Verso la fine del sociale?


Remo Siza | 24 Aprile 2018

In quest’ultimo decennio abbiamo continuato a proporre le misure e le azioni pensate negli anni Novanta del secolo scorso e troppo spesso non ci siamo resi conto che è cambiato l’ambiente di vita nel quale operano le politiche sociali, e che i cambiamenti in termini di risorse disponibili e di rischi sociali hanno ridotto significativamente l’efficacia di molti programmi, quelli soprattutto di conciliazione, di attivazione delle capacità delle persone, di contrasto delle povertà e di recupero ad una vita attiva.

 

In Europa, negli anni Novanta, per affrontare i nuovi emergenti rischi sociali sono stati introdotte nuove configurazioni di welfare (il welfare attivo, il social investment welfare state) e hanno assunto centralità misure di attivazione delle capacità delle persone, programmi volti a conciliare i tempi di vita con i tempi di lavoro, a rafforzare i servizi per l’infanzia e per la non autosufficienza degli anziani, a contrastare la trasmissione intergenerazionale delle povertà economica ed educativa (Morel et al. 2012). Queste programmi e azioni si sono diffusi, in differente misura, in tutti welfare europei nella convinzione che gli effetti negativi delle dinamiche di mercato fossero segno di una modernità irreversibile e comunque fossero governabili individuando nuove soluzioni di politica sociale. Allo stesso tempo, era data per scontata la solidità e la consistenza della sfera sociale, la sfera cioè della relazionalità umana che non è di carattere strumentale o che non è determinata da norme, e che questa sfera potesse garantire comunque relazioni collaborative, sostegni e risorse di cura diffuse, interagire e integrare efficacemente le risorse formali di welfare pubbliche e private.

 

In realtà in quest’ultimi anni è cambiato profondamente lo “sfondo” in cui si sviluppano le politiche di welfare. La crisi coinvolge in parte i principi e la progettazione iniziale dei programmi sociali del social investment welfare state e, in maggior misura, la loro evoluzione. Allo stesso tempo, riguarda la consistenza del sociale, le risorse collaborative di cui dispone. I gruppi sociali, i legami distintivi e le forme associative, il terzo settore nel suo complesso e le relazioni informali di aiuto, le appartenenze, i valori con i quali abbiamo rappresentato per molti anni la forza del sociale, hanno perso rilevanza e specificità. Molte relazioni di cura e di sostegno sono diventate ancora meno stabili ed efficaci, il sociale nel suo complesso è caratterizzato da contorni sempre meno netti rispetto alle dinamiche del mercato e ai rapporti puramente amministrativi. Le nuove forme di socialità fra le persone che costruiscono autonomamente risorse di cura e di socialità, pur rilevanti e molto diffuse, non sembrano ancora capaci di sostituire la forza delle tradizionali relazioni di cura e appartenenze.

 

In questi anni, i rischi sociali che avevano sollecitato a partire dagli anni Novanta le ricalibrature del welfare, per molti aspetti si sono radicalizzati. I rischi che emergono nel mercato del lavoro sono molto più estesi di quelli presenti nel decennio scorso. La qualità del lavoro in termini di precarietà, di diritti, di livelli retributivi è peggiorata notevolmente, le condizioni lavorative sono sempre meno conciliabili con la vita familiare anche in presenza di programmi di sostegno articolati. Dopo la crisi economica e finanziaria, un numero molto elevato di famiglie ha sofferto una riduzione sensibile del reddito e delle risorse di welfare. La capacità della famiglia di costruire percorsi di mobilità sociale è diminuita sensibilmente e il crescere delle sue responsabilità sociali nei confronti delle nuove generazioni economicamente non autonome per fasi di vita e tempi molti estesi, ha contribuito a ridurre ulteriormente la sua capacità protettiva e di cura nei confronti delle generazioni più anziane.

 

È diventata molto più rischiosa l’autonomia delle persone. L’individuo attivo auspicato dal social investment welfare state che si sottrae ai vincoli tradizionali e dalle dipendenze dalla famiglia, dalla rete parentale e dalle organizzazioni collettive inevitabilmente si affida ad una nuova dipendenza, quello del mercato del lavoro immaginato dinamico e aperto, ricco di opportunità. Ciò di cui non si tiene conto è che il mercato del lavoro si è oramai stabilizzato su livelli di precarietà troppo elevati, in molti contesti non è affatto dinamico e aperto, e le retribuzioni sono sempre meno sufficienti per assicurare una vita indipendente. Anche i programmi di contrasto delle povertà si complicano ulteriormente: una parte consistente delle famiglie in condizione di povertà persistente è stata per anni abbandonata in quartieri con una presenza elevata di condizioni di degrado, di criminalità, che rendono ora molto più difficile rispetto al passato ogni processo di recupero ad una vita attiva. Per queste e altre ragioni le esigenze dell’individuo attivo diventano di nuovo protezione, sicurezze di base, reddito minimo, salute, più che rapidi e standardizzati processi di attivazione delle sue risorse umane e professionali.

 

Nei primi anni del nuovo millennio, Touraine (2004) osservava il crollo dell’universo che abbiamo chiamato sociale, la scomparsa della società come sistema integrato e portatore di un senso generale; la crisi di quelle che comunemente sono definite agenzie di socializzazione, la scuola e la famiglia, e di quelle categorie sociali, come i movimenti, le classi sociali che utilizzavamo per descrivere il sociale e le sue risorse collaborative o di conflitto. In anni più recenti, altri autori hanno rilevato una più radicale marginalizzazione del sociale dalle istituzioni e dalla vita quotidiana delle persone per lasciare spazio ad una rappresentazione economica delle motivazioni individuali, una visione semplificata delle relazioni umane e dell’efficacia di sanzioni e incentivi nel favorire cambiamenti personali (Atkinson et al. 2017; Winlow e Hall 2013). Le politiche sociali si sviluppano in uno spazio di vita che è definito prevalentemente in termini economici, nelle sue priorità, nei suoi criteri organizzativi, nelle sue rappresentazioni degli operatori e dei beneficiari e delle loro scelte.

 

La crescente divaricazione che si è stabilita tra le politiche di welfare pensate sul finire degli anni Novanta e le dinamiche del mercato del lavoro e dell’economia nel suo complesso non sembra, però, che possa costituire un’evoluzione irreversibile e possa delineare società sufficientemente stabili. Il sistema economico e sociale che in questi anni si è consolidato ha capacità inclusive molto ridotte, crea troppe condizioni precarie di vita e troppe povertà persistenti ai suoi margini, non assicura sicurezze di base e una mobilità sociale adeguata a larghi strati di popolazione, crea divisioni e disuguaglianze sociali difficilmente governabili (Siza 2018).

La radicalizzazione dei rischi sociali e l’indebolirsi dei soggetti di welfare storicamente presenti nel sociale evidenziano i limiti dei programmi e degli strumenti pensati nei decenni trascorsi e l’esigenza di un ritorno del sociale, di ricostruire collettivamente condizioni che promuovano una valorizzazione estesa delle sue risorse e dei suoi valori, dei legami sociali e delle appartenenze, azioni sociali di coinvolgimento consapevoli della rilevanza delle relazioni collaborative e di fiducia nel migliorare il benessere delle persone.

 

Non sorprende, pertanto che importanti organismi internazionali, come l’Oecd e il Fondo monetario internazionale, ora sollecitino cambiamenti profondi del welfare e della qualità del lavoro e dei livelli retributivi dopo che per anni si sono limitati a proporre quasi esclusivamente attivazione lavorativa e mercato del lavoro flessibile. L’attuale evoluzione dei sistemi di welfare è contrastata efficacemente, altresì, da istituzioni, professioni sociali e reti associative consapevoli dei loro tratti distintivi, che propongono e sostengono un’altra rappresentazione delle esigenze delle persone, che coinvolgono e valorizzano relazioni umane e le risorse di cura che queste relazioni esprimono, operano concretamente e costruiscono in molto ambiti di welfare modalità di intervento che riconoscono la pluralità dei fattori che favoriscono il comportamento responsabile delle persone e la convivenza civile.


Commenti

Sono anni che rifletto su questi temi, ma soprattutto sul fatto che mai nessuno, dico nessuno, politici compresi, si sia mai interessato al destino di migliaia di operatori del settore. Mi riferisco, in particolare,a quanti sono impegnati nel garantire la corretta applicazione dei piani di zona. Tutti precari! psicologi, sociologi, educatori professionali con contratti a termine (ma solo su carta visto che con questi stessi contratti operano da anni) sottopagati e privi delle minime garanzie. Il tutto a svantaggio dell’utenza e dei servizi, la cui continuità non sempre viene garantita.