizzare le propensioni all’autotutela esclusiva tra simili, in una logica “della tana” dalle conseguenze politiche generali preoccupanti.
Inoltre, nella crisi degli istituti di protezione universalistica pubblica, e nel correlativo indebolimento dei diritti sociali di cittadinanza, si fa più forte la tendenza a (re)introdurre dispositivi di protezione sociale basati su appartenenze ristrette: categoriali, aziendali, più raramente territoriali, e al ricorso diretto al mercato assicurativo privato.
Le forme e gli intrecci risultanti, coperti dalla definizione estensiva di “secondo welfare” e sorretti da incrementate facilitazioni fiscali, prescindono ormai dalla necessità di inserirsi in un quadro ordinato, per livelli istituzionali fra loro raccordati, come fu nei sistemi disegnati dalle riforme del welfare tra il 1975 ed il 2000.
Il riferimento al territorio, là dove permane, resta affidato a logiche di “responsabilità sociale d’impresa” o bilateralità categoriale, che non mirano a consolidare in modo organico i rapporti fra sistema delle imprese, soprattutto medio grandi, ed il retroterra sociale, da cui traggono forza lavoro e condizioni insediative, ma in condizioni di “ancoraggio temporaneo”.
Dal decentramento dei servizi alle politiche regionali di promozione
Sarebbe improprio ritenere che le nuove modalità di autotutela si pongano in continuità con le forme di attivazione spontanea a base locale, che precedettero la richiesta di protezione sociale ottenuta con la legislazione statale, come insegna la storia del welfare del ‘900. Ancor meno opinare che tutto ciò equivalga ad una “riappropriazione” a scala locale delle attività di protezione, mentre le politiche sociali, salariali, educative e sanitarie restano ancora, più o meno saldamente, nelle mani dei governi nazionali.
Ai livelli istituzionali inferiori il territorio viene tuttavia ancora identificato come l’ambito più adatto per costruire dei sistemi di protezione sociale basati sull’offerta di servizi.
Ma in questa dimensione le politiche stanno allontanandosi dal principio dei modelli uniformi replicabili “a cascata”, basati sulla equivalenza dei diritti (posto che l’abbiano mai implementati realmente) e degli schemi amministrativi conseguenti. Puntano piuttosto a rimodulare dei sistemi di welfare che nei mix di una virtuosa collaborazione fra pubblico e privato nelle diverse situazioni locali consentirebbero di elevare le quote di utenza, reperire nuove risorse e diffondere modalità più efficaci di intervento.
Il livello regionale, ad esempio, viene chiamato in causa dall’idea di finanziare le prestazioni aggiuntive al servizio sanitario nazionale, attraverso fondi integrativi, aperti a tutti i cittadini della regione e dedicati a specifiche tematiche: ad esempio una proposta proveniente dalla Regione Emilia Romagna in materia di non autosufficienza ipotizza la costituzione di un fondo, finanziato da risorse pubbliche, welfare aziendale, contributi dei cittadini su base volontaria, che abbia per obiettivo l’ampliamento dei buoni servizio e la valorizzazione e il sostegno dei caregiver familiari (Censis, 2015).
La via alla protezione sociale “comunitaria e pluralistica “sarebbe così una leva anche economica che sostiene la domanda sociale di prestazioni ed iscrive il welfare nel quadro di politiche regionali attive del lavoro e della crescita.
Orientamento pluralistico territoriale non dissimile è dato rinvenire nello schema del programma We Care, con cui la Regione Piemonte propone ai Distretti di Coesione Sociale (prospettata evoluzione degli Enti gestori socio assistenziali) di muoversi in partenariato con altri enti pubblici, organizzazioni di terzo settore e imprese for profit, al fine di far crescere un welfare proattivo, inteso – si noti – come rafforzamento delle potenzialità individuali “piuttosto che come ambito a cui è affidato il compito di alleviare i disagi delle persone in difficoltà” (Regione Piemonte).
Un modo per formulare, non senza equivoci, la distanza che separa un welfare risarcitorio riparativo ed un nuovo welfare promozionale e proattivo. We Care supporta con finanziamenti derivati da fondi europei (FSR e FESR; la sanità è fuori della concertazione interassessorile che lo ha generato) la stimolazione di processi collaborativi, inseriti in reti territoriali di partenariato, che si adoperano per la produzione di servizi innovativi, in particolare rivolti alla assistenza di prossimità.
Fermi ed auspicati i benefici attesi dalla nuova ingegneria istituzionale e programmatoria, ci si può chiedere se la mancata definizione di livelli essenziali e standard, che consente alla varietà degli attori sul territorio di convenire sugli obiettivi e di cooperare fra loro e con le istituzioni pubbliche nella realizzazione concreta delle prestazioni, non finisca per amplificare le diseguaglianze di accesso e fruizione, esistenti fra territori forti ed aree marginali, piuttosto che ridurle.
Sostenere e sviluppare i territori marginali
Mentre nella prospettiva descritta il welfare è orientato a promuovere alcune condizioni dello sviluppo economico e territoriale, l’approccio complementare individua nel territorio il luogo dove reagire agli effetti di marginalizzazione derivanti dalle dinamiche economiche globali, e recuperare livelli di qualità della vita a repentaglio.
Va in questa direzione la Strategia nazionale delle aree interne (SNAI), che propone interventi in aree rurali e montane, colpite dai segni della crisi: spopolamento; invecchiamento; diminuzione dei giovani residenti; declinante manutenzione dell’ambiente naturale e delle infrastrutture; elevato rischio ambientale; abbandono dei servizi pubblici e privati; peggioramento della loro qualità. La Strategia (place-based) ambisce a dare ai luoghi in difficoltà, ed alle persone che li abitano, una maggior dotazione di servizi essenziali, accessibili e di qualità. Sono state così selezionate in Italia 72 aree-progetto, per un totale di 1.014 Comuni con 2 milioni di abitanti (3% della popolazione italiana, 16.7% del territorio, media di 29.000 abitanti per area). Vi saranno allocati circa 800 milioni di euro, di cui 35% destinati a servizi essenziali – istruzione, salute e trasporti- finanziati con risorse nazionali, 65% ad interventi, finanziati dalle Regioni con i fondi europei per la coesione, che mirano a dotazioni infrastrutturali per promuovere l’attività economica (Barca, 2017).
Alla base della strategia si pone l’assunto che la cooperazione fra attori locali coalizzati e centri di competenza esterni sia essenziale per promuovere l’innovazione sociale, nonché per favorire una cooperazione fra Comuni che eviti i rischi spartitori, come accaduto in precedenti esperienze di “Patti territoriali”, e riesca a dare rappresentanza nel processo attuativo ai gruppi deboli, principali destinatari delle politiche adottate.
Un altro elemento che differenzia la SNAI dal tradizionale decentramento sub regionale è il fatto che i confini delle aree dove si attuano gli interventi non siano predefiniti secondo le griglie amministrative ordinarie, ma disegnati attraverso il progetto e verificati nel processo di attuazione. Resta centrale, in questo schema, la dimensione istituzionale dei Comuni associati, ma alla retorica sull’autosviluppo volontaristico in luoghi in abbandono, che un po’ ricorda la pretesa del Barone di Munchausen di sollevarsi da terra tirandosi su per i capelli, si contrappone l’esigenza di un quadro certo di legislazione, accompagnamento tecnico e finanza dedicata, atto a promuovere condizioni di investimento, piani di spesa e ritorni di valore aggiunto economico sociale. Da un welfare locale in grado di offrire servizi essenziali in tema di sanità, istruzione e mobilità ci si attende quindi un apporto atto a migliorare le condizioni di vita e frenare i processi di spopolamento e di abbandono.
Le coalizioni di attori
Esperienze e iniziative come quelle citate hanno un loro punto nodale nella selezione e coalizzazione di attori – civili sociali economici istituzionali – che “hanno qualcosa da dire”, “sanno qualcosa che concorre alla ricerca di soluzioni”, “sono disposti a mettersi in movimento”. A differenza della SNAI, il modello SLoT di sviluppo territoriale insiste maggiormente sulla valorizzazione delle reti sociali locali esistenti e sulla loro connessione con reti sovra locali in un gioco libero di fiducia orientato all’autosviluppo (Scolfaro, 2017).
La questione delle coalizioni per lo sviluppo mette in evidenza come la diversità degli orientamenti d’azione degli attori, pubblici, associativo-volontari ed economici, che intervengono nei processi possa variamente orientarne le prospettive e gli esiti. Il volontariato e le altre forme organizzate del terzo settore, che hanno come riferimento essenziale l’aiuto concreto alle persone in difficoltà si muovono nella logica di un welfare contingente ed a bassa soglia, per così dire, anche se non privo di servizi innovativi. Le imprese sociali convenzionali, che si inseriscono nel quadro di appalti e commesse di un settore pubblico che esternalizza servizi, dipendendo dalla continuità e rilevanza dell’offerta subiscono i contraccolpi di una offerta pubblica in ritirata. L’attivazione che costruisce reti relazionali di forte valenza generativa può per contro tendere alla formazione di soggetti dell’economia sociale cooperativa (“imprese di comunita”: Euricse, 2016), che combinano le risorse di diversi stakeholders e portatori di risorse finanziarie ed esplicitamente le orientano allo sviluppo della comunità locale. Il civismo solidale per la cura e rigenerazione dei beni comuni (Labsus, 2015), che si esprime attraverso patti di collaborazione con le istituzioni locali, concorre al mantenimento di una infrastruttura di coesione sociale, che di per sé costituisce un bene comune da preservare e sviluppare. In breve, la varietà delle esperienze di coalizioni richiede un metodo – che chiamerei di “mezzadria sociale” – atto a nutrire la fiducia fra gli attori, equilibrando l’interesse al perseguimento di beni comuni, generati in modo indivisibile dalla coalizione stessa, con l’attesa di ritorni economici e sociali, conseguiti attraverso sforzi specifici e giustamente attribuiti a chi li compie.
Coscienza dei luoghi e visione di sviluppo.
Nelle nuove dinamiche il ruolo delle istituzioni locali non si riduce, ma si affina per visione strategica e competenza di governance. Lo sviluppo delle comunità locali verso una migliore qualità di vita richiede alle istituzioni locali di saper mettere in relazione le risorse potenziali presenti nell’ambiente sociale e culturale di riferimento con le attività specifiche di rilevanza professionale dei soggetti, che organizzano prestazioni e offrono servizi per la protezione delle fragilità sociali.
Una variabile cruciale è perciò il modo in cui una società locale – nelle sue diverse espressioni: istituzionale, associativa, economica – riesca a guardare al proprio territorio non come spazio neutro, circoscritto da barriere amministrative e funzionali, ma come un complesso di sedimentazioni fisiche, morfologie ambientali, saperi e competenze, pratiche e relazioni sociali, istituzioni, che assegnano al luogo le sue proprietà distintive (Becattini, Magnaghi, 2015). Lo sforzo di comprendere storia e vocazione dei territori si completa allora col lavoro intenzionale di far emergere collegamenti e instaurare rapporti operativi, come espresso nell’immagine di “stringere le viti” con un attrezzo progettuale ben manovrato, capace di combinare in forma decente i pezzi a disposizione, produrre i pezzi mancanti e sostituire i pezzi usurati. Soprattutto nell’investimento in quei servizi di base (salute, educazione, socialità primaria) che sostengono il recupero e lo sviluppo di competenze umane e personali, individuali e collettive.
Nonostante la revivescenza di vecchi miti, che assimilano i popoli ad alberi piantati da qualche parte, una società locale attiva sa bene gli uomini non sono piante, che le radici imprigionano, che ciò che è animato è mobile, che ciò che non si muove più è definitivamente morto. Vorrebbe mandare definitivamente in pensione la vecchia idea stereotipata del “paese che vuol dire non essere soli”, perché “siamo tutti di noi”. Forse è da dire, non poco ironicamente, che proprio questo è il problema.