Tutela dell’ambiente e difesa dell’accoglienza dei migranti: due battaglie giuste ma distinte


Maurizio Ambrosini | 19 Novembre 2019

L’allarme per il cambiamento climatico è stato rilanciato recentemente da un rapporto dell’ICCP (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’agenzia dell’ONU preposta al tema.

 

Redatto da 107 esperti di 52 paesi, il rapporto sottolinea che il cambiamento climatico sta minacciando tutti e quattro i pilastri della sicurezza alimentare: la disponibilità di cibo, l’accesso (in termini di prezzi e forniture), l’utilizzo (ossia la qualità nutritiva) e la stabilità (la continuità degli approvvigionamenti). Emissione di gas serra, riscaldamento del pianeta, desertificazione, degrado del suolo, sono fenomeni interconnessi e sempre più minacciosi.

Ma la divulgazione del rapporto e soprattutto la sua ricezione da parte degli organi d’informazione hanno fatto ricorso a una narrativa ormai invalsa quando si parla di cambiamento climatico, disegnando scenari di guerre e soprattutto di apocalittiche migrazioni per cause ambientali.

Il nesso sembra logico e difficilmente contestabile: se la terra diventa improduttiva, la popolazione sarà costretta a spostarsi. Lo schema semplificante che fa discendere l’emigrazione dalla povertà troverebbe così un’altra conferma.

 

In realtà la questione è un po’ più complessa. Gli studi sulle cause delle migrazioni concordano largamente su tre aspetti.

Prima di tutto, le migrazioni sono fenomeni sempre più variegati, in cui sono ampiamente coinvolti i paesi intermedi e anche quelli sviluppati, nonché le fasce di popolazione qualificate e soprattutto le classi medie. Anzi, paesi intermedi (India, Messico, Cina…) e classi medie incidono molto sulle migrazioni internazionali attuali (circa 260 milioni nel mondo). Identificare le migrazioni con gli spostamenti di povera gente spinta da fame e guerre è una grossolana riduzione della complessità dei flussi.

Secondo, le migrazioni sono fenomeni multicausali, in cui concorrono vari fattori. Difficile che sia una sola ragione a spingere le persone a muoversi. Per esempio, la presenza di parenti all’estero è un importante fattore attrattivo, ma in genere anche la percezione di una domanda di lavoro almeno implicita nei paesi riceventi influenza la scelta di partire. Disagi e difficoltà sperimentate in patria possono aprire la strada alla scelta di emigrare, ma di per sé non si traducono direttamente in partenze.

Terzo e più rilevante aspetto: per emigrare occorrono delle risorse, tanto maggiori quanto più lontana è la destinazione agognata. Anche in situazioni di severa crisi ambientale, coloro che possiedono maggiori risorse dispongono di più ampie opportunità di scelta: possono decidere di restare o di spostarsi, ed eventualmente dove andare.

 

La vulgata sulle migrazioni forzate per cause ambientali fa pensare a ondate di popolazioni rurali in marcia verso l’Europa o gli Stati Uniti, dopo aver perso quel poco che possedevano.

Che contadini e allevatori impoveriti del Sahel o del Corno d’Africa riescano ad arrivare fino in Europa è invece fino a prova contraria un evento, se non impossibile, certo improbabile e quindi raro. Gli immigrati africani in Italia sono circa 1.100.000, circa il 20% del totale, ma la maggioranza proviene dal Nord-Africa, con il Marocco in primo piano (oltre 400.000 residenti).

Le popolazioni dell’Africa sub-sahariana incidono per meno del 10% sul totale, e comunque non sappiamo se e quanti di loro si possano considerare migranti forzati per cause ambientali. Di solito, fra l’altro, si emigra verso l’estero soprattutto dalle zone urbane.

Le migrazioni in cui le cause ambientali contribuiscono in modo più riconoscibile sono semmai le migrazioni interne, soprattutto quelle dalle campagne alle megalopoli del Terzo Mondo. Il rapporto annuale sul tema dell’IDMC (International Displacement Monitoring Centre) stima in 17,2 milioni il numero delle persone spinte a spostarsi verso altre regioni del proprio paese a causa di disastri ambientali. Questi fenomeni, oltre che interni ai confini, sono anche concentrati prevalentemente nell’Asia Sud-orientale e nella regione del Pacifico (73,5%). Per l’Africa e il Medio Oriente il dato raggiunge soltanto il 16,4%. Anche ammettendo che una parte di questi migranti forzati prima o poi oltrepassino un confine, dovranno superare molte barriere prima di arrivare nel Nord del mondo.

È vero dunque che le aree rurali dei paesi in via di sviluppo sono sottoposte a sconvolgimenti che ogni anno concorrono a sradicare milioni di contadini. Non si tratta soltanto in verità di inondazioni e desertificazioni, costruzioni di dighe o altri interventi umani sulla natura, ma anche di accaparramento delle terre fertili mediante il cosiddetto land grabbing, concorrenza delle agricolture più avanzate e abbondantemente sussidiate dai governi dei paesi più avanzati, politiche commerciali che condannano i produttori a una stentata sussistenza. Contribuiscono inoltre processi di modernizzazione che comportano l’arrivo di trattori, mietitrebbie e diserbanti, togliendo lavoro ai braccianti.

Di norma però i contadini sradicati finiscono quasi sempre per ingrossare gli insediamenti informali nelle megalopoli del Terzo Mondo. Diventano sfollati o migranti interni. Non dispongono né delle risorse economiche né di quelle culturali per raggiungere il Nord globale. Ammesso che si possa parlare di migrazioni per cause ambientali, queste non si traducono in spostamenti di massa sulle lunghe distanze e attraverso diversi confini nazionali, fino a raggiungere l’UE o altre regioni sviluppate. Si fermano molto prima.

È però il medesimo nesso causale crisi ambientali-migrazioni a sollevare dubbi. Analisi circostanziate di regioni fragili come il Sahel ribadiscono che processi complessi come quelli migratori non possono essere attribuiti a un unico fattore esplicativo. I fattori ambientali non sono separabili da quelli sociali più complessivi: la vulnerabilità nei confronti dei cambiamenti climatici dipende da relazioni di potere e asimmetrie socio-economiche. Anche all’interno delle popolazioni minacciate da eventi ambientali, sono le persone e le famiglie che dispongono di un certo capitale economico e sociale quelle che riescono a reagire più adeguatamente, sia localmente sia eventualmente emigrando.

Si può forse sostenere che i fattori ambientali si saldano con altri fattori strutturali, peggiorando gli equilibri sociali di regioni già fragili. Ancora una volta, però, di norma quelli che reagiscono al deterioramento della situazione locale partendo per altri luoghi possono arrivare lontano, oltre i confini, soltanto se dispongono di risorse adeguate.

 

Il rapporto dell’ICCP in realtà parla pochissimo del rapporto tra cambiamenti climatici e migrazioni, tanto meno sulle lunghe distanze. Il nesso è stato affermato dai divulgatori e dagli attivisti che hanno rilanciato il documento. Si può intuire il motivo: far leva sulla paura di migrazioni epocali per accrescere la sensibilità verso i problemi ambientali, ancora troppo emotiva e discontinua. In realtà però un simile argomento collude con le ansie diffuse nei confronti di un’invasione d’immigrati inesistente, finendo per alimentare la cultura della chiusura.

 

Le due battaglie, quella a favore della tutela dell’ambiente e quella in difesa dell’accoglienza dei migranti internazionali, sono entrambe giuste. Metterle insieme può apparire suggestivo e politicamente accattivante, ma non ha validi fondamenti e alla fine non giova alle cause che si vorrebbero sostenere.