Con i commi 254 e 255 dell’articolo 1 della legge 205/2017 è stato istituito un primo “Fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare”, le cui modalità attuative non sono ancora state definite. Sul tema sono stati presentati in Senato diversi disegni di legge, in esame in Commissione Lavoro, per dare forma più organica al sostegno a chi assiste familiari non autosufficienti. È dunque il momento giusto per interrogarsi sui possibili rischi di queste misure, pur senza esaminare il dettaglio delle diverse proposte di legge.
Chiariamo subito un punto cruciale: non vi è dubbio che la presenza di un non autosufficiente tra i propri familiari genera grandi impegni, e che le carenze del sistema pubblico di assistenza domiciliare impongono che tale assistenza sia soprattutto svolta dalle famiglie, producendo impoverimento, fatica, carichi emotivi e materiali, spesso pesanti sino al crollo delle capacità di mantenere l’assistenza o i legami familiari. Dunque qui non si tratta di non riconoscere l’esistenza di pesanti oneri per i familiari che assistono, ma di chiedersi se la soluzione migliore debba essere solo quella di contributi ed agevolazioni per i caregiver familiari.
Non c’è analisi del welfare italiano per la tutela della non autosufficienza che non rilevi questi due connotati:
- il compito di cura grava troppo sulle famiglie, perché non sono attivi sufficienti servizi di assistenza domiciliare;
- gli interventi pubblici consistono troppo (o solo) in erogazioni monetarie ai malati o alle loro famiglie. Il che obbliga le famiglie a saper usare quel denaro per trasformarlo in assistenza, operazione non gestibile da tutte le famiglie, ad esempio se l’anziano non autosufficiente vive solo con una moglie anziana e fragile.1
Ma se questi difetti sono reali allora perché affrontare il tema della non autosufficienza con misure che ripercorrono la stessa logica? La tutela dei caregiver familiari (bisogno in ogni caso ineludibile) non viene adeguatamente gestita con provvedimenti che si limitano a sostenere il loro personale lavoro di cura, anche per il rischio che si presuma che questo sia tutto ciò che deve fare il welfare pubblico. Molto meglio lavorare per dare finalmente corpo ad un organico “sistema delle cure per i non autosufficienti a domicilio”, entro il quale certo siano inclusi anche forti supporti ai caregiver familiari.
C’è una possibile istintiva obiezione del lettore “ecco un classico salto nel generico! Invece di attivare interventi mirati ai familiari che assistono, cioè cose concrete per uno specifico target, si butta tutto sul generale auspicando un riordino del sistema”. Dunque proviamo con più precisione a discutere, per punti, perché solo un riordino più organico è ciò che serve anche ai caregiver familiari.
1) L’assistenza a domicilio di un non autosufficiente deve essere per forza svolta dai familiari?
Due riflessioni:
- Quando c’è non autosufficiente è inevitabile un impegno dei familiari; ma che la sua assistenza debba primariamente gravare su di essi deve essere una scelta e non un obbligo inevitabile. Ciò che occorre è un sistema delle cure domiciliari che offra diverse possibilità, all’interno delle quali sia possibile anche un impegno dei familiari, ma senza che questa debba essere l’unica opzione praticabile.
- Sono molti i non autosufficienti che non hanno familiari, o ne hanno non in grado di svolgere compiti di assistenza, ad esempio perché vivono solo con un coniuge anch’esso anziano. Ma che cosa se ne fa del denaro per il caregiver, degli sgravi fiscali, e dei permessi da lavoro, la moglie 86enne di un anziano non autosufficiente e senza parenti? Sarebbe una grave limitazione degli obiettivi del welfare pubblico assumere che si può assistere a domicilio solo chi ha caregiver familiari capaci; e peraltro moltissime esperienze dimostrano che questo presupposto non corrisponde al vero.
Le situazioni delle famiglie con non autosufficienti possono essere molto diverse, e mutare nel tempo; dunque è essenziale che il “modo” con il quale viene offerta assistenza al domicilio (di tutela nella vita quotidiana) possa articolarsi in diverse forme, da adattare alla specifica situazione familiare e al momento:
- Vi sono famiglie che non solo conoscono un lavoratore di fiducia ma desiderano impiegare come badante proprio quel lavoratore, e sono in grado di gestire da sole il rapporto di lavoro al domicilio (assunzione, buste paga, versamento dei contributi): in questo caso l’intervento più adeguato è un contributo economico per aiutare nella retribuzione del lavoratore, un assegno di cura, con il vincolo di utilizzo per una assunzione regolare.
- Se la famiglia desidera assumere un lavoratore di fiducia che già conosce, ma non è in grado di gestire da sola il rapporto di lavoro occorre poter erogare un assegno di cura con la possibilità di utilizzarne parte per far gestire le incombenze del rapporto di lavoro ad una agenzia idonea, o ad uno dei fornitori dei Buoni servizio (vedi il punto d)
- Per famiglie che non conoscono un lavoratore di fiducia ma preferirebbero in ogni caso l’assistenza di un lavoratore alle loro dipendenze dirette è utile un assegno di cura parte del quale possa essere usata per far reperire un lavoratore da “Agenzie di somministrazione” che Aziende Sanitarie e Comuni accreditano per queste funzioni.
- Vi sono famiglie che preferiscono non avere un lavoratore alle loro dipendenze perché ciò implica gestirlo, sostituirlo, licenziarlo, attività che i familiari non sono in grado di esercitare o non desiderano svolgere; e dunque preferiscono ricevere un operatore domiciliare dipendente da altri. In questa situazione è appropriato un intervento che consista:
- Nel lavoro domiciliare di operatori pubblici, anche con profilo di assistenti familiari, non necessariamente qualificati come gli OSS; purché sia fornito per un numero di adeguato di ore.
- O in un buono servizio, un titolo di credito che avvia prestazioni da parte di fornitori accreditati ad hoc da Aziende Sanitarie e Comuni. Un valore aggiunto del buono servizio consiste (se il bando di accreditamento dei fornitori lo ha previsto) nella possibilità per la famiglia di trasformare il valore del buono in una o più prestazioni: ore di lavoro a domicilio di assistenti familiari dipendenti dal fornitore, ma anche telesoccorso, pasti a domicilio, interventi di manutenzione dell’abitazione, ricoveri temporanei di sollievo, e altri supporti che il fornitore sappia mettere in opera.
- Per famiglie nelle quali si desidera che il lavoro di cura del non autosufficiente sia svolto non da estranei ma da un componente della famiglia stessa è utile un supporto al caregiver, anche nella forma di contributo economico per compensare le eventuali riduzioni di lavoro retribuito di chi dedica tempo al non autosufficiente.
- Vi sono famiglie che preferiscono ricevere aiuto e assistenza da un conoscente, o da un vicino di casa. In questi casi, oltre alla possibilità di assumerli come lavoratori regolari retribuibili con l’assegno di cura, è utile poter attivare un affidamento del non autosufficiente, con un rimborso spese all’affidatario.
Un criterio cruciale è dunque che il sistema per l’assistenza domiciliare possa consentire di scegliere con la famiglia e l’utente qual è la modalità migliore in quel momento per ricevere aiuti, con possibilità di modificarla al mutare della situazione. E l’importanza di questa articolazione è nettamente confermata nelle concrete esperienze di chi l’ha messa in opera.
2) Ai familiari servono solo e sempre contributi economici, agevolazioni fiscali o permessi dal lavoro?
Se si assume che irrobustire il lavoro dei caregiver familiari è la priorità per il supporto alla non autosufficienza si accetta di fatto che il welfare pubblico si fonda principalmente sul loro ruolo. Ma ben più di questo serve alle famiglie, ed è necessario allestire:
- Un sistema che curi i molti snodi che il non autosufficiente e la sua famiglia necessariamente incontrano; ad esempio:
- “punti unici di accesso” capaci di infornare sull’intera gamma dei possibili interventi per i non autosufficienti (perché esistono molte prestazioni, ma attivate da enti diversi: prestazioni INPS, agevolazioni fiscali, supporti per i trasporti, per le barriere architettoniche), e di supportare nell’accesso;
- garanzie sulla continuità della cura, ossia che il sistema offra sia un transito tra diversi luoghi (ospedale – struttura di riabilitazione – abitazione o RSA) che non produca momenti di vuoto nell’assistenza, sia un supporto per evitare che il passaggio da un punto all’altro della filiera debba essere gestito autonomamente solo dall’utente o dai familiari;
- poter offrire una valutazione multidimensionale del bisogno non frantumata in diverse sedi e percorsi;
- gestire il presidio dei tempi per l’accesso del paziente a valutazioni ed interventi, nonché un adeguato volume di assistenza a domicilio.
- Un set, anche minimo ma garantito, di interventi con natura di diritto esigibile. Ossia prestazioni di assistenza domiciliare pubblica che non siano fruibili “solo se ci sono le risorse” (e altrimenti si è collocati in lista d’attesa), come accade attualmente. Se una famiglia ha un figlio che compie 6 anni e chiede l’inserimento nella scuola dell’obbligo, può sentirsi rispondere che potrà essere accolto solo da gennaio? Oppure solo 6 ore alla settimana? Dunque ci sono da tempo nel welfare pubblico prestazioni pienamente esigibili quando il bisogno è accertato, e non soltanto “se e quando ci sono risorse”. Perciò un obiettivo che la politica non deve dimenticare è di arricchire la normativa sui LEA dedicati all’assistenza domiciliare per i non autosufficienti, imponendo che siano meglio esplicitati “livelli essenziali” davvero esigibili. Il “luogo normativo” più adatto per supportare i familiari non è presumere un loro dovere di assistere come inevitabile soluzione, ma assicurare livelli essenziali di assistenza domiciliare nei LEA, nella logica prima esposta al punto 1).
3) L’assistenza domiciliare ai non autosufficienti deve impegnare anche il Servizio Sanitario Nazionale?
Nei ddl in discussione è quasi assente il ruolo del Servizio Sanitario Nazionale, mentre è di persone malate che si discute. Dunque:
- Per quale motivo bisogna accettare che il SSN abbia a suo carico (come prevedono i LEA) il 50% del costo dell’ospitalità di un non autosufficiente in struttura residenziale (una RSA), e invece non debba fare altrettanto se quella persona è assistita al suo domicilio? La parte di spesa del SSN in RSA non copre solo il costo di spese od operatori strettamente sanitari, ma tutto il costo della struttura e dei suoi servizi. Non prevedere un analogo impegno se l’assistenza si gestisce a casa, oltre ad un irrazionale strabismo, implica queste conseguenze: la spesa del SSN opera solo dove è più costosa (il ricovero) e non dove sarebbe meno costosa (l’assistenza domiciliare che evita ricoveri); l’impegno del SSN di fatto disincentiva l’assistenza domiciliare, che diventa solo a carico di famiglie o Enti gestori dei servizi sociali, smentendo tutte le dichiarazioni programmatiche che danno priorità alla domiciliarità.
- Alcuni dei ddl sul ruolo dei caregiver familiari prevedono apposite valutazioni della non autosufficienza, per poter attivare i benefici. Ma che senso ha obbligare il non autosufficiente a peregrinare con fatica e sofferenza tra diverse valutazioni della sua condizione? Già deve eseguire diverse valutazioni (in sedi e momenti diversi) da un lato per ottenere le prestazioni economiche dell’INPS (per l’invalidità e l’indennità di accompagnamento) o i permessi ex legge 104, e dall’altro per essere valutato nelle UVG per l’accesso alle prestazioni sociosanitarie locali. Invece di introdurre altri diversi percorsi valutativi, è necessario riunificare questi passaggi in un unico momento di valutazione multidimensionale. Certo merita interrogarsi su quali strumenti sia più efficace utilizzare e su come renderli più omogenei nel territorio nazionale.
4) Evitare che il volume di assistenza dipenda dalla fortuna
Nessuno purtroppo discute del rischio che la compresenza caotica di interventi generi effetti casuali. Attualmente i familiari di un non autosufficiente possono fruire di congedi dal lavoro (retribuiti dall’INPS) anche molto consistenti (sino a 24 mesi se convivono con il non autosufficiente), ma solo se lavoratori a tempo indeterminato. Gli altri interventi di supporto alle famiglie con non autosufficienti (quelli descritte al punto 1 e/o previsti dai ddl in discussione) devono essere modulati in modo ridotto se un familiare fruisce di questi permessi? Altrimenti si generano a caso famiglie “fortunate” (che possono cumulare più benefici invariabili) e “sfortunate”, perché non vi sono lavoratori che possono fruire dei permessi. Peraltro beneficiano solo famiglie “fortunate” anche programmi categoriali come l’Home Care Premium dell’INPS, che fornisce risorse fruibili solo da non autosufficienti che sono o hanno familiari pensionati ex INPDAP.
Lo schema più efficace da perseguire in una normativa di tutela della non autosufficienza pare dunque il seguente: dopo un accesso facilitato ad un punto capace di ampie informazioni, in esito ad una valutazione multidimensionale (possibilmente unica) si identificano le esigenze di assistenza a domicilio, alla cui intensità corrisponde un massimale erogabile (un budget di cura che includa anche impegni del SSN, e che tenga conto di eventuali congedi dal lavoro), che con la famiglia viene trasformato nel tipo di intervento più appropriato in quel momento, inclusa l’opzione di supporti dedicati ai caregiver che assistono. E’ chiaro che introdurre questi supporti ai caregiver di per sé non esclude che si operi anche per un più efficace e completo “sistema delle cure”, ma solo se tali supporti sono sin dall’inizio incardinati in un meccanismo più organico, pena diventare invece l’unico investimento finanziario e di attenzione politica, confermando che il nostro welfare deve essere per forza soprattutto familistico.
Ci sono due altri rischi di carattere generale, e “più politici”, nel predisporre ddl sui caregiver familiari:
- un provvedimento che può essere presentato soprattutto come l’erogazione di denaro e altri benefici direttamente fruiti dai familiari ha nel mercato della comunicazione politica un potere di raccolta del consenso molto maggiore rispetto ad uno per “organizzare un miglior sistema delle cure”. Purtroppo il semplicismo delle informazioni che è veicolato dai media espone le forze politiche alla tentazione di concentrarsi su misure con più facile presa nell’opinione pubblica.
- E’ sicuramente più complesso porre mano ad un riordino dei sistemi di welfare operanti sulla non autosufficienza, rispetto a proporre una norma ritagliata su un target limitato e su contenuti ristretti. Dunque la tentazione di “fare in fretta qualcosa di concreto anche se parziale” può far rinviare sine die l’impegno per riforme più consistenti.
Ma la politica non dovrebbe servire per affrontare con coraggio l’articolazione dei problemi e proporre soluzioni organiche e non solo per alcuni?2
- E’ questa la criticità principale della maggior spesa del welfare italiano per la non autosufficienza, l’indennità di accompagnamento, con una spesa di circa 12,5 miliardi di euro nel 2017 per circa 2,1 milioni di fruitori
- Un insieme di soggetti sociali ha formato in Piemonte nell’autunno 2018 una “Alleanza per la tutela della non autosufficienza”, che ha presentato un Manifesto di proposte, il cui testo è scaricabile qui