Un focus sulla violenza di genere: capire per intervenire


Eleonora Maglia | 22 Ottobre 2019

C’è victim blaming (o colpevolizzazione della vittima) quando chi ha subito un danno viene ritenuto responsabile della situazione accaduta. Si tratta di una tattica manipolatoria ma anche di un fenomeno sociale (il sistema conserva l’illusione del controllo) che comporta un secondo trauma in uno scenario già di per sé disfacente. Infatti, in mancanza di convalida e di riconoscimento del torto come fatto reale, il soggetto leso non si identifica nel ruolo di chi ha subito un abuso o un’ingiustizia e avvia invece un processo di auto-colpevolizzazione e di dubbio delle proprie percezioni e di sé (Malizia, 2017). Il fenomeno è riscontrato soprattutto in caso di violenza di genere (Bonino, 2015) e concorre a spiegare perché, a fronte di 2 milioni 435 mila di donne che hanno subito almeno una forma di violenza negli ultimi cinque anni (Istat, 2014), le denunce e la ricerca di aiuto sono poco diffuse (solo il 12,2% dei casi). Il timore di non essere credute, la vergogna e l’imbarazzo sono infatti fattori bloccanti (Di Nicola, 2018) e si tratta di aspetti comprensibili se si pensa che il fenomeno del victim blaming è allo stesso tempo antico (Ryan, 1971) e tuttora documentato (Karmen, 2016).

 

Prendendo l’avvio da qui e per veicolare una migliore informazione sulla violenza di genere, in questo articolo si cercherà di illustrare il punto di vista di chi ne è oggetto e si cercherà inoltre di avvalorare l’idea positiva che sulle situazioni disfunzionali è invece possibile intervenire, anche felicemente. Qui ci si focalizzerà sul contributo offerto dai Centri antiviolenza, con l’auspicio che la diffusione di dati sui servizi esistenti favorisca anche l’aumento delle richieste di aiuto o quantomeno la conoscenza della loro esistenza (solo il 12,8% delle vittime ne dichiara la conoscenza secondo l’Istat, 2014). In generale, il messaggio da tenere a mente è che le forme di violenza possono essere svelate e combattute e sono molte le soluzioni esistenti efficaci allo scopo (Pasquinelli, 2018; Bertoni (2019); Maglia, 2019.)

 

Per una miglior comprensione di chi è oggetto di violenza

Anzitutto, appunto per evitare visioni superficiali o spostamenti di responsabilità propri del victim blaming, è importante tener presente che le strategie di affrontamento (definite in termine tecnico come coping emotivo o proattivo con razionalizzazione o modifiche comportamentali accomodative) che saranno illustrate nel prosieguo e che sono visibili nelle vittime di violenza, anche quando sembrano atteggiamenti passivi, sono invece di atti di resistenza, probabilmente preceduti da tentavi di rinegoziazione che non hanno sortito risultati duraturi.

Secondo la letteratura scientifica sul tema (Bonura, 2018; Ponzio, 2014; Reale, 2011; Filippini, 2005; Dutton e Painter, 1981), la violenza subita è in primo luogo profondamente confusiva (si sperimenta la perdita del proprio punto di vista) e comporta una sorta di precedente (e una nuova immagine di sé al ribasso a cui si tendono poi a conformare le azioni future). Tutto ciò per il bisogno di coerenza (si è maggiormente disponibili a dare l’assenso a una richiesta dopo aver acconsentito a qualcosa di affine, ma meno gravoso) che sposta il limite del possibile. Inoltre, l’esistenza di vincoli materiali (come la mancanza di un reddito proprio o la difficoltà di accedere a servizi e strutture) o psicologici (come il tentativo di proteggersi dal dolore dello scacco o dallo stigma culturale che attribuisce alle donne il compito e il potere di assicurare la tenuta di un legame) può limitare o annullare la capacità di reazione. In più, un trauma sostiene una risposta di sopravvivenza (con l’alterazione dell’orizzonte temporale, lo schiacciamento sul presente e la perdita della progettualità) e promuove una forma di adattamento, oltre a produrre delle distorsioni emotive e cognitive che minano la capacità di valutare il pericolo. Ad esempio, che continui la frequentazione del maltrattante (definita legame traumatico) sembra incomprensibile se non si ragiona sul fatto che in caso di pericolo percepito si tende ad affidarsi alla prima persona vicina disponibile -chiunque essa sia – e in modo generalizzato si adotta un comportamento teso ad ottenere benevolenza per la paura della propria sopravvivenza. Oltre ai citati meccanismi attivati a scopo auto-protettivo, sono poi rilevanti anche la negazione, la scissione, il distacco e la rimozione che in qualche modo impermeabilizzano e aiutano a “silenziare la consapevolezza di un pericolo o la rabbia esplosiva per quello che si è subito” (Bonura, op. cit., p. 109).

 

Per sapere che esistono anche strumenti e soluzioni

Considerato il punto di vista di chi è oggetto di violenze risulta allora più comprensibile il numero limitato delle denunce per violenza di genere. A sostegno delle vittime vi sono però anche molti ausili, come ad esempio i Centri antiviolenza e le Case rifugio. Questi luoghi offrono servizi specializzati basati sull’accoglienza e su un approccio di genere (come previsto dalla Convenzione di Istanbul) e sono distribuiti in tutto il territorio nazionale. Secondo l’Istat (2017) in Italia vi sono 253 Centri (34% al Sud, 22% al Nord-ovest, 20% al Nord-est, 16% al Centro, 8% nelle Isole) che offrono una serie composita di servizi: ascolto e accoglienza (nel 100% dei casi), supporto legale (99%), supporto psicologico (98%), orientamento e accompagnamento ad altri servizi (98%), predisposizione di un percorso di allontanamento (95%), orientamento al lavoro (94%), supporto per alloggio (87%), supporto ai figli minori (81%).

Nel 2017 sono state 49.152 le donne che si sono rivolte ad un Centro antiviolenza e 29.227 le donne che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza. Si tratta di un numero che è possibile accrescere con opportuni interventi. I livelli di copertura e di accessibilità possono infatti essere migliorati ad esempio abbattendo le barriere architettoniche e senso-percettive (ancora presenti nel 32,5% dei Centri secondo i dati CNR, 2019) o reclutando personale formato (nel 62,5% dei casi sono i volontari a offrire prestazioni che sono invece cruciali) oppure accedendo ai finanziamenti offerti dall’Unione Europea (un’opzione utilizzata solo nell’1,8% dei centri).

 

Pensando ai servizi di prevenzione, accoglienza e recupero è anche utile sapere che esistono pure dei programmi per uomini maltrattanti. Dai dati del CNR ne risultano 54 sul territorio nazionale (nessuno dei quali però in Calabria, Molise, Basilicata e Valle d’Aosta), ma andrebbero potenziati perché in molti casi le aperture non seguono orari fissi, le prestazioni non sono sempre gratuite e nel 18,5% dei casi l’attività di ascolto, orientamento e consulenza psicologica è svolta da personale volontario. Nel 2017 sono 726 gli uomini che hanno iniziato un percorso di recupero, tuttavia occorre promuovere l’adesione di categorie che risultano poco rappresentate nelle rilevazioni (come i detenuti, gli stranieri o gli uomini affetti da patologie mentali o da dipendenze). Partire dal presupposto che un cambiamento negli uomini violenti sia possibile non è semplice, ma apre a prospettive desiderabili, come la possibilità di ridurre le reiterazioni delle violenze (che si osservano nel 35% dei casi; in un caso su dieci si registra anche la violazione dei provvedimenti cautelari).