Trump inaugura la nuova stagione della crudeltà verso immigrati e minoranze
Maurizio Ambrosini | 10 Febbraio 2025
Le politiche migratorie, e più precisamente le politiche di chiusura verso immigrati e rifugiati, sono una bandiera delle forze della destra populista e uno dei temi più enfatizzati nelle loro campagne elettorali, forse il più rilevante in assoluto.
Trump è l’esempio più notevole sia del successo di queste campagne, sia dell’estremizzazione del linguaggio e delle soluzioni proposte. Se qualcuno forse si illudeva che nel passaggio dalla propaganda alla responsabilità di governo i toni si sarebbero attenuati, il neo-presidente lo ha decisamente smentito. Il filo rosso che collega la gragnuola di ordini esecutivi emanati da Trump al suo ritorno alla Casa Bianca è l’avvento al potere di una disumanità esibita, senza remore e freni inibitori. Il disprezzo verso valori umanitari, obblighi sanciti a livello internazionale, impegni assunti, tradizioni giuridiche, non potrebbe essere più manifesto e implacabile.
Trump ha dunque scatenato una campagna ad ampio raggio su entrambi i versanti delle politiche migratorie: quello degli ingressi e quello dell’integrazione sociale degli immigrati residenti sul territorio.
Muri e deportazioni
Sul fronte della gestione degli ingressi e del presidio dei confini, Trump ha rilanciato il suo antico progetto, quasi un simbolo del suo approccio alla questione: il completamento del muro alla frontiera con il Messico. I muri ai confini hanno una lunga storia, sono oggi almeno 70 nel mondo, più sette in costruzione, sono ritornati anche in Europa, e hanno recuperato il loro antico significato simbolico: separare i cittadini dai barbari, i residenti legittimi dagli invasori illegittimi, un paese pacifico e ordinato dal caos che lo circonda e preme alle sue porte. Poco importa che servano a poco: secondo stime autorevoli come quelle del Center for Migration Studies di New York, due residenti irregolari su tre sono entrati negli Stati Uniti regolarmente, così come avviene anche in Europa1. Per finanziare gli ingenti costi del progetto, Trump ha dichiarato una situazione di emergenza al confine con il Messico e si propone di mobilitare i fondi a disposizione del Pentagono per gravi attacchi alla sicurezza del paese. Nella stessa linea, Trump ha aggiunto al muro la mobilitazione dell’esercito, con la sua dotazione di armi pesanti, equiparando a un’invasione armata l’immigrazione non autorizzata di civili disarmati, donne e bambini compresi.
Trump ha poi dato avvio in modo clamoroso a un programma di deportazioni (questo è il termine apertamente adottato, in luogo di alternative più morbide come “rimpatri” o “ritorni”) degli immigrati irregolari (qui il termine utilizzato nel migliore dei casi è “clandestini”). Nella sua visione questa operazione dovrebbe assumere proporzioni gigantesche, raggiungendo il livello di un primato storico. Trump ha voluto impressionare l’opinione pubblica, suscitando grande scalpore con la pubblicazione sul sito della Casa Bianca, di fotografie di persone incatenate al momento dell’imbarco su aerei militari per essere rimpatriate. La finalità propagandistica dell’operazione, persino teatrale, è rivelata dal fatto che le deportazioni avvenivano anche prima, con numeri che si aggiravano sui 300.000 casi all’anno, raggiungendo i picchi più alti sotto la presidenza Obama. Avvenivano (e tuttora avvengono) in pullman, detti i pullman delle lacrime, diretti via terra verso il Messico, in quanto principale paese di provenienza. Trump sta enfatizzando procedure di espulsione già vigenti, rendendole più clamorose con le foto degli immigrati in catene, con tutta la simbologia di criminalizzazione che portano con sé. Le ha rese anche più costose, con il ricorso agli aerei militari. In casi come questi, fra l’altro, persino le proteste giovano alla macchina propagandistica, comunicando all’opinione pubblica l’idea di una svolta effettiva nella politica di protezione dei confini, mediante una determinazione inscalfibile.
Effetti e limiti delle deportazioni
Manca poi qualunque considerazione sugli effetti delle deportazioni: nei casi sbandierati di rimpatrio di persone condannate per qualche reato, il trapianto di gruppi e pratiche criminali nei paesi di origine. In paesi come El Salvador o Ecuador, l’aumento delle criminalità e la destabilizzazione di fragili equilibri sociali viene spiegato fra l’altro con l’arrivo di condannati deportati dagli Stati Uniti. In altri casi, le deportazioni separano le famiglie, in cui alcuni membri, soprattutto i figli nati negli Stati Uniti, non sono deportabili. In altri ancora seminano miseria e disperazione. Spesso funzionano come porte girevoli, specialmente quando colpiscono persone appena entrate sul suolo statunitense: i migranti rispediti in Messico tentano più e più volte di ripassare il confine, e gli stesso passatori più professionali garantiscono altri tentativi, finché il passaggio della frontiera non ha successo.
Inasprendo una linea già introdotta nel primo mandato, Trump ha ordinato l’avvio di raid della polizia federale per rintracciarli in alcune delle “città santuario”, come si definiscono, che si opponevano alle deportazioni, come Chicago e New York. Salirà probabilmente il livello di crudeltà, con l’annunciata ripresa della separazione dei bambini dai genitori nelle strutture detentive, e il probabile coinvolgimento di famiglie da molti anni residenti negli Stati Uniti. Anche in questo caso vedremo più crudeltà istituzionale manifesta, più che una svolta nelle politiche statunitensi.
Nelle settimane successive Trump ha rafforzato il suo modello di chiusura dei confini, dichiarando che la base militare di Guantanamo sull’isola di Cuba, già tristemente nota come carcere extra-territoriale per i responsabili di atti di terrorismo in altri paesi del mondo, verrà adibita a luogo di detenzione per 30.000 immigrati di cui non risulterà possibile il rimpatrio. I primi voli militari sono già stati annunciati. Forse si è reso conto che uno degli ostacoli all’effettività delle deportazioni è la difficoltà di identificare gli immigrati non autorizzati, di comprendere esattamente da che paese vengano, di sfuggire all’obiezione legale circa i rischi che i migranti correrebbero al loro rientro in patria. Anche riuscendo davvero a trasformare Guantanamo in una città-carcere per 30.000 detenuti, oltre al personale di sorveglianza, questo non basterà a risolvere il problema degli immigrati di cui non è possibile scoprire l’effettiva nazionalità, o che vengono da paesi in guerra, o che per altre ragioni non possono essere rimpatriati.
Il problema della fattibilità
Questo rilievo mostra che il piano di deportazione di massa dovrà confrontarsi con il problema della fattibilità, al di là degli annunci e delle misure spettacolari. Il principale ostacolo deriva dalle dimensioni stesse del fenomeno: l’identificazione, il trattenimento e la deportazione di 11 milioni di persone richiedono risorse enormi, economiche e organizzative, oltre alla collaborazione dei paesi di origine che dovrebbero riaccoglierli.
Le dimensioni numeriche dell’immigrazione irregolare hanno poi un impatto sul mercato del lavoro statunitense, essendo noto e riconosciuto l’apporto degli immigrati non autorizzati in diverse occupazioni essenziali. Lo ha ricordato nel suo accorato discorso la vescova episcopaliana di Washington Mariann Budde, che ha auspicato uno sguardo diverso verso le persone che “lavorano nelle nostre fattorie, puliscono le nostre case e i nostri uffici, lavorano negli impianti del pollame e della carne, che lavano i piatti dopo che ceniamo nei ristoranti e fanno il turno di notte negli ospedali: forse non sono cittadini, forse non hanno i documenti a posto – ha aggiunto -, ma la maggioranza degli immigrati non sono criminali”.
Una disumanità esibita
Il pacchetto degli ordini esecutivi contiene altre misure meno note, ma che rivelano il livello di disumanità volutamente promossa. Il primo è l’annuncio che la caccia agli immigrati irregolari non si fermerà neppure alle porte delle scuole o delle chiese, considerate finora luoghi di asilo inviolabili, anche per non impedire ai minori di fruire del diritto all’educazione e ai credenti il diritto a partecipare ai culti. Il secondo è la cancellazione del programma di reinsediamento di oltre 10.000 rifugiati, in gran parte famiglie vulnerabili o collaboratori delle missioni statunitensi all’estero, già selezionati nei campi profughi del mondo insieme all’UNHCR e pronti a partire per iniziare una nuova vita negli Stati Uniti. Con la parentesi della prima presidenza Trump, gli Stati Uniti sono stati sempre il paese al mondo più impegnato in questi programmi. Il terzo atto di crudeltà consiste nell’annullamento degli appuntamenti già fissati per l’esame delle domande d’asilo di richiedenti stanziati in Messico, che non avevano violato il confine e aspettavano pazientemente di poter presentare il loro caso alle autorità statunitensi. Sono stati così penalizzati proprio i rifugiati che avevano rispettato tutte le regole imposte dagli Stati Uniti.
La fine delle politiche d’inclusione, eguaglianza e diversità culturale
Un altro pacchetto di misure ha investito le politiche d’integrazione a favore d’immigrati e minoranze etniche. Trump ha anzitutto cancellato i programmi federali a sostegno dell’inclusione, dell’eguaglianza e della diversità culturale, chiudendo con un tratto di penna gli uffici pubblici che se ne occupavano e licenziando i funzionari che vi lavoravano. La misura ha avuto immediate ripercussioni anche nelle grandi aziende private che si erano dotate di uffici analoghi e si sono ora allineate con la nuova linea politica. È stata persino licenziata la comandante della Guardia Costiera, colpevole di troppo impegno sull’argomento. Nei giorni successivi, in occasione dell’incidente aereo all’aeroporto Ronald Reagan di Washington, Trump ne ha addossato la responsabilità alle politiche d’inclusione delle amministrazioni democratiche precedenti, affermando che avevano favorito l’assunzione di persone con disabilità psichiche, professionalmente inadeguate. Richiesto di spiegare su quali basi si fondavano le sue accuse, ha risposto “sul buon senso”. Trump riflette ed esaspera il “buon senso” (comune) della maggioranza bianca che si sente minacciata dalla crescente diversità delle basi demografiche del paese.
Un’altra misura caratterizzante del nuovo corso, più volte annunciata, è l’abolizione dello ius soli, ossia dell’accesso automatico alla cittadinanza per i bambini nati negli Stati Uniti. Si tratta di una disposizione incorporata nella Costituzione degli Stati Uniti e finora considerata un pilastro della democrazia americana. Data la rigidità della Costituzione, è difficile comprendere come un ordine esecutivo presidenziale possa modificarla. Probabilmente anche in questo caso Trump punta anzitutto a un effetto propagandistico: mandare un messaggio all’opinione pubblica, mostrando coerenza con le sue promesse elettorali, guidando il dibattito e preparando il terreno per una possibile futura modifica della Costituzione, favorita dal controllo della Corte suprema.
Una considerazione finale riguarda il linguaggio che Trump e i suoi collaboratori hanno adottato. È un linguaggio che diffonde una visione disumanizzante dei presunti nemici: immigrati irregolari, richiedenti asilo, minoranze culturalmente difformi dalla maggioranza bianca e anglosassone. Trump vuole fare strame della cultura woke e del politicamente corretto. Ma in questo modo esaspera le divisioni sociali, legittima l’odio, sposta in avanti verso il peggio i confini di ciò che può essere accettato nel dibattito pubblico e in un confronto civile. Crede di compattare dietro di sé la società statunitense, ma la rende più intollerante e paranoica.