Verso il nuovo Piano per le non autosufficienze


Sergio Pasquinelli | 24 Febbraio 2017

Due per cento, cinque per cento, tre per cento: sto leggendo i tassi d’uso dei servizi sociali e sociosanitari da parte della popolazione anziana, dati Istat e Inps. Viene da chiedersi: e tutti gli altri? Come si organizzano?

Segna il passo il welfare dei servizi. Quello per le disabilità in età giovane e adulta e per la non autosufficienza over 65. Una rete di aiuti in affanno che stenta a seguire i ritmi di crescita della domanda, in particolare quella della terza età. Una rete di aiuti che continua a essere disconnessa e sovrastata dal welfare solitario della moneta su richiesta, dei trasferimenti economici statali.

Un welfare stanco?

I servizi per gli anziani che conosciamo di più, quelli più consolidati, l’assistenza a domicilio, i ricoveri in struttura e anche quelli a ciclo diurno, rappresentano oggi una realtà statica se considerata nei grandi numeri, nei tassi di copertura della domanda, nella diffusione sul territorio. Una nicchia di servizi che stenta a crescere, in un paese dove gli anziani aumentano al ritmo di 280.000 unità all’anno. L’Adi (l’assistenza domiciliare delle Asl) è l’unico servizio ad essere aumentato, ma in una misura eloquente: più 1,4% nell’arco degli ultimi sette anni.

Quando si parla di valutazione multidimensionale e percorsi di presa in carico viene in mente lo sforzo di costruire una portaerei per farci atterrare un deltaplano, viste le dimensioni del bisogno di fatto intercettato. E che evidentemente, in larga maggioranza, si risponde da solo.

Va un po’ meglio per la disabilità giovane e adulta, l’unica area di interventi sociali che ha visto la spesa dei Comuni italiani aumentare negli ultimi anni (+ 60 milioni tra il 2011 e il 2012). Ma dove permangono dei vuoti: per esempio per chi fuoriesce dal circuito della neuropsichiatria infantile una volta diventato maggiorenne.

Innovare la filiera domiciliare

C’è un grande bisogno di riarticolare i sostegni, sviluppare mix di interventi e servizi, rispondere più efficacemente a bisogni che cambiano. Non c’è solo bisogno di “di più” ma anche “di diverso”.

In particolare nei servizi domiciliari, verso quella che abbiamo chiamato una “Domiciliarità 2.0”1, che rilanci servizi rimasti uguali negli anni e sempre meno efficaci. Una rete che valorizza i servizi più consolidati, li connette con interventi e progetti innovativi, che fa sintesi in termini di governo di sistema, tra il quadro dei bisogni e quello delle risposte. E’ una rete che mette in relazione aiuti diversi: assistenza di base con quella specialistica, trasporti, residenzialità temporanea, ristorazione, acquisto di medicine, pratiche burocratiche.

Vanno sviluppati luoghi di primo livello che informino e che diffondano proattivamente le informazioni alle famiglie, cioè luoghi che “si fanno prossimi alle famiglie”. Occorre porre attenzione a come questa informazione viene comunicata, diffusa, resa disponibile e intercettata dal bisogno potenziale. Secondo il modello “One stop shop”: punti di accesso a bassa soglia che integrano, valorizzandole, le diverse offerte informative già esistenti nei territori. Serve per questo un grande lavoro di connessione, di collaborazione, e di ricomposizione su due assi: tra pubblico, privato sociale, parti sociali e tra comparti diversi del pubblico: sociale, sociosanitario e sanità (Comuni, Asl, Ospedali).

Domiciliarità 2.0 è una rete che si adatta a bisogni diversi, che richiedono forte specializzazione ma anche aiuti semplici e a bassa complessità. E’ una rete che guarda ai caregiver, non solo agli anziani, e all’incremento delle patologie cognitive e cronico degenerative in età avanzata. E’ una rete che valorizza tutte le risorse intermedie comprese tra la propria casa e il ricovero in struttura: una rete ancora sottosviluppata nella maggior parte dei territori, che alimenta il fenomeno dei ricoveri impropri e quello delle cure domiciliari complicate o poco efficaci.

Servono riconoscimenti per nuove figure professionali emergenti: l’infermiere di comunità, la baby sitter condivisa, la badante di condominio. Lo stesso spazio che cercano nuove piattaforme digitali, come nel caso delle app (ne stanno nascendo parecchie) che offrono informazioni sulle prestazioni, i servizi e le opportunità disponibili per le famiglie, comprese quelli legati al ricorso a una badante.

 

Il nuovo Piano nazionale per le non autosufficienze

Di tutto questo dovrà tener conto l’annunciato nuovo Piano nazionale per le non autosufficienze. Ci siamo un po’ abituati a Piani che rimangono sulla carta e a buone intenzioni rimaste lì. Sta succedendo con il Piano nazionale Alzheimer, la cui attuazione sta procedendo a ritmi rallentati, l’auspicio è che non si ripeta con il nuovo Piano previsto.

Per le non autosufficienze in età anziana occorre costruire un sistema che riduca le grandi differenze territoriali nella dotazione di servizi, che innalzi la qualità, che faccia leva su interventi domiciliari non più marginali, che affronti finalmente il lavoro delle badanti nelle sue diverse problematiche, che riveda una misura vecchia e insufficiente come l’indennità di accompagnamento, che promuova azioni coordinate per l’invecchiamento attivo, come ha sollecitato il recente Rapporto Auser sugli anziani in Italia. E che si doti di strumenti di controllo, valutazione, conoscenza, non formali, con un necessario coinvolgimento delle Regioni, dei sindacati, dell’associazionismo che lavora quotidianamente sul campo.

  1. Si veda il “Primo rapporto sul lavoro di cura in Lombardia”, capitolo 6.