Pochi l’hanno notato, ma il neo-premier Draghi non è partito benissimo sul tema delle politiche migratorie. Le poche parole che ha dedicato all’argomento si sono limitate all’auspicata revisione delle convenzioni di Dublino e alla condivisione della retorica di un ingiusto sovraccarico di rifugiati sulle spalle del nostro paese, non proprio confermata dai dati: 3,4 rifugiati ogni 1.000 abitanti in Italia, contro 25 per la Svezia, 14 per la Germania, 6 per la Francia.
Cerchiamo allora di proporre una possibile agenda di interventi possibili in materia di politiche migratorie per il governo Draghi, pur nella consapevolezza che su una materia così sensibile non sarà agevole per il premier ottenere il consenso necessario.
Qualche spazio di manovra può essere configurato lavorando su una premessa: gli immigrati non si identificano con i rifugiati, che anzi ne rappresentano una modesta porzione (in Italia, 270.000 su circa 6 milioni di immigrati stranieri, comprendendo i soggiornanti in condizione irregolare). Ve ne sono di molti tipi diversi: investitori, studenti, operatori sanitari, assistenti familiari (dette badanti), e vari altri. Disegnare delle politiche migratorie significa anzitutto decidere di quali abbiamo bisogno, o su chi vogliamo investire. Per esempio, il Cnel ha recentemente approvato un documento che auspica una maggiore apertura verso i lavoratori della sanità provenienti dall’estero, semplificando il riconoscimento dei loro titoli di studio e rimuovendo gli ostacoli alla loro partecipazione ai concorsi pubblici.
In secondo luogo, va rilanciata la dimensione internazionale delle politiche migratorie. Qui il governo Draghi ha la possibilità di verificare se l’asserito riallineamento della Lega (e del M5S) sulle posizioni dei nostri tradizionali alleati europei reggerà alla prova dei fatti. L’Italia sotto i governi a guida Conte è rimasta fuori dai due Global Compact, su immigrati e rifugiati, smarcandosi dai partner europei e preferendo l’imbarazzante compagnia di Trump, Orban e una sparuta pattuglia di altri governi sovranisti. L’europeista Draghi dovrebbe ricollocare senza indugi il nostro paese nel concerto euro-occidentale firmando i due Global Compact: documenti che non impongono obblighi, ma esprimono una visione e un indirizzo, nella direzione di fenomeni migratori “sicuri, ordinati e regolari”.
Sul versante degli ingressi, una questione cruciale riguarda le scelte relative agli ingressi per lavoro. Non è stato ancora trovato il coraggio politico per individuare canali sensati e trasparenti per regolamentare l’accesso in Italia dei lavoratori necessari al sistema economico e alle famiglie. I decreti flussi reiterati ogni anno, senza una programmazione pluriennale dei fabbisogni, si sono limitati negli ultimi anni a consentire l’ingresso di 30.850 lavoratori, perlopiù stagionali (18.000), oppure appartenenti a categorie molto specifiche: investitori, promotori di start-up, artisti e altri. Sotto il secondo governo Conte quel tetto è stato abolito, ma non si sono compiuti passi avanti per individuare nuove soluzioni per gli ingressi di lavoratori dall’estero.
Tra l’altro, se si vuole limitare il ricorso improprio al canale dell’asilo, oltre che i rischiosi viaggi della speranza attraverso il deserto e il Mar Mediterraneo, si dovrebbe incrementare l’offerta di opportunità di ingresso legale. Lo stesso ragionamento vale per i rimpatri: i paesi di origine andrebbero coinvolti con quote più incentivanti di ingressi legali.
Sul tema dei nuovi ingressi, traiamo dal “festival della migrazione” che si è tenuto a Modena nel novembre scorso tre proposte che meritano di essere considerate seriamente. La prima riguarda appunto il rilancio della programmazione di quote realistiche d’ingresso per lavoro. Si potrebbe aggiungere, riprendendo un’altra proposta del Cnel, di valutare le candidature con un sistema a punti, ispirandosi al modello canadese, e premiando chi dimostra di possedere qualificazioni professionali richieste, conosce la lingua italiana, ha parenti in Italia che possano accompagnarlo nel percorso d’integrazione sociale.
La seconda proposta è volta a sanare una falla del nostro sistema normativo: in luogo delle sanatorie periodiche di massa, con la visibilità, le polemiche e gli abusi che comportano, introdurre un meccanismo di regolarizzazione su base ordinaria e individuale, a favore degli stranieri privi di permesso di soggiorno, ma in grado di soddisfare alcuni requisiti. Tra questi, il radicamento sul territorio da un certo periodo, l’assenza di precedenti penali, la conoscenza della lingua italiana, l’inserimento lavorativo, particolari situazioni biografiche come la malattia o la presenza di figli. Meccanismi analoghi già esistono in diversi paesi, come Francia e Spagna. Consentono di risolvere caso per caso le forme di irregolarità non pericolose, premiando i passi compiuti verso l’integrazione. Aggiungerei a questi meccanismi un allargamento delle opportunità di conversione del permesso di soggiorno, da studio a lavoro, per gli studenti che ottengono un titolo certificato in Italia. Ha poco senso allontanare delle persone sulla cui istruzione il nostro paese ha investito.
La terza idea riguarda il rilancio della formula della sponsorizzazione, già prevista dalla legge Turco-Napolitano e subito abrogata dalla successiva Bossi-Fini: permessi per ricerca lavoro della durata di un anno, vincolati alla presentazione di adeguate garanzie economiche per il soggiorno e l’eventuale rientro in patria. Si potrebbe qui prevedere oltre allo sponsor un’istituzione di accompagnamento, ossia il coinvolgimento, accanto ai parenti ospitanti, di attori locali, pubblici o della società civile, per offrire corsi di italiano e sostegno nei percorsi d’integrazione.
Va ricordato, come corollario, che importanti paesi sviluppati, come la Germania e il Giappone, hanno avviato una riapertura regolata e selettiva dei canali di immigrazione per lavoro, anche a media qualificazione. Forse potremmo imparare qualcosa da loro: l’apertura umanitaria può convergere con gli interessi di un paese sviluppato e con gli investimenti sul futuro.
I nuovi ingressi peraltro potrebbero non riguardare soltanto i lavoratori. Oltre agli studenti, una categoria emergente di immigranti è formata dai pensionati alla ricerca di luoghi dai climi più miti e in cui il potere d’acquisto delle loro pensioni consenta di godere di un certo benessere. Portogallo e Spagna hanno sviluppato politiche mirate per attrarre pensionati dai freddi paesi del Nord-Europa, nel caso portoghese concedendo interessanti esenzioni fiscali. Diverse nostre regioni costiere dal clima gradevole, soprattutto nel Mezzogiorno, trarrebbero giovamento da politiche favorevoli ai cosiddetti Sun migrants.
Un altro capitolo da riaprire con determinazione riguarda il fronte interno delle politiche migratorie. Qui periodicamente riaffiora anzitutto senza trovare uno sbocco parlamentare la questione di una nuova legge sulla cittadinanza. In casi come questi per discutere seriamente occorrerebbe guardare a ciò che accade all’estero. Anche un rapido esame mostrerebbe che la legge italiana è oggi la più rigida dell’Europa occidentale. Nel contesto a cui ci sforziamo di appartenere, tra tensioni e oscillazioni, si osserva una tendenziale convergenza: lo ius soli rigido è stato via via abbandonato, ma il trattamento dei figli degli immigrati è stato generalmente ammorbidito. Un caso paradigmatico è quello della riforma della legge tedesca nel 2000, con il superamento di uno ius sanguinis molto conservatore.
Lo ius soli automatico ha tuttavia un difetto: rischia di privilegiare i figli minori nati nel paese d’immigrazione, rispetto ai figli maggiori nati altrove. Anche la legge attuale peraltro soffre dello stesso problema: a 18 anni può diventare cittadino con una procedura agevolata solo chi è nato qui e non si è mai allontanato per più di tre mesi. Si potrebbe invece rimediare insistendo sullo ius culturae, già adottato in Grecia, che pure compariva nella sfortunata proposta della scorsa legislatura: riconoscere la cittadinanza a chi completa un ciclo scolastico nel nostro paese. In questo modo si valorizza il ruolo della scuola, come il luogo per eccellenza in cui si forgia il senso civico e la cittadinanza attiva. Per gli studenti di origine italiana e per quelli di origine straniera, insieme. Studiando la costituzione, approfondendo il funzionamento del sistema democratico, facendo esperienze di volontariato e visite d’istruzione: imparando ad amare questo paese, ma insieme e non separati dal muro della cittadinanza.
Sempre sul fronte interno, è auspicabile la ripresa dei negoziati con i rappresentanti delle varie federazioni islamiche, benché frammentate e discordi. Nel 2017, sotto il governo Gentiloni-Minniti, dopo lunghe e complesse trattative il governo italiano era riuscito a raggiungere un’intesa con le principali associazioni rappresentative dei mussulmani, avviando la costruzione di un “islam italiano”, con guide religiose formate in Italia e impegnate a promuovere “la piena attuazione dei principi civili di convivenza, laicità dello Stato, legalità, parità dei diritti tra uomo e donna”. In luoghi come le carceri, imam preparati e convinti fautori del dialogo interreligioso sarebbero e in parte già sono una risorsa preziosa. Nel 2018 però i partiti anti-establishment sono saliti al potere: tra le prime vittime del nuovo clima politico si annoverano l’intesa con le organizzazioni mussulmane e il processo di regolamentazione della presenza islamica in Italia. Sotto il secondo governo Conte nulla si è mosso su questo fronte, ma ora i tempi sono maturi per proseguire il cammino dell’intesa. Bisogna rendere chiaro un punto: meglio una presenza islamica regolamentata e coinvolta nel dialogo con le istituzioni pubbliche e con le altre religioni, che un islam sommerso e raccolto semi-clandestinamente negli scantinati.
Come si vede, l’immigrazione è un fenomeno assai più complesso e variegato delle contese sull’accoglienza dei profughi. Auguriamo sinceramente al governo Draghi di riuscire a sciogliere almeno alcuni degli intricati nodi che ha ricevuto in eredità.