L’esame combinato dei materiali provenienti da due filoni di ricerca – i dati sulla cooperazione sociale italiana, recentemente pubblicati su Impresa Sociale, e le analisi sul lavoro sociale, sviluppate da Welforum (1 – 2 – 3 – 4 e altri) e da altri soggetti – restituisce un’immagine altamente problematica del welfare nel nostro paese.
Partiamo con i dati relativi alle cooperative sociali e, in specifico, alla loro sostenibilità economica.
In questo decennio – con l’eccezione in negativo del 2020, connessa all’emergenza sanitaria – la cooperazione sociale italiana, il cui fatturato complessivo è nel 2022 di circa 17.5 miliardi di euro, mostra un risultato di esercizio (la voce anche denominata “Utile” o “Perdita”) aggregato pari a circa 100 milioni di euro annui, pari, con riferimento al 2022 (e similmente agli anni precedenti), a circa lo 0.65% del predetto fatturato, quota notevolmente inferiore a quella riscontrata nelle ricerche sulla cooperazione sociale di alcuni anni fa. In altre parole, in media, una cooperativa sociale che fatturi un milione, una volta sostenuti tutti i costi, riesce a destinare al rafforzamento del proprio patrimonio circa 6.500 euro.
Una cifra già di per sé irrisoria, se si considera che queste imprese sociali generalmente nascono con un capitale molto limitato – i soci non sono ricchi investitori, ma persone che possono apportare principalmente la propria capacità di lavorare – ma, storicamente, grazie alla capacità di mettere ogni anno da parte una quota di risorse, hanno costituito dei patrimoni proporzionati alle necessità di investimento (Bernardoni e Picciotti 2024) e quindi adeguati alla realizzazione di attività sociali diverse dalla mera fornitura di manodopera e ad investire nell’innovazione dei servizi. Ne consegue quindi che, laddove questo gettito si insterilisce, le cooperative sociali vedrebbero limitata la possibilità di sviluppare la propria azione sociale (Fazzi 2024).
Ma tali numeri mostrano un risvolto ancora più preoccupante (vedi qui l’articolo dal quale questi dati sono tratti). Esaminando i bilanci delle 9656 cooperative sociali che conseguono un fatturato medio nell’ultimo biennio disponibile (2021 – 2022) pari ad almeno 100 mila euro (le altre sono residuali) è possibile disaggregare le cooperative sociali per entità del risultato di esercizio conseguito nel 2022, con la distribuzione evidenziata nella successiva tabella e che mostra come si giunge ai 113 milioni di risultato di esercizio positivo.
Tabella 1
Risultato di esercizio |
% di cooperative in questa condizione |
Somma risultati di esercizio |
|
N° |
% |
||
1. Meno a -25.000 euro |
1.267 |
13,1% |
-168.890.782 |
2. Da -25.000 a 0 euro |
1.709 |
17,7% |
-16.165.118 |
3. Da 0 a 5.000 euro |
2.325 |
24,1% |
4.063.555 |
4. Da 5.000 a 25.000 euro |
2.073 |
21,5% |
26.321.554 |
5. Da 25.000 a 100.000 euro |
1.588 |
16,4% |
79.251.297 |
6. Oltre 100000 euro |
694 |
7,2% |
188.522.041 |
Totale |
9.656 |
|
113.102.547 |
Alla luce di questi dati, è bene essere consapevoli che l’affermazione circa i 113 milioni di utile aggregato nel 2022 può essere riformulata come segue: la cooperazione sociale è divisa in due parti di numerosità simile, la prima delle quali (il 55% di cooperative sociali contenuta nelle prime tre categorie della Tabella 1 – 5301 in numero assoluto – in perdita o poco sopra la linea di pareggio) perde complessivamente circa 181 milioni (34 mila in media a testa) e l’altra (le 4355 cooperative delle ultime tre categorie) che produce un risultato positivo di esercizio pari complessivamente a circa 294 milioni, pari in media a 67.500 di risultato positivo a testa.
O, altrettanto correttamente, si potrebbe affermare che il 93% delle cooperative – le prime cinque classi della Tabella 1 – complessivamente, perdono in un anno 75 milioni di euro (somma algebrica della colonna “somma risultati di esercizio”), circa 8 mila euro a testa in media; d’altra parte, invece, un 7% di cooperative, che in media fanno ciascuna utili per oltre 270 mila euro, portano l’aggregato complessivo a oltre 113 milioni e il dato medio a + 11.713 euro.
E, infine, si potrebbe correttamente anche affermare che, se non si considerasse il 2% dell’universo della cooperazione sociale, quelle 197 cooperative su 9656 che hanno risultati di esercizio positivi per 260 mila euro e oltre, il risultato di esercizio aggregato della cooperazione sociale – delle restanti 9459 cooperative – sarebbe pari a zero anziché positivo per 113 milioni.
Provando a tradurre: pensiamo ad una metropoli o una provincia dove operino cento cooperative sociali e non consideriamo le due con performance particolarmente buone e che chiudono con più di 500 mila euro a testa di margine. Le restanti 98 – provando a tracciare un quadro coerente con le ricerche sopra citate – daranno lavoro a 4000 / 5000 persone, avranno probabilmente un giro d’affari complessivo di circa 180 milioni; e, in media, non metteranno da parte, a fine anno, nemmeno un euro. Nemmeno uno.
Dietro a questa media pari a zero, vi saranno situazioni diverse – alcuni casi più marcatamente positivi, altri più marcatamente negativi – ma con una netta maggioranza di risultati di esercizio poco sopra o poco sotto la linea di pareggio. Anche qui, provando a tradurre: si tratta di cooperative sociali che, a fronte delle tante (e debordanti) esigenze di destinazione del valore aggiunto disponibile (ai lavoratori che reclamano trattamenti economici migliori, agli utenti che necessiterebbero di una qualità del servizio migliore, ecc.), spendono sin che possono, attestandosi nella maggior parte dei casi sulla linea minima di galleggiamento e rimandando o annullando oneri ulteriori. Ragionevolmente, tra le spese limitate o depennate, vi sono quelle voci non strettamente necessarie alla sopravvivenza immediata che si traducono però in maggiore la qualità del lavoro: formazione, coordinamento, ricerca, sviluppo, ecc., nella tradizione del nonprofit starvation cycle ben descritta da Carola Carazzone: sono messi da parte elementi che portano ad un degrado della qualità e quindi ad una ulteriore diminuzione di risorse da parte dei clienti.
E ora si esamini il fronte del lavoro sociale. Di questo molto si è scritto, mettendo in evidenza criticità significative (oltre ai già citati contributi di Welforum, tra i tanti, Fazzi 2024, Giullari 2024, Pasquinelli 2024) che creano una diffusa disaffezione verso il lavoro sociale, con conseguente difficoltà di trovare nuovi operatori e abbandono del lavoro da parte di chi è in servizio: oltre, di base, a retribuzioni basse, vi sono i tempi di spostamento non riconosciuti, le retribuzioni condizionate alla presenza dell’utente, orari ultra flessibili e monte ore variabile di mese in mese, carriere intermittenti con prospettive pensionistiche drammatiche, un lavoro ridotto a prestazioni frammentate su diversi servizi – magari con discontinuità di orario – così da potere ottimizzare i costi, e così via. Su questo non ci si dilunga, rimandando ai contributi citati.
La domanda, quindi, diventa: siamo consapevoli che,
- anche con diffusi esempi di penalizzazione del fattore – il lavoro – che costituisce la principale voce di spesa nel bilancio di una cooperativa,
- anche con una limitazione drastica di tutte le spese di struttura,
i conti della cooperazione sociale sono a zero e che questo rappresenta – oltre che una profonda ingiustizia nei confronti delle cooperative sociali e dei lavoratori che vi operano – un fattore distruttivo del welfare del nostro paese?
Domanda retorica. E la risposta è no, non ne siamo consapevoli. E di questo vi sono abbondanti prove, tanto dall’ente pubblico, quanto da alcuni settori della cooperazione.
Da parte della pubblica amministrazione, quante volte vi sono capitolati di appalto che, nell’ambito di gare con un budget già conformato sul puro costo del lavoro, introducono quale elemento di competizione delle “prestazioni aggiuntive” a costo zero? Quante sono le coprogettazioni che impongono un “cofinanziamento”, anche a due cifre, non inteso come ricerca comune di risorse da fare come partenariato, ma proprio come risorse che il terzo settore è obbligato a conferire gratuitamente? Nell’uno e nell’altro caso, tutto ciò ben rappresenta una pubblica amministrazione che si impegna con successo a segare il ramo dell’albero sul quale è seduta, con conseguente la caduta collettiva di pubblica amministrazione stessa, cooperative sociali e cittadini.
Quante volte, da parte della cooperazione, a fronte di questa situazione, si è in questi vent’anni fantasticato di ipotetici proventi dalla vendita di attività ai privati che avrebbero restituito margini di redditività calanti? Come se aggredire la spesa privata delle famiglie – in un mercato non privo di badanti e baby sitter in nero – fosse una strada comunemente percorribile (e sempre che questa strategia abbia esiti accettabili in termini di equità, questione quasi mai messa a tema nell’ambito di questi discorsi). Di fatto, gli esiti di questa dottrina sono nei numeri prima esposti.
Descritto in questo modo, sembra un quadro fosco e senza via d’uscita. Ma non è così.
Esperienze virtuose, segnali che un altro scenario è possibile, ci sono. Si tratta di casi in cui – generalmente nell’ambito di procedimenti di amministrazione condivisa ben diversi da quelli prima evocati – i diversi soggetti di interesse generale, pubblici e di Terzo settore, si confrontano con trasparenza sugli obiettivi condivisi e sulle strategie per perseguirli. In tali casi non esiste la logica contrappositiva, e una situazione di insostenibilità – riprendendo uno degli esempi prima richiamati, un assetto preesistente dei servizi in cui l’operatore è pagato solo se quel giorno l’utente si presenta – non sono problemi né del lavoratore, né della cooperativa in cui opera, ma questioni ugualmente assunte da tutto il gruppo così da superare tale situazione (come, continuando con l’esempio, è un problema comune creare le condizioni organizzative affinché, in caso di assenza dell’utente, quell’operatore possa fare altre cose utili all’interesse generale e non restare senza far nulla). In questi casi virtuosi si investe su gruppi di lavoro misti, pubblico e Terzo settore, fatti di persone il più possibile stabilmente legate ad un servizio e ad un territorio, che lo sentono proprio, che investono nel proprio lavoro trovandocisi bene, con cooperative che diventano partner effettivi in progetti di innovazione.
Certo, tutto ciò richiede fiducia e può creare dei costi immediati leggermente maggiori; ma l’alternativa è quella del degrado che ben conosciamo: cooperative sul filo del fallimento che smettono di investire in qualità e innovazione, lavoratori introvabili, demotivati e pronti non appena possibile a cambiare lavoro, servizi che procedono in modo insoddisfacente e sempre in affanno, con la pubblica amministrazione che altro non può fare che tollerare il degrado, maturando nel frattempo un’idea negativa del Terzo settore. E, alla fine, a ben vedere, un costo per unità di prodotto reale non inferiore a quello che si otterrebbe lavorando con trasparenza e fiducia reciproca.
Il paradosso è che l’amministratore pubblico che imposta questa situazione è generalmente convinto di adempiere responsabilmente al proprio compito, gestendo con rigore le risorse pubbliche; e che il presidente di cooperativa ritiene di essere eroico nel riuscire a offrire comunque il servizio malgrado le pochissime risorse. Entrambi pensano di meritare una medaglia, entrambi stanno affossando il welfare.