Uno strumento per leggere la distribuzione di risorse per il welfare ai Comuni


A cura di Maurizio Motta | 26 Novembre 2019

La fondazione Openpolis ha presentato il rapporto “Il calcolo disuguale”, costruito con la collaborazione della trasmissione TV di Rai 3 Report, che analizza la distribuzione delle risorse ai Comuni per i servizi di welfare.

Discutiamo con Martina Zaghi, ricercatrice di Openpolis, di alcune questioni connesse a questo quadro del federalismo fiscale.

 

Può sinteticamente descrivere in che cosa consiste questo vostro lavoro?

L’analisi che abbiamo svolto in collaborazione con Report ha lo scopo di fare luce sugli effetti del federalismo fiscale sui comuni delle regioni a statuto ordinario. Il sistema di finanziamento agli enti locali, introdotto dalla riforma del titolo V della costituzione nel 2001 e dalla legge 42 del 2009, è stato attuato solo in parte e non ha contribuito a ridurre l’ampio divario in tema di risorse e servizi tra le varie aree d’Italia.

Abbiamo quindi cercato di ricostruire, attraverso dati e documentazioni ufficiali, il sistema di finanziamento ai Comuni. Utilizzando dati comunali provenienti da Sose (società partecipata dal ministero dell’economia e dalla banca d’Italia), dal ministero degli interni e da Istat, abbiamo realizzato una banca dati inedita sul fabbisogno standard, uno degli indicatori che determina la ridistribuzione di risorse ai comuni. Inoltre, abbiamo elaborato una proiezione di come verrebbero distribuiti i finanziamenti ai comuni se il sistema funzionasse, come previsto dalla Costituzione, con i livelli essenziali di prestazioni e la perequazione totale.

 

A che cosa servono, in base alla normativa attuale, i fabbisogni standard, e come sono calcolati? I fabbisogni finanziari di chi gestisce servizi (ad esempio i comuni) dovrebbero essere conseguenza dei servizi che sono individuati come essenziali. Poiché non esistono ancora i livelli essenziali delle prestazioni sociali, usare i fabbisogni standard è comunque utile?

I fabbisogni standard servono a determinare il fabbisogno finanziario dei comuni per svolgere le proprie funzioni fondamentali, quali la gestione dei rifiuti, il trasporto pubblico, i servizi sociali e altre. Sono attualmente calcolati solo in base alla spesa media per i servizi, di Comuni simili a quello considerato per caratteristiche demografiche, socio-economiche e morfologiche. Secondo quanto previsto dalla Costituzione, tutti i Comuni devono svolgere le proprie funzioni fondamentali a determinati livelli di prestazione e lo Stato deve mettere a disposizione un fondo per aiutare i comuni che non ci riescono. Tuttavia, lo Sato non ha ancora individuato i livelli essenziali di prestazione (Lep). Questo è il motivo per il quale i fabbisogni, e di conseguenza la ripartizione delle risorse ai comuni, sono attualmente solo basati sulla spesa dei comuni e non sulla qualità dei servizi offerti, né sui livelli di prestazioni che dovrebbero essere raggiunti e offerti ai cittadini. La definizione dei Lep è fondamentale soprattutto per indirizzare i finanziamenti ai comuni più svantaggiati e permettere a tutti i cittadini, a prescindere dal territorio in cui vivono, di accedere a dei servizi con un determinato livello di qualità. Quindi usare i fabbisogni standard così come sono attualmente definiti non è efficace per ridurre le disparità interne al paese, perché questo meccanismo di finanziamento si basa su calcoli legati alla spesa e non al reale fabbisogno di servizi.

 

Che cosa emerge dalla vostra analisi comparando diversi territori del paese?

Ciò che emerge dalla nostra analisi è che territori che non spendono, per scarsità di risorse o perché del tutto privi di alcuni servizi, registrano fabbisogni standard inferiori, o addirittura nulli, rispetto a territori dove l’offerta di servizi è maggiore. Questo è un paradosso, dal momento che dovrebbero essere proprio i comuni con meno risorse per i servizi a vedersi riconosciuto un fabbisogno di risorse più alto, appunto per colmare il divario di servizi offerti ai cittadini rispetto ai comuni che hanno già prestazioni più consistenti. Tale sistema penalizza soprattutto i comuni del sud: offrono meno servizi per i quali spendono meno e quindi registrano fabbisogni inferiori. Al contrario, i territori del centro-nord e le grandi città, che hanno un’offerta di servizi ampia e diffusa sul territorio, hanno livelli di spesa più alti e quindi maggiori fabbisogni standard.

Un esempio concreto dei limiti dei fabbisogni standard nel riconoscimento dei fabbisogni reali dei territori riguarda i servizi sociali. Dagli asili nido all’assegnazione di alloggi popolari, dagli inserimenti lavorativi ai sussidi per le famiglie in difficoltà, ogni comune offre servizi sociali, per i quali viene riconosciuto un fabbisogno. Per verificare l’efficacia dei fabbisogni standard, abbiamo analizzato per tutti gli enti: il livello di spesa sociale, la presenza di famiglie in disagio economico e i fabbisogni sociali riconosciuti. Il quadro che emerge è il seguente: i comuni del sud Italia registrano i livelli più bassi di spesa sociale e le maggiori percentuali di disagio economico. Di conseguenza, i fabbisogni riconosciuti a questi territori sono bassi, nonostante siano in realtà i più svantaggiati a livello sociale.

 

Quale utilità può avere Il vostro materiale per i cittadini ed i soggetti sociali? E per i decisori politici? Sarebbe utile costruire altri strumenti di conoscenza?

Il federalismo fiscale e l’autonomia differenziata sono argomenti di interesse pubblico, che nel corso degli anni sono stati spesso al centro del dibattito politico e mediatico. Nonostante ciò, la maggiore difficoltà con cui ci siamo scontrati lavorando su questo tema è la mancanza di trasparenza e chiarezza sul sistema di finanziamento ai comuni. È importante invece, sia per le amministrazioni locali che per i cittadini, sapere con quali criteri viene stabilita la distribuzione delle risorse ai territori. Per questo motivo, nella versione online del dossier, è possibile consultare liberamente la banca dati che abbiamo elaborato sui fabbisogni standard e la proiezione sulla ripartizione del fondo di solidarietà comunale. Così come le mappe nazionali e regionali, realizzate per agevolare la comprensione e la diffusione di queste informazioni.

Per i decisori politici, la nostra analisi sul federalismo fiscale vuole essere un invito e una provocazione a intervenire sulle lacune di questo sistema. Se da una parte è indispensabile che sia un modello matematico a mettere in atto il meccanismo di distribuzione delle risorse, dall’altra è necessario che segua delle scelte politiche. È la politica che deve prendersi carico della direzione da seguire per cambiare le disparità interne al paese, riorganizzando il sistema in base a quanto previsto dalla costituzione. Da una parte, definendo i livelli essenziali di prestazione dei servizi, dall’altra, intervenendo sull’origine delle risorse da distribuire. Attingere a un fondo finanziato dagli stessi comuni per coprire i fabbisogni di tutto il territorio non è sufficiente. Dovrebbe essere lo Stato a mettere a disposizione un fondo nazionale esterno alle casse dei comuni per colmare il vuoto. In questo modo verrebbe garantita a tutte le amministrazioni comunali, la possibilità di svolgere le proprie funzioni fondamentali e fornire dei servizi essenziali ai cittadini, almeno a un livello base di qualità.

Secondo voi è possibile pervenire a definire livelli essenziali delle prestazioni nazionali (anche come standard e volumi di servizi da garantire) da osservare in tutte le regioni? E dunque un meccanismo che eviti improprie differenze tra regioni, configurando le discrezionalità delle Regioni per integrare e non sostituire i livelli essenziali nazionali?

È possibile. Lo sforzo consiste proprio nell’andare oltre le storiche differenze regionali, per configurare un livello base di qualità a cui ogni cittadino ha diritto di accedere a prescindere dal territorio in cui vive. E una volta definiti i Lep, lo stato deve intervenire per far sì che tutti i territori al di sotto di quei livelli li raggiungano.

 

In aggiunta alle riflessioni di Martina Zaghi, e con riferimento allo strumento proposto da Openpolis, merita ricordare che muovere verso livelli essenziali delle prestazioni che garantiscano ai cittadini un set minimo di interventi ovunque, e diventino dunque il fondamento dei meccanismi di finanziamento dei comuni, implica anche misurarsi con questi nodi di rilevante rilievo politico:

  • un utilizzo dei livelli essenziali che li identifichi come diritti soggettivi da rendere esigibili ai cittadini, evitando che siano solo declamati e non fruibili nei fatti. Ad esempio senza ripetere ciò che oggi accade con alcune prestazioni sociosanitarie per i non autosufficienti (come l’assistenza domiciliare o l’inserimento in strutture residenziali) che pur essendo esposte nei LEA (i livelli essenziali del Servizio Sanitario Nazionale) sono “finanziariamente condizionati”, ossia esigibili solo se sono disponibili risorse finanziarie
  • un modo di pensare alle autonomie regionali che non conduca a “livelli essenziali solo regionali”, ossia a differenziare impropriamente i diritti dei cittadini tra territori
  • una difficoltà tecnica non da poco per definire i livelli essenziali delle prestazioni socio assistenziali, che non possono esaurirsi nella declaratoria di standard strutturali o organizzativi, ma riguardano anche percorsi di sostegno